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Genitori e figli

Il Vangelo di questa domenica inizia così: «I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua»

Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83 (84); 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

          Il Vangelo di questa domenica inizia così: «I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua».

          Pasqua è la prima delle feste del pellegrinaggio che ogni ebreo osservante desidera trascorrere a Gerusalemme, e per chi vive in Eretz Israel si concretizza proprio nel recarsi a Gerusalemme. Se questo è vero oggi lo era ancor di più al tempo di Gesù, quando vi era il Tempio e tantissimi pellegrini si recavano nella «Città del Signore, Sion del Santo d’Israele» (Is 60,14).

          Anche Giuseppe, Maria e Gesù, probabilmente insieme ad altre famiglie del villaggio di Nazaret, intraprendono il loro pellegrinaggio per celebrare la Pasqua. È probabile, date le indicazioni del Vangelo, che in quella stessa occasione e durante la loro permanenza in città, i genitori abbiano organizzato anche il bar mitzwah del loro ragazzo. Il bar mitzwah, letteralmente «figlio del comandamento«, è la celebrazione del passaggio di un ragazzo ebreo dall’età dell’infanzia a quella della giovinezza, in cui il giovane assume consapevolmente la propria appartenenza al popolo dell’alleanza e agli impegni che questo comporta.

          Non c’è da stupirsi dunque che Gesù sia nel Tempio e che parli con i maestri, dato che una delle caratteristiche del bar mitzwah è proprio un’adeguata formazione e conoscenza religiosa che il ragazzo deve acquisire e nello stesso tempo dimostrare.

          In realtà non è neanche difficile immaginare che Gesù, immerso in tali discorsi e avendo l’opportunità di ascoltare e confrontarsi con i maestri del Tempio, abbia perso la cognizione del tempo e non si sia accorto che nel frattempo la carovana dei suoi parenti e conoscenti avesse ripreso la via del ritorno a Nazaret.

          Anche i suoi genitori probabilmente avevano pensato che tra i ragazzi del gruppo, che magari più veloci e agili si erano portati avanti lungo il cammino, ci fosse anche il loro figlio. A un certo punto, però, si accorgono della sua assenza e incominciano a preoccuparsi al punto di decidere di fare ritorno da soli a Gerusalemme. Cercare un ragazzo in mezzo alla folla dei pellegrini non è uno scherzo e non è difficile immaginare la loro preoccupazione, tensione e paura nel cercarlo.

          Alla fine lo ritrovano nel Tempio «seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava». Stupore, meraviglia e anche sollievo per averlo ritrovato fanno esplodere Maria in quella domanda che esprime tutta la loro incapacità di comprendere quello che sembra ai loro occhi un atteggiamento poco attento, e noncurante degli obblighi che un figlio avrebbe dovuto avere nei confronti dei suoi genitori: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». E non c’è da stupirsi che a fare questa domanda/rimprovero sia proprio Maria, dato che l’educazione dei figli nel mondo ebraico era principalmente compito della madre.

          La risposta di Gesù non è certamente di scuse e in un certo qual modo spiazza ulteriormente i suoi genitori che, ci dice Luca, non comprendono le sue parole: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».

          L’incidente di percorso comunque si chiude qui, Gesù rientra a Nazaret con i suoi e Luca assicura i suoi lettori del fatto che non ci sono più state «alzate di capo» come questa almeno fino a quando il ragazzo, divenuto un adulto, deciderà di lasciare la sua casa, il suo villaggio e di recarsi in Galilea. Ma questa è già un’altra storia.

          L’unica, a quanto pare, che non dimentica quanto è avvenuto è Maria: «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore».

          Credo che il «mestiere» di madre, come anche quello di padre, sia tra i più difficili al mondo, proprio perché non è sempre facile comprendere ciò che passa nella mente di un figlio o di una figlia, essergli o esserle accanto, cercare di sostenerlo/a e allo stesso tempo lasciare che prenda la sua strada, che segua i propri interessi, trovi e realizzi il senso della propria esistenza. Per tutto questo non ci sono dei «manuali guida» e neanche dei corsi di formazione, perché ogni figlio/figlia è un unicum al mondo, portatore sì dei loro geni e dei «caratteri» della famiglia in cui viene al mondo, ma allo stesso tempo diverso/a nella propria unicità. E di questa unicità/diversità Gesù è sicuramente l’esempio culmine. Dall’altra parte proprio questo episodio può farci riflettere su quanto anche per il ragazzo Gesù non sia stato facile comprendere e intraprendere la propria strada. Una strada unica, particolare e soprattutto senza modelli o guide umane che gli segnassero il cammino.

          Dietro a questa storia c’è dunque un duplice messaggio. Il primo è rivolto ai genitori, che hanno l’arduo compito di sostenere e allo stesso tempo «lasciare andare» i propri figli, senza peraltro pretendere di capire o comprendere sempre le loro scelte. Il secondo è rivolto ai giovani, soprattutto a coloro che pensano che la strada giusta da seguire sia quella già segnata, etichettata, conforme a regole, figure già preconfezionate che possano garantire un’esteriore sicurezza e un’identità preconfezionata e di successo, capace di celare e nascondere la fragilità, l’insicurezza e il vuoto interiore; sentimenti, questi, che fanno paura e che possono essere, illusoriamente, ben soffocati dall’immagine esteriore.

          La speranza messianica, però, è anche questo: osare il diverso, il non certo, il non dato e il non detto, per realizzare il senso di quell’unicità che è all’opposto dell’uniformità.

 

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