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Come vivere l’attesa

XXXIII domenica del tempo ordinario

Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 128 (127); 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

         È pressoché comune a molta tradizione patristica l’interpretazione dei talenti della parabola come parola di Dio o predicazione dell’Evangelo (per es. in Ireneo di Lione). Di fatto il padrone, partendo, non dà ai servi monete diverse (il significato di «talento» come unità di peso e quindi come moneta permane più o meno fino all’VIII secolo e. v.), ma a tutti la stessa moneta in argento o in oro, variando solo la quantità.

         Essendo un uomo d’affari abile e d’esperienza (un commerciante all’ingrosso che ha traffici anche all’estero, secondo Jeremias), è tenuto non solo a scegliere bene i suoi collaboratori, ma soprattutto a conoscerli bene. Per questo dosa e varia le quantità del denaro che affida a loro (kata ten idian dynamin, v. 15): sa che cosa chiedere a ciascuno e questa può essere una delle chiavi del suo successo in affari.

         La cosa più interessante è che al suo ritorno esige sì il rendiconto (kai synairei logon, v. 19), ma non pretende la restituzione del denaro. Come fosse interessato al puro traffico e alla valutazione del senso di responsabilità e dell’attaccamento a lui dei suoi servi.

         Questo mercante assomiglia non poco alla donna descritta da Pr 31,10ss, che è presentata con un lessico quasi militare:  ̛ešet-Hayìl (LXX gyne andreia); è una donna che ha una certa forza e una sua strategia. Di lei il testo non parla in termini di bellezza, fascino e femminilità, ma di iniziativa, laboriosità assidua, una certa audacia e infine prestigio che si riverbera sul marito. Rispetto alla parabola è sia il mercante sia il servo avveduto.

         Il problema della nostra parabola di fatto non è il denaro, ma come si debba trascorrere il tempo dell’attesa, il senso di responsabilità verso il proprio padrone, il coraggio di affrontare qualche rischio. Tanto più che non si sa quanto durerà la sua assenza, si sa solo che dura a lungo (meta de polyn chronon, v. 19).

         Come nella parabola delle dieci fanciulle, anche qui abbiamo un tempo dilatato, dopo il quale, al suo riapparire, il semplice «uomo» del v. 14 diventa o kyrios ton doulon, «il padrone dei servi» (v. 19), acquistando di colpo autorevolezza e dignità.

         Colui che era partito senza dare istruzioni sa bene però che cosa vuole e anche due dei servi lo sapevano, perché hanno corso il rischio di investire denaro non loro, proprio per essergli fedeli. Il terzo servo invece quanto meno o conosce poco il suo padrone o lo conosce male, dato che non ne ha colto (o non ne ha voluto cogliere?) desideri e intenzioni. Costui ha ricevuto (eilephos, participio perfetto) un talento: lo ha ricevuto e, come fa capire la forma verbale, lo ha ancora. Di altro non si è preoccupato. Sempre Jeremias ricorda che, secondo il diritto, seppellire una moneta era come declinare ogni responsabilità in caso di furto.

         Ci sono quindi diversi modi di vegliare e di mantenere un deposito, e il confine tra essi sembra essere la paura.

         Se la parabola precedente si chiudeva con un invito a vegliare (gregoreite, Mt 25,13), adesso è chiaro che «vegliare» non significa solo «stare svegli» e aspettare con pazienza, ma lavorare e trafficare anche a rischio di perdere i talenti investendoli. Il tutto senza paura. Un buon servo ha fiducia nella comprensione del suo padrone, almeno nella misura in cui il padrone si fida di lui.

         Questi, che va anche all’estero per i suoi affari, si aspetta infatti dai servi un’audacia simile alla sua. Al punto che per lui il denaro lasciato in custodia è «poca cosa» (epi oliga es pistos, vv. 21.23), ma fa capire comunque a noi il senso di sproporzione che c’è, ai suoi e nostri occhi, tra l’incarico che egli affida e il premio che ne verrà. Il premio infatti è una condizione di gioia simile all’ingresso nel tempio per un uomo pio o alla felicità di essere alla destra di Dio nei cieli.

         Il terzo servo, che scambia l’avvedutezza del padrone per pirateria, mostra invece che per essere definito «malvagio e pigro» (okneros, v. 26, un termine raro che ricorre solo in Rm 12,11 con questo significato) non è necessario fare il male, può bastare non fare il bene che ci si aspetta da noi.

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