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Di sguardi e di silenzi

II domenica del tempo ordinario

1Sam 3,3-10.19; Sal 39; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

          Tutto il racconto giovanneo che ascoltiamo questa domenica scorre tra due sguardi.

          Il primo è quello del Battista che, visto (emblepsas, v. 36) Gesù, lo indica (ide, alla lettera «vedi» imperativo aoristo, tradotto in forma avverbiale con «ecco», v. 36) a due suoi discepoli, e dà così inizio all’opera di diminuzione di sé di cui parlerà in seguito (Gv 3,30), mandando costoro al seguito dell’Agnello di Dio.

          Il secondo, nel finale (emblepsas, v. 42), è quello di Gesù, che individua Simone con un nome nuovo, introducendolo a una nuova vita.

          In senso stretto non si potrebbe parlare né di chiamata né di vocazione, ma di un’attrazione attraverso un gioco di sguardi e l’ascolto da parte dei due discepoli di Giovanni, attrazione che li conduce alla sequela. Al momento non c’è alcun conferimento di un incarico o di una missione, solo un cambio di nome per Simone e un atteggiamento di discepolato per i primi due.

          Gesù ha chiesto loro che cosa stiano cercando (ti zeteite, v. 38), ed essi rispondono in una maniera a prima vista inadeguata, perché gli pongono a loro volta una domanda: «Dove stai?», per poi intrattenersi a lungo con lui. Il discepolato appare qui come un «fermarsi insieme» in cui, verosimilmente, si pratica in maniera privilegiata l’ascolto di colui che è stato chiamato Rabbi (v. 38), titolo che non era usato di frequente prima del 70 EV.

          Questo ascolto permette di identificarlo poi come Messia (cf. v. 41), ed è certo singolare che due titoli tanto impegnativi siano usati in maniera ravvicinata. Il discepolato si rivela quindi una consuetudine di vita, tipica del mondo ebraico: rimanere con il proprio maestro, viverci assieme, ascoltarlo e interrogarlo, e infine servirlo: è da questa condivisione che a poco a poco l’allievo si edifica al di là delle parole.

          Il Battista, in quanto testimone, è stato colpito nei sensi, ha contemplato (theaomai, v. 32) e visto (orao, v. 34). Il primo verbo rimanda, in particolare, alla constatazione diretta di un fatto del quale il testimone coglie il senso ultimo; nel caso specifico ha davvero visto l’invisibile.

          Per parte loro, i discepoli seguono con gli occhi lo sguardo di Giovanni, ascoltano le sue parole e s’incamminano dietro Gesù, che si gira verso di loro e li interpella, infine rimangono con lui. Tutto è qui un fatto corporeo: si guarda, si ascolta fino a obbedire, si segue, si rimane – è un atto di fede, ovvero una serie di gesti concreti.

          Il testo dà anche un dettaglio temporale, «l’ora decima» (ora en os dekate, v. 39), di cui non si riesce bene a capire la funzione. Nonostante il problema della datazione, si può accettare, almeno come ipotesi, la proposta formulata da Wengst, che cita in proposito Abot de Rabbi Nathan (A 1.8), in cui R. Yehuda ben Beteira ricapitola il racconto della creazione e l’esperienza della prima coppia, ossia tutto Gen 1-3, come fosse avvenuta nell’arco di dodici ore: E nella decima ora Dio gli ordinò [di non mangiare dall’albero]. È certamente un’ipotesi da prendere con cautela, è tuttavia interessante perché ribadisce che da quella stessa ora ha inizio la relazione di ascolto/obbedienza che contraddistingue il vero discepolo, riportandola alla sua origine.

          Si è detto che non si può parlare di un racconto di chiamata o di vocazione in senso stretto, quello che appare chiaro è però che non è facile individuare la propria via senza una guida: il Battista nel caso dei discepoli di Gesù, il vecchio Eli in quello di Samuele, al quale poco sarebbe servito udire la voce divina se qualcuno non gli avesse indicato come rispondere, quasi obbligando colui che parlava a rivelarsi. Tanto in questo racconto quanto in quello dei due discepoli la parola da interpretare ha un ruolo centrale. Chi interpreta non fa lunghe esegesi, si limita a suggerire una risposta interlocutoria (cf. 1Sam 3,9) o a indicare con gli occhi e con una breve affermazione (Gv 1,35).

          Da quanto silenzio sgorghino queste interpretazioni non è dato sapere. Esse sono maturate nel deserto e nelle notti passate nel santuario (qualcuno pensa a riti di incubazione) rispettivamente, certo è che solo un silenzio profondo, anche fisico, può condurre ad ascoltare e articolare parole autentiche.

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