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Anticipo di gloria

Corpo e sangue di Cristo

Es 24,3-8; Sal 116 (115); Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26

Chi si trovasse in una cena tra amici e sentisse dire dal più importante di loro che uno dei commensali, con i quali ci sono reciproci rapporti da tempo e una certa comunanza di vita, lo tradirà, come potrebbe reagire? Forse con una serie di indignati dinieghi e vibrate proteste.

          Stando a Marco, invece, gli apostoli cominciarono a provare un dolore interiore (lupeisthai, Mc 14,19a) e a dire a Gesù, uno dopo l’altro «per caso sono io?» (meti ego; 14,19b).

          È vero che Gesù non ha fatto nomi e non ha dato segnali identificativi, ma questa domanda fa pensare che ognuno abbia pensato di sé che avrebbe ben potuto essere candidato al ruolo di traditore. La medesima incertezza si può leggere in Mt 26,22, mentre Lc 22,23 dice che se lo chiedevano l’un l’altro e Gv 13,22 che si guardavano l’un l’altro, senza sapere di chi parlasse. Dunque: tutti potenzialmente traditori, solo che ce ne fosse stata l’occasione o il movente?

          Del resto, la vicenda di Pietro lo confermerà, nonostante la sua reiterata professione di fedeltà (Mc 14,29ss).

          Di fronte a questa tavolata di malfidati, in un’atmosfera in cui si avverte, com’è naturale, una certa tensione, Gesù compie due gesti rituali a cui aggiunge qualcosa.

          Benché non sappiamo quanto l’ordine della cena pasquale ebraica fosse all’epoca simile a quello attuale, si può presumere che i gesti si susseguissero alla stessa maniera. Dunque, come anche Marco racconta, c’è prima la frazione dell’azzima (yaHaz), poi la benedizione sul calice, forse il quarto.

          Quanto all’ordine dei gesti che passeranno alla celebrazione eucaristica, la Didaché – più antica dei Vangeli e considerata da alcuni la regola della comunità di Matteo – antepone il rendimento di grazie sul calice a quello sul pane spezzato (IX, 1-3); i racconti sinottici avrebbero allora un ordine che risente di un influsso esseno (Flusser) e restano più vicini a quello del seder che conosciamo.

          Comunque sia, spezzare il pane e distribuirlo (Mc 14,22) è il gesto del capofamiglia e un atto di condivisione, che in questo caso viene compiuto con dei potenziali traditori, mentre Giuda pare essere ancora presente.

          Viene proposta così la realtà di una famiglia da cui non è assente l’ambiguità; tuttavia il pane va condiviso con chi c’è, non con chi si vorrebbe ci fosse. Come aveva detto Isaia, si tratta di condividere con l’affamato e con chi è carne della tua carne, così come egli è (58,7).

          Nella cena pasquale ebraica si bevono quattro coppe di vino, ma ogni convitato ha il suo proprio bicchiere; nel racconto sinottico invece il calice su cui è pronunciata la benedizione è unico e viene condiviso facendolo passare (Mc 14,23-24). Un simbolo e un invito, forse, all’unità, ma dalle parole di Gesù ne emerge soprattutto il valore escatologico.

          Se, come pare, è il quarto calice, subito dopo si recita lo Hallel (Sal 113-118), che ha funzione di lode e ringraziamento e di connettere l’uscita dall’Egitto con il resto della storia ebraica (A. Segre).

          Il racconto del seder ha così un andamento in crescendo: parte dal pane di miseria (ha’ laHma’ ῾anyia’) all’inizio del rito, per ripercorrere le fasi della liberazione e dell’alleanza e del deserto fino alla terra e al maqom, il monte del tempio. Rilanciando il tutto verso la fine del tempo.

          Il rito rende presenti a tutto questo e Gesù avvalora questa dinamica in particolare nella benedizione sul calice. Egli non berrà mai più (ouketi ou me pio, v. 25) vino, alludendo con questo non solo alla morte imminente, ma anche al compimento ultimo e definitivo della salvezza nel Regno, nel tempo del vino davvero nuovo e della generale allegrezza (cf. Sal 104,15), che non stordisce umiliando l’uomo (cf. Gen 9,20ss).

          Tale dimensione, spesso sottovalutata, è ben presente nell’antifona che è cifra di questa festa: O sacrum convivium in quo Christus sumitur, recolitur memoria passionis eius, mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus datur.

          Con una serie di passivi ci è offerta la sintesi di tutta la nostra storia nel presente (sumitur/impletur), nella memoria (recolitur) e nell’anticipo della gloria (pignus datur).

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