b
Blog

Celebrare la vita «a dispetto» della morte

Le letture di questa ricorrenza anziché parlare di morte, parlano di vita, di pienezza di vita, di risurrezione.

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Gb 19,1.23-27a; Sal 26 (27); Rm 5,5-11; Gv 6,37-40

 

 

La liturgia di questa domenica coincide con il giorno della commemorazione dei defunti, pertanto le letture sono quelle proprie di tale ricorrenza. La cosa che si rileva immediatamente è che tali letture anziché parlare di morte, parlano di vita, di pienezza di vita, di risurrezione.

È questo infatti il centro dell’annuncio cristiano: la risurrezione di Gesù, costituito Messia e Signore dal Padre, è primizia e promessa della nostra risurrezione; o come scrive Paolo: «Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto!» (1Cor 15,12).

È quindi importante che nel giorno in cui si fa memoria delle persone che non ci sono più, almeno in questa dimensione terrestre, si parli non della morte, ma della risurrezione, ovvero della vita che attraversa la morte per essere per sempre. E il Vangelo, sempre in questa direzione, afferma che questo è il piano salvifico, il progetto ineludibile di Dio per il quale il Figlio è stato inviato: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno» (Gv 6,39).

Fare memoria delle persone che hanno attraversato questo mondo significa allora celebrare la loro esistenza, l’unicità della loro vita, testimoniare il loro passaggio, la storia di relazioni che permane nel nostro ricordo, ma soprattutto affermare che tale legame non è venuto meno, che la morte non lo ha spezzato, che l’essere e l’esistere di tutti coloro che non ci sono più permane, e tutto questo sarà per sempre.

C’è poi un’ulteriore affermazione nel discorso di Gesù, che Giovanni riporta nel suo Vangelo: «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Avere la vita eterna è «vedere» il Figlio e credere in lui; ma che cosa significa «vedere» il Figlio? Il verbo utilizzato da Giovanni nel testo greco è theoreo, che evoca l’idea di un «vedere contemplativo», un vedere che è in relazione con il «credere», un «vedere», cioè, che è definito come l’incontro con il Figlio che trova compimento nella fede.

Che cosa c’è dunque dietro a questo «vedere»? Non credo si tratti di particolari visioni, apparizioni o illuminazioni, quanto di accorgersi e crescere nella consapevolezza che la nostra realtà può essere vista a più dimensioni e attraverso più orizzonti o punti di osservazione, da quelli più ristretti, a breve raggio, a quelli più ampi, a lungo raggio, dove la prospettiva riesce a cogliere il particolare o la profondità rispetto alla superficie.

Possiamo vedere ciò che ci sta di fronte, la nostra vita, noi stessi, le persone che amiamo non solo come un «oggi», ma come un «per sempre», non solo nella nostra e loro limitatezza, ma anche in quella pienezza che è già presenza. «Vedere il Figlio» è vedere come il mondo, la storia, l’umanità sono già portatori di una pienezza di vita nonostante la morte, la deturpazione, la caducità e la corruzione del male sia fisico sia morale, che sembrano dominare e devastare ogni cosa. È un «già» nel «non ancora», ma è un «già» – per tutti coloro che credono in colui che è risorto – «primizia e promessa» di risurrezione.

Nella prima lettura, tratta dal Libro di Giobbe, c’è anche un altro «vedere». È il desiderio di «vedere» Dio che il giusto, l’integro e fedele Giobbe desidera ardentemente: «Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro». Il suo desiderio di vedere è collegato al suo desiderio di risposta alle tante domande che pone a Dio, alle accuse che gli rivolge, al bisogno che ha di dare senso a quanto sta vivendo.

Prima o poi, con la morte, giungerà la fine e con essa la possibilità di «vedere Dio», cioè di «fare i conti con lui, faccia a faccia». È questo lo sfogo di Giobbe, l’urlo che dalla profondità del suo animo rivolge all’Onnipotente ma, alla fine del suo percorso, al termine di questo suo itinerario alla ricerca di un Dio che parli, che risponda, Giobbe non avrà bisogno di morire per «vedere» Dio, perché – dirà – «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5).

L’itinerario di Giobbe è un itinerario di fede, in cui impara a «vedere» quella sua stessa realtà da una prospettiva diversa, in cui scopre di non essere più solo, ma di essere costantemente in compagnia di Dio. Nulla cambia di questa sua realtà, niente viene a lui risparmiato o restituito, ma in tutto il suo dolore e la sua afflizione riceve una consolazione che lo trasforma, ora è capace di «vedere» Dio.

Non possiamo eliminare la morte dal nostro mondo, ma possiamo vivere anche la morte sapendo che la vita non ci verrà meno: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col 3,1-4).

Lascia un commento

{{resultMessage}}