«Cominciando da Gerusalemme»
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Ascensione del Signore
At 1,1-11; Sal 46 (47); Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53
Nel Vangelo di questa domenica si narra l’ascensione di Gesù al cielo. Gesù, congedandosi dai suoi, ricapitola il senso della sua vita e della sua missione con un lapidario «così sta scritto». Ciò che segue è la sintesi del suo itinerario messianico: «Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno».
In realtà è difficile trovare nelle Scritture di Israele un versetto che corrisponda esattamente al contenuto di quel «così sta scritto». Proprio perché Gesù non compie una singola profezia o realizza un singolo passo, ma realizza in lui tutta la Scrittura e tutta la Scrittura è non solo importante, ma necessaria per comprendere quel «così sta scritto».
Lo ha esplicitato molto bene Luca nei versetti precedenti al nostro testo, proprio quando, nell’incontro con i due discepoli di Emmaus, così scrive: «“Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,26-27).
Il seguito del commiato di Gesù è costituito dall’invio nel suo nome, in quanto messia, dei suoi discepoli: «E nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme». Se tale invio è verso «tutti i popoli», ha quindi un carattere universale, colpisce il fatto che venga specificato che la loro missione deve partire da Gerusalemme. In qualche modo, quindi, Gerusalemme acquista un ruolo e un primato che si potrebbe dire «irradiante» dell’annuncio evangelico. Forse proprio questo «cominciando da Gerusalemme» andrebbe ulteriormente considerato e preso sul serio. Non si tratta solo di un punto di inizio da cui partire, ma il primo e fondamentale «luogo» ermeneutico dell’Evangelo, il cuore di ogni annuncio e il senso di ogni azione missionaria. È da qui infatti che ogni operazione di inculturazione dell’Evangelo può essere declinata e trovare humus, terreno fertile, nelle diverse culture del mondo.
«Cominciare da Gerusalemme» significa allora entrare in quell’unica alleanza di Dio con il suo popolo, conoscere, assumere e custodire quell’unica storia di salvezza che Dio ha intessuto con il suo popolo, tenere a mente e a cuore quelle Scritture sacre che lo stesso Gesù ha offerto ai suoi discepoli perché potessero comprendere il suo essere messia al di là delle loro aspettative, proiezioni e umane speranze.
«Cominciare da Gerusalemme» significa anche tenere vivo il legame con la comunità o le comunità apostoliche (secondo gli ultimi sviluppi della ricerca) che hanno, come una madre, generato discepoli e discepole, annunciatori e annunciatrici di quella «buona novella» che per secoli, fino a oggi, risuona in molte parti del mondo. E tale annuncio è possibile, può essere e rimanere autentico, solo se il legame con la matrice generante non viene spezzato, dimenticato, sostituito.
Se nei secoli successivi Roma è divenuta il centro del cristianesimo – e questo oggi è tale solo per i cattolici – tale centralità è espressione universale, modello di ogni altra inculturazione, che per sua natura e storia non può che rimandare all’unico punto originante e, allo stesso tempo, all’unica meta finale che è e rimane Gerusalemme.
Scriveva Francesco Rossi de Gasperis: «La Chiesa di Dio, pellegrina a Roma, è bella e splendida solamente per la speranza e la testimonianza, che essa tiene accesa, di non essere lei la città stabile e permanente della Chiesa di domani, ma solo il segno passeggero e annunciatore di quella futura, a cui aneliamo (Eb 13,14; cf. 11,10.14-16): la città “celeste”, quella delle dodici porte e dei dodici basamenti delle sue mura (Eb 12,22; Ap 21,12-14). La Roma evangelica della vera fede, lungi dal rappresentare la sede di un insediamento definitivo e irremovibile, che si sarebbe sostituito a Gerusalemme – che rimane insostituibile – è al contrario la nutrice di quella teologale speranza e attesa di trasfigurazione (Fil 3,20) nell’unica “città santa” (Ap 21,2.10; cf. 11,2; Ne 11,1.18; Is 48, 2;52, 1; Dn 3, 28 LXX; 9,21; Mt 4,5; 27,53). Senza tale speranza, a Roma la fede muore, la carità si fa settaria, e il sensus Ecclesiae si trasforma in cortigianeria» (Cominciando da Gerusalemme, Piemme 1997, 17).
Il pericolo, infatti, di ogni azione evangelica è quella di ridurre l’annuncio a una sorta di risposta alle «esigenze» e alle «attese» dell’umanità, a un «cristianesimo come promozione dell’uomo»; valori importanti, ma che rappresentano solo una declinazione di ciò che è la fonte e il principio.
Sradicare Gesù, il suo Vangelo, la prima comunità dei discepoli e delle discepole del Signore dalle loro radici rischia, come di fatto è avvenuto in molti casi, di trasformare l’Evangelo in un’ideologia ancorata alle culture e alle mode del tempo o di ridurlo a una forma di devozione social-popolare priva di qualsiasi formazione e conoscenza dell’unica linfa da cui tutto scaturisce e riceve vita.
«Cominciare da Gerusalemme» significa quindi cominciare dalle Scritture di Israele, dall’ebraicità di Gesù e delle prime comunità di credenti, significa conoscere le nostre radici e, non in ultimo, «riconoscere» la nostra meta, la nostra «casa»: «Iscriverò Raab e Babilonia fra quelli che mi riconoscono; ecco Filistea, Tiro ed Etiopia: là costui è nato. Si dirà di Sion: “L’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda”. Il Signore registrerà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”» (Sal 87,4-7).