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Economia di giustizia

XXIV domenica del tempo ordinario

Es 32,7-11.13-14; Sal 50 (51); 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32

Il Vangelo di questa domenica presenta diverse scene tutte tratte dalla vita reale, almeno di quel tempo. Un pastore e le sue pecore, una donna di casa e la sua moneta e infine un padre, i suoi due figli e il patrimonio da gestire e dividere.

Che cosa hanno in comune questi tre racconti? Tra le varie possibili risposte e significati che vi si possono trarre, vi è anche la possibilità di leggerli in chiave economica. In tutti e tre i racconti, infatti, è descritta o un’attività o un bene economico. Quale tipo di visione economica emerge? A me sembra che la si potrebbe definire un’«economia di giustizia». Con tale espressione intendo qualcosa che è ben diverso da un’«economia giusta», ovvero da un retto uso del denaro che vada contro ogni tipo di spreco o, viceversa, di guadagno spregiudicato e svincolato da qualsivoglia limite morale.

Per comprendere meglio questa espressione «economia di giustizia» prendiamo in esame il primo dei tre racconti evangelici. C’è un pastore che ha cento pecore, quindi un bel gregge da pascolare, accudire, tosare, mungere ecc. Di queste cento se ne perde una e, di per sé, non si tratta di una grossa perdita. Ma questo pastore non la pensa così: pianta in asso le novantanove pecore e va in cerca di quella smarrita.

Dal punto di vista economico si tratta di un’azione sconsiderata, anche rispetto a un’«economia giusta». Lasciare novantanove pecore incustodite significa rischiare che qualsiasi predatore (un lupo ad esempio) possa sbranarle, inoltre non si sa quanto tempo occorrerà per trovare l’altra pecora, e questo vuol dire che il gregge non verrà munto, non ci sarà latte per produrre il formaggio ecc.

Oppure può essere il caso che il pastore ingaggi un aiutante che lo sostituisca nel tempo della sua assenza, ma anche questo avrà un costo e rappresenta comunque un rischio e un’ulteriore spesa. Ma che valore ha dunque una pecora? Il problema è proprio questo, in un’«economia di giustizia» ogni singolo «soggetto economico» ha un valore unico e insostituibile, e così anche la «relazione» con ciascun soggetto non può essere accumulabile o ricondotta a un insieme per cui è il numero totale che conta rispetto alla singola unità.

Ogni caso va dunque considerato e gestito nella sua singolarità che è insostituibile, e non può essere equiparato a un altro o essere gestito secondo «protocolli» standard. Nella valutazione, quindi, di una possibile azione economica, è la singolarità a essere il cardine fondamentale, e il discernimento per agire in un modo o in un altro può variare di volta in volta, di «singolo» in «singolo». Alla base di tale visione c’è l’affermazione della diversità come valore superiore a quello sia dell’uguaglianza che della parità. Agli occhi del pastore ogni pecora ha un valore unico, non negoziabile, non comparabile e, pertanto, irrinunciabile. È per questo che non può far finta di niente se alle cento ne manca una, perché tutte le cento pecore sono per lui, in realtà, cento uniche, singole, irripetibili pecore. 

La stessa cosa forse la si comprende meglio se si pensa all’altro esempio del Vangelo riguardante la moneta che non si trova e per la quale la donna è disposta a mettere a soqquadro la casa, accendere tutte le candele e, alla fine, a chiamare le amiche per far festa. Se consideriamo, anche qui, la spesa economica che comporta il consumo delle candele, il tempo impiegato per la ricerca e il costo, magari, del cibo che viene offerto alle amiche per far festa, è evidente che il tutto non si potrebbe giustificare se non per il valore che quella moneta ha nella sua unicità. Una moneta di cui non si dice che sia «diversa» dalle altre, che sia rara o di conio più pregiato, in realtà è «uguale» alle altre nove monete, ma allo stesso tempo «unica» nella sua singolarità.

Che cosa vi è dunque al centro di questa «economia di giustizia»? Direi proprio il valore della relazione tra i due «soggetti economici»: il pastore e la pecora, la donna e la moneta. Una relazione sempre unica e diversa e, proprio per questo, di valore incomparabile nel senso letterale del termine, ovvero non comparabile ad altro, quindi non scambiabile e quantificabile.

Certo una visione economica di tal genere sarebbe inconciliabile con le logiche economiche del nostro mondo, dove il personale di un’azienda corrisponde a un foglio di carta che porta in alto il titolo di organigramma, o dove spesso la quantificazione di produzione ha un peso superiore alla qualità stessa di produzione, ma se ci pensiamo su possiamo trovare anche nel nostro mondo alcuni esempi «vincenti» che hanno saputo puntare sulla relazione come valore imprescindibile e fondamentale della propria attività economica. A volte una visione che può sembrare così utopica, può comunque indicare una strada che sia concretamente percorribile: basta provarci.

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