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Credere: una questione di libertà

XIV domenica del tempo ordinario

Ez 2,2-5; Sal 122 (123); 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

         Il Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù «a casa sua»: tornato a Nazaret, probabilmente per far visita alla madre, da buon ebreo osservante si reca di sabato in sinagoga, dove prende la parola e incomincia a insegnare.

         Ormai è un rabbi conosciuto, le sue azioni sono note nei villaggi lungo il lago, e non c’è quindi da meravigliarsi se anche a Nazaret, nella sinagoga, decida di offrire il suo insegnamento.

         La cosa però interessante è che Marco non ci dice nulla del contenuto del suo discorso, ma si sofferma sulla reazione degli ascoltatori: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?». Non è dunque messo in discussione ciò che dice, ma il fatto che a manifestare tale sapienza sia proprio «quel» Gesù che tutti conoscono e di cui si conosce la famiglia: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?».

         Per comprendere lo stupore dei suoi concittadini mi viene in mente una prassi che, non so se lo sia ancora, un tempo era diffusa. Quando si portava qualcuno in casa, la prima cosa che i genitori chiedevano era di chi fosse figlio e che lavoro facesse il padre. A seconda della risposta l’amico o l’amica risultava bene accetto o meno. Dietro a tale prassi è nascosta una sorta di mentalità deterministica: la bontà o le capacità di una persona dipendono dall’ambiente familiare da cui proviene; la qualcosa non è del tutto sbagliata, ma neanche così determinante.

         Nel caso, di Gesù abbiamo qui alcune informazioni che ci vengono fornite da coloro che lo «conoscono»: si dice che è un «falegname» – sarebbe meglio tradurre con «carpentiere» –, e c’è uno strano modo di nominare i suoi familiari: si dice che è fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e di altre sorelle che non hanno nome, ma allo stesso tempo si sottolinea che è «figlio di Maria».

         Questa stranezza è stata notata dagli esegeti, che hanno formulato due ipotesi di spiegazione. La prima è che tale modo di elencare da una parte i fratelli e sorelle e dall’altra la madre sia un modo per distinguere Gesù da coloro che sarebbero in realtà dei fratellastri che Giuseppe avrebbe avuto in precedenza con un’altra moglie. Ciò giustificherebbe quindi l’uso del matronimico – «figlio di Maria» –, secondo anche un’usanza attestata sia nell’Antico Testamento che nei testi rabbinici.

         La seconda ipotesi è che tale specificazione, «figlio di Maria», senza nominare Giuseppe, possa indicare che solo Maria tra i due fosse ancora viva e che fosse tra i presenti nell’assemblea sinagogale.

         Il testo, dunque, fa emergere uno stridore tra il contenuto del discorso che Gesù rivolge agli astanti e questo suo essere «conosciuto» dagli stessi, il cui risultato è una sempre più crescente incredulità: «E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità».

         Siamo di fronte al primo esplicito rifiuto della gente. Finora a rifiutarlo erano stati i demoni, le autorità religiose, gli abitanti di città pagane; ora è il suo stesso popolo. Un ulteriore particolare è che proprio da questo momento in poi Gesù non insegnerà più in una sinagoga, saranno le case il suo luogo privilegiato di insegnamento, quasi a prendere ancora più distanza da tutto ciò che ha a che fare con una «religiosità ufficiale» incapace di comprenderlo e di «riconoscerlo».

         Oltre a tutto questo c’è da sottolineare, a mio parere, il fatto che di fronte all’incredulità Gesù non può fare nulla. La libertà dell’uomo è determinante nell’azione di salvezza, i pochi malati guariti citati in questa pagina evangelica affermano proprio questo: la libera e singola risposta di ciascuno è un atto necessario e imprescindibile perché le opere di Dio si manifestino e il regno di Dio si compia in pienezza.

         C’è dietro tutto questo un binomio importante: liberi per credere e credere per essere davvero liberi.

         Di fatto, molte persone stentano a credere, in loro c’è una recondita diffidenza, qualcosa che li blocca, pensano che non ne hanno bisogno, che non sia una cosa necessaria, ma nella loro ostentata ripulsa a qualsiasi possibile «cedimento» verso il credere spesso si nasconde una non libertà di fondo, qualcosa che non si vuole perdere, una sorta di «libertà» che li lega.

         Diverso è il caso di chi è strettamente legato all’osservanza di norme, regole e precetti. L’attenzione a tutte queste cose è come un laccio che non permette di vedere oltre, la loro eccessiva preoccupazione all’osservanza altro non è che una forma di paralisi devozionistica e tradizionalistica che non permette di essere liberi per credere alla «novità» di Dio.

         Per i primi e per i secondi Gesù sarà sempre «un profeta disprezzato nella sua patria».

 

 

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