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È bello essere qui

II domenica di Quaresima

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Sal 116 (115); Rm 8,31-34; Mc 9,2-10

Sacrificio di Isacco o prova di Abramo? Il testo di Gen 22,1 pare inequivocabile: wüha´elohim nissah (ebr.) e o theos epeirazon (LXX). I due verbi sono conosciuti, perché quello ebraico sarà tipico del racconto dell’esodo, fino a determinare un toponimo (Massa, il luogo della tentazione, cf. Sal 95,8) e il secondo è quello delle tentazioni di Gesù.

          Secondo la tradizione (cf. Pirqe Abot V, 4) Abramo è stato sottoposto a dieci prove, di cui si trova traccia anche in Eb 11,8-19. Questa relativa a Isacco è l’ultima e di certo la più pesante.

          C’è di mezzo un leḵ leḵa, «vattene, va’ via» (Gen 22,2) come in Gen 12,1, quasi che la prova fosse una seconda chiamata: con la prima Abramo ha abbandonato il suo passato, con questa deve rinunciare al suo futuro (Chouraqui), rappresentato dal figlio della promessa. Secondo il midraš, Isacco non è un fanciullo, ma ha trentasette anni, eppure nella storia, benché adulto, non ha molto spazio, anche se questo episodio sarà ricordato come ʻaqedat YiṣHaq, «legatura di Isacco», termine che lo accomuna all’agnello del sacrificio pasquale. La prova comunque riguarda Abramo, che alla fine di essa vedrà confermate le promesse; se un lieto fine c’è – ma si potrebbe discutere –, riguarda proprio questa conferma.

          Tutto questo fa da sfondo costante ai racconti del Nuovo Testamento, con la particolare mediazione del Targum Neophyti a Es 12,42, che fa comparire Isacco nella seconda notte e Mosè nella quarta come colui che precede il Messia, accompagnandolo, nella sua ultima venuta. In questo modo anche Mosè assume tratti messianico-escatologici al modo di Elia (cf Ml 3,23).

          Il fatto che Matteo e Luca facciano comparire Mosè ed Elia in ordine, per così dire, canonico ha condotto a interpretarli come fossero la Torah e i Profeti; questo è certamente corretto, ma in realtà la loro funzione è piuttosto escatologica, e proprio questo aspetto è valorizzato da Marco con alcuni altri dettagli che danno la chiave di lettura del mistero della trasfigurazione.

          Il primo è che nel racconto marciano l’apparizione di Elia precede quella di Mosè (v. 4). Stando al racconto di 2Re 2,7-11, ma anche a Sir 48,9 e a Giuseppe Flavio in almeno due punti delle Antiquitates, Elia non è morto ma è stato rapito in cielo. È perciò vivente e può apparire in quanto «essere visto» (ophthe, v. 4).

          Poiché è vivente in cielo, è anche pronto per precedere il Messia nel suo apparire, come detto da Malachia sopracitato. Nonostante poi la morte raccontata in Dt 34,5, lo stesso si pensava di Mosè, sulla cui fine esisteva una letteratura apocalittica a cavallo dell’era volgare molto diffusa.

          Secondariamente Marco insiste sullo splendore delle vesti di Gesù con un verbo raro (stilbo, v. 3) riferito in genere alla luminosità degli astri o alla lucentezza dei metalli; a questo va aggiunto il loro candore (con il gioco di parole leuka/leukanai, v. 3), e la nota sul lavandaio che qualche interprete giudica volgare e qualche altro tipica della vivacità del racconto popolare.

          Stando così le cose, Gesù sul monte appartiene al gruppo di coloro che non sono morti ma sono stati assunti in cielo, o almeno tale appare agli occhi dei discepoli, che infatti non sanno che cosa dire e in qualche modo si sentono trasportati nel tempo ultimo. Gesù è all’improvviso stato trasformato in uno stato celeste (metemorphote, passivo divino, v. 2) dal quale torna come prima alla fine del racconto, quando i discepoli lo rivedono da solo (v. 8).

          Infine: Pietro parla di «capanne» con un’allusione alla festa di Sukkot; ma anche questa festa è orientata all’eschaton, come si può vedere da Zc 14,16ss, e sempre Pietro dichiara che è bello restare in quella condizione (v. 5), perché ravvisa in essa la anapausis promessa (Mt 11,29, «troverete ristoro per la vostra vita»). Egli pensa che sia giunto il tempo messianico e con esso la fine di ogni travaglio in uno shabbat senza fine, dopo il vuoto temporale di sei giorni citato all’inizio del racconto (9,2).

          Un’anapausis condizionata però, perché la scena sul monte cambia all’improvviso, così come all’improvviso era cominciata, dopo che risuona l’imperativo «ascoltatelo» (9,7): ed è proprio questo ascolto la condizione dell’anapausis, come commenterà la Lettera agli Ebrei (3,15-4,11).

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