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Da amici a fratelli

VI domenica di Pasqua

At 10,25-16.34-35.44-48; Sal 98 (97); 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

          Dopo aver abbandonato la metafora allegorizzata della vite, Gesù conserva in Gv 15,9-17 parte del lessico dei primi versetti, ma si spinge anche oltre. Conserva il verbo menein (vv. 9.10), portandone le occorrenze a undici in tutto in questi pochi versetti ed esplicitandone il senso.

          Se infatti menein può voler dire «dimorare», «abitare» (Gv 2,12) – in forma più stabile è detto dello Spirito che si è fermato su Gesù dimorando in lui (Gv 1,32) –, in questo capitolo il rimanere è uno «stare attaccato», finché si parla di vite e tralci, e quasi un sinonimo di «custodire/osservare» nei riguardi dell’amore e dei comandamenti (15,10).

          E tuttavia la conclusione del «rimanere» è «perché andiate e portiate frutto» (ina umeis upagete kai karpon pherete, v. 16). Come dire, un partire attaccati e un restare partendo.

          Tale infatti è la condizione del discepolo: deve restare ancorato se vuole portare frutto, ma ugualmente deve andare per portare lo stesso frutto. È questo frutto a dover rimanere (kai o karpos umon mene, v. 16), e da 15,8 però sapevamo che è la gloria del Padre e il «diventare (genesthe) discepoli». Il «rimanere» è dunque la soglia del discepolato e lo possiamo tradurre con «perseveranza».

          Il discepolato è dunque un dinamismo che si potrebbe anche esplicitare così: «A noi convengono tre cose: inginocchiarsi in piedi, gridare in silenzio, danzare immobili» (R. Mendel di Worki) ovvero una sintesi esistenziale di apparenti contraddizioni, come «rimanere» e «andare» all’interno di un’esigente sequela.

          Infatti il comandamento non è da poco (vv. 12-13), e c’è da chiedersi fino a che punto noi si sia disposti a dare la vita per gli altri membri della comunità o famiglia o chiesa (e loro a fare lo stesso, evidentemente): niente di più, ma anche niente di meno.

          Questa sarebbe la condizione per essere considerati «amici» (philoi, v. 14). Si apre qui una terminologia nuova. Nel Primo Testamento l’uomo di fiducia di una persona di prestigio era in genere il primo dei suoi servi, quello che magari era nato e cresciuto in casa o c’era da molto tempo: raccoglieva le confidenze del padrone e aveva tutta la sua fiducia. Si veda, per esempio, il caso del servo di Abramo (Gen 24,1ss), a cui affida un compito delicatissimo come quello di reperire una moglie per Isacco.

          Del resto Mosè è servo del Signore (Es 14,31), il suo uomo di fiducia, e così Giosuè (Gs 1,17), David (2Sam 7,5), fino a tutto il popolo d’Israele: in breve è una condizione speciale perché il servo sa che cosa fa o farà il suo padrone.

          Al tempo di Gesù la situazione socio-culturale era molto cambiata e la condizione servile era per lo più intesa come schiavitù, perciò anche il linguaggio era destinato a cambiare. Non si sarebbe detto «servo» a una persona con cui si voglia stabilire una comunione di intenti e di vita, se non in una corte che risentisse ancora di una forte cultura orientale.

          In compenso il termine «amico», oltre ad avere una connotazione di confidenza e affetto più vicina alla nostra sensibilità, apparteneva anche al linguaggio delle corti ellenistiche (cf. 2Mac 7,24) e indicava quei plenipotenziari, ministri o funzionari che godevano della fiducia del re e ne raccoglievano le confidenze. Il testo dei Maccabei citato è un unicum nel Primo Testamento, ma di un qualche interesse.

          Nel caso di Gv 15,15 viene sottolineato l’elemento della confidenza: il vero legame d’amicizia sta nel passaggio di conoscenze e nella scelta.

          Tuttavia il vero cambiamento sarà dopo la passione, quando, una volta risorto, Gesù usa l’espressione «i miei fratelli» (Mt 28,10), forse citazione dal Sal 22,23 (cf. anche Eb 2,12), che confermerebbe come il citare l’incipit del salmo significhi citarlo interamente, o forse come espressione di perdono (Mello) verso chi lo aveva abbandonato e rinnegato.

          Certo è un passaggio significativo. Come già nel Primo Testamento la riconciliazione tra Giacobbe ed Esaù avviene nel pianto (Gen 33,1ss), perché non esiste fraternità a poco prezzo, la fraternità tra Gesù e i suoi passa attraverso la passione e la condivisione piena, nella morte, della condizione umana.

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