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Comunità: indicazioni evangeliche

VI domenica di Pasqua

At 10,25-26.34-35.44-48; Sal 97 (98); 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

Il Vangelo di questa settimana indica quale deve essere il legame tra Gesù e i suoi discepoli e dei discepoli tra di loro. Il tema centrale è il comandamento dell’amore – «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» – e il tutto viene espresso da una circolarità all’insegna dell’amore: il Padre ama, il Figlio ama, e così anche i discepoli devono corrispondere a questo amore sia nei confronti del Figlio sia tra di loro. 

Ma si può amare a comando? Credo che l’esperienza umana ci insegni che questo non è possibile. Non solo non si può amare per puro atto di volontà, ma non si può corrispondere all’amore di un altro se prima non se ne fa esperienza. Infatti ciò che precede il comandamento di Gesù è proprio la testimonianza del suo amore verso i suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi». Tutto quindi parte dall’esperienza di essere amati, ed è proprio questa esperienza ciò che permette di «rimanere» nell’amore, di corrispondere a quest’amore e, infine, di rivolgere quest’amore anche agli altri. 

Inoltre il legame che Gesù instaura con i suoi discepoli è un legame di amicizia: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici». È un legame basato sulla conoscenza reciproca, sulla fiducia e sulla condivisione di un progetto, di uno stile di vita, di una missione: «Perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi».

C’è dunque un coinvolgimento personale e allo stesso tempo di gruppo, dato che tutti coloro che fanno esperienza dell’amore di Gesù sono coinvolti, di conseguenza, a prendere parte alla sua missione, al progetto del Padre. 

Un ulteriore passaggio è dato dall’ultima precisazione: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Il legame che fonda questa nuova «famiglia» o, se si preferisce, comunità, ha una caratteristica molto significativa: ci si ritrova insieme ad altri non perché lo si sceglie, ma perché si è stati scelti. 

E questa scelta, non in ultimo, dovrebbe essere fruttifera.

Se riprendiamo tutti questi punti ci ritroviamo di fronte a delle indicazioni molto chiare e precise di quella che dovrebbe essere una comunità di credenti nel Signore. Appartenere a questa comunità significa sentirsi amati da Gesù, aver fatto e fare l’esperienza di questo amore; un’esperienza che a nostra volta riconosciamo anche negli altri, come anche negli altri riconosciamo la condivisione di uno stesso progetto, di uno stesso mandato. Tutto questo ci porta a sentirci parte di una famiglia, con la consapevolezza che si è stati scelti per farne parte e, conseguentemente, che tale appartenenza fonda un legame d’amore reciproco.

A questo punto possiamo guardare alle nostre «comunità» parrocchiali e forse trovare anche qualche risposta al fatto che siano oggi così «vuote». Spesso e volentieri le comunità parrocchiali hanno il loro centro attorno a un prete e funzionano finché quel prete è presente, tiene i legami tra le varie persone, organizza incontri, gestisce gli spazi e progetta le attività.

Ma se il suddetto prete viene a mancare, e magari chi subentra non ha lo stesso carisma o capacità, ecco che la comunità viene meno, le persone si allontanano, e tutto cade a pezzi o meglio nel vuoto. E allora la colpa ricade sull’ultimo venuto che, magari, è anche lui artefice del collasso, forse nel tentativo di farsi spazio e acquistare terreno e autorità. La radice del problema, però, radice che ancora stentiamo a riconoscere e comprendere, è che questo cliché non funziona, e questo non «adesso» a causa del «nuovo arrivato», ma «già prima», quando sembrava che tutto funzionasse e avesse vita. 

La comunità cristiana non si costruisce attorno a un leader, ma attraverso i legami che si creano tra ogni persona che è chiamata a farne parte. Legami che possono essere tali solo se ogni persona cura la propria relazione con il Signore e conseguentemente risponde alla propria personale chiamata, riconoscendo che tale risposta non può prescindere dal legame con l’altro, dall’amore e dalla cura verso l’altro.

La comunità è espressione di una vita di relazioni, di uno spazio e di un tempo comuni, a cui tutti sono chiamati a prendere parte, a viverne l’appartenenza e a sentirsene responsabili. Forse se guardiamo alle nostre parrocchie vuote dovremmo avere il coraggio di chiederci: che cosa ne è del nostro essere stati scelti per portare frutto?

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