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Credere per gradi

III domenica di Pasqua

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5; Lc 24,35-48

          Già Charles de Foucauld in una sua meditazione su Lc 24,35-48 si soffermava sul saluto del v. 36. Sappiamo che per gli ebrei è il saluto quotidiano e che ricorre come tale la sera di Pasqua anche in Gv 20,21, ma quello che de Foucauld evidenzia è che la pace è annunziata dagli angeli all’inizio del racconto di Luca (2,14), affidata da Gesù agli apostoli come saluto durante la loro missione (10,5) e infine rivolta a loro la sera di Pasqua di nuovo come saluto (24,36), perciò vede in questo termine come un filo conduttore del Vangelo di Luca. Noi diremmo che fa inclusione.

          Quello però che emerge da questo c. 24 è che il passaggio dall’incredulità alla fede avviene per gradi e che non esiste apparizione o rivelazione che s’imponga da sé.

          Apostoli e discepoli infatti ritengono un vaneggiamento il racconto delle donne (leros, 24,11); i due di Emmaus han bisogno di una lunga liturgia della parola e di una fractio panis (24,27-30); al loro resoconto non pare ci sia particolare adesione; infine, quando compare Gesù, la reazione è di sconvolgimento e paura (ptoethentes kai emphoboi, 24,37). Gesù stesso li vede sconvolti e in preda al dubbio (24,38).

          A quel punto diventa probante il corpo da «tastare», detto con il verbo abbastanza raro (pselaphao, solo qui e in At 17,27 in cui indica l’andare a tastoni del cieco, nonché in Eb 12,18 e 1Gv 1,1), e in particolare l’assunzione del cibo.

          Tuttavia è necessaria una definitiva apertura della mente.

          Il verbo chiave è dianoigein, che ricorre tre volte in questo capitolo, ai vv. 31.32.45: si aprono gli occhi per riconoscere, le Scritture per comprenderle, e infine si apre la mente. L’apertura delle Scritture del v. 32 rimanda all’ebraico petiHa, termine tecnico che indica l’avvio di un midraš omiletico (cf. At 17,3), ma il verbo dianoigein compare anche in Mc 7,34 associato alla guarigione del sordomuto.

          Dunque siamo in un momento di rivelazione piena e di rigenerazione integrale dell’uomo attraverso la comprensione delle Scritture, indicate secondo un canone tradizionale: legge di Mosè, profeti, salmi – sineddoche per il corpus degli Scritti –, ovvero Torah, Nebi̛’im, Ketubim.

          La fede dunque si costruisce sulla constatazione dei segni sul corpo del trafitto-risorto, sul gesto quotidiano del mangiare e sulla comprensione del Primo Testamento, filtro attraverso il quale guardare e leggere gli eventi, riconosciuto anzi come guida per un’ermeneutica della storia.

          La dinamica non è diversa dall’episodio di Emmaus, cambiano ambientazione e platea. È decisivo il gesto epifanico legato al cibo: là era spezzare il pane, qui mangiare del pesce, ma è di particolare importanza il ruolo del Primo Testamento. Attraverso la lettura e la comprensione dei suoi testi si acquisisce la mentalità che consente di leggere alla giusta maniera anche il Nuovo Testamento, di cui è insostituibile radice.

          Inoltre questo «giorno uno» è davvero denso di avvenimenti. Luca e Giovanni ne fanno un tempo che potremmo chiamare «contratto».

          Giovanni racconta infatti una piccola pentecoste con l’effusione dello Spirito in 20,22 (per altro già anticipata in 19,30); Luca parla invece esplicitamente dell’ascensione in 24,50-51, che avviene a Betania, sul Monte degli Ulivi.

          Considerando che Luca stesso in At 1,3 precisa che passano quaranta giorni prima dell’ascensione, e ci lascia, in questo modo, una cronaca abbastanza più precisa degli avvenimenti, vien da pensare che l’accenno a questo evento in Lc 24,50-51 sia piuttosto un rimando privilegiato al mistero della Pasqua come giorno unico, rimando poi ben recepito dalla tradizione liturgica, che prolunga questo giorno a tutta la cinquantina fino alla Pentecoste.

          Tuttavia l’ultima parola, nella quale si concentrano il mistero delle Scritture, del tempo e della testimonianza, è un termine contemporaneamente di partenza e di arrivo: «Cominciando da Gerusalemme» (arxamenoi apo Ierousalem, Lc 24,47), perché certo la città è il luogo fisico della partenza degli apostoli, ma è anche il luogo a cui sono chiamati a salire i credenti che si fanno «aggiungere» al cammino del popolo della promessa (At 2,41.47, 5,14, 11,24).

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