Etica - Intelligenza artificiale: è urgente
Dichiarare la mente patrimonio comune dell'umanità
Questo è il fatto principale che deve guidare tutte le analisi critiche della tecnologia digitale. È la mente che deve essere conquistata, non tanto per soggiogarla o reprimerla, quanto per garantire una collaborazione docile.

Per combattere efficacemente un nemico, è meglio sapere quali sono i suoi obiettivi di guerra. Tuttavia, tutto ciò che sappiamo dei tecno-titani1 di oggi è la loro arma preferita: la tecnologia digitale aumentata dall’intelligenza artificiale. Al contrario, i loro obiettivi di guerra sono meno chiari; si tratta semplicemente di: un accumulo sfrenato di una nuova forma di ricchezza capitalistica? Di controllare tutte le prassi e i comportamenti umani? D’assicurarsi il monopolio dei dati, in modo da mettere sotto scacco gli stessi Stati? Di minare il sistema democratico? Di sottomettere l’umanità attraverso tecnologie di cui detengono tutti i parametri, o ibridare gradualmente gli esseri umani con le loro macchine?
C’è senza dubbio un po’ di tutto ciò in questa matassa difficile da districare. Forse anche gli obiettivi previsti emergono di volta in volta solo in modo relativamente contingente, man mano che si presentano innovazioni tecnologiche, ognuna delle quali apre possibilità finora sottovalutate o insospettate.
Emerge insomma una certa incertezza quanto ai reali obiettivi di questa guerra e l’unico denominatore comune sembra essere l’arroganza (hubris) totalizzante che li guida, alimentata dal ventre molle dei big data.
Ma quali che siano gli obiettivi perseguiti, una cosa è certa: essi dovranno necessariamente essere raggiunti su uno stesso campo di battaglia, quello della mente umana. Questo è il fatto principale che deve guidare tutte le analisi critiche della tecnologia digitale. È la mente che deve essere conquistata, non tanto per soggiogarla o reprimerla, quanto per garantire una collaborazione docile. Un impero piuttosto che una dittatura, il potere dei tecno-titani non si basa tanto su una schiavitù forzata quanto su una colonizzazione consensuale. Per loro, la conquista della mente umana è la madre di tutte le battaglie, da cui dipenderà il raggiungimento di tutti i loro obiettivi successivi.
La tecnologia digitale come modalità relazionale col mondo
Stiamo quindi sbagliando clamorosamente la nostra strategia nei confronti dell’impero digitale se ci accontentiamo, come fa ad esempio l’Unione Europea, di condurre la battaglia sul terreno dei diritti individuali, come la protezione dei dati personali, il rispetto della privacy, la non discriminazione e l’uguaglianza di genere, o la protezione dei consumatori.
Non che i tecno-titani non minaccino questi diritti, naturalmente: lo fanno costantemente e senza sosta, e la loro tutela è senza dubbio una battaglia importante da portare avanti – ed è esattamente ciò che l’Europa sta cercando di fare, con la sua inflazione di testi giuridici sulla tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale –.
Ma così facendo, sta facendo la battaglia sbagliata. Mentre l’UE cerca valorosamente di tutelare giuridicamente i diritti e le libertà democratiche degli utenti, la tecnologia digitale aumentata dall’intelligenza artificiale (d’ora in poi «tecnologia digitale+») continua inesorabilmente la sua incursione in tutti gli ambiti della vita individuale e sociale.
In questa offensiva globale, per i tecno-titani il modulo «diritti e libertà individuali» non è altro che un dettaglio disturbatore a cui il loro impero digitale si adatterà benissimo: o sanno come aggirare i suoi requisiti, o pagano per le sue violazioni, o lo rendono parte del proprio funzionamento.
Per la tecnologia digitale+ la sfida è un’altra: imporre a tutti gli esseri umani, in tutti gli ambiti della loro esistenza, un rapporto con il mondo mediato dai suoi dispositivi tecnici, fare della tecnologia digitale, per ciascuno e ciascuna di noi, un mediatore obbligato col mondo. Questo è ciò che conta davvero.
Infatti, è solo quando questa mediazione si sarà definitivamente imposta che la mente umana sarà colonizzata, resa dipendente e messa sotto tutela. Ne stiamo già vedendo gli inizi, giorno dopo giorno: incitati da ogni parte ad affidarci alle macchine per un numero sempre maggiore di azioni quotidiane, ci siamo adagiati senza sosta in una dipendenza unilaterale dalla tecnologia, che si è imposta in maniera strisciante.
Di più: al giorno d’oggi non è possibile fare nulla senza creare un profilo, ottenere codici e creare password: azioni identificative obbligatorie che presuppongono a loro volta l’acquisto di dispositivi, l’approvazione delle condizioni generali, l’accettazione di una licenza d’uso e l’abbonamento con un operatore. Solo una volta soddisfatti questi requisiti, l’azione prevista potrà avere luogo, ma anch’essa dovrà essere eseguita secondo processi sviluppati da altri – compilazione di caselle preformattate, comunicazione di informazioni, un clic sull’area indicata ecc.
L’uso obbligatorio della tecnologia digitale ha quindi due facce: la prima (del tutto inedita nella storia della tecnologia) è l’identificazione preventiva dell’utente, la seconda è la sottomissione indiscussa alla procedura imposta dall’applicazione. D’ora in poi, per compiere un’azione e raggiungere il proprio obiettivo, l’uomo dovrà prima obbedire alle macchine: un fatto antropologico importante! Il rapporto con la tecnologia si sta gradualmente sostituendo al rapporto naturale con il mondo. Come può questa obbedienza imposta non avere effetti sulla vita della mente?
Perché la mente è ciò che ci collega al mondo. È tutto ciò che ci permette di entrare in contatto con la realtà in cui viviamo, sia essa passata, presente o futura, sia essa fisica, sociale, simbolica, psichica. Nella filosofia della mente, c’è stato un continuo dibattito su quale sia la caratteristica costitutiva o distintiva ultima degli stati mentali rispetto agli stati fisici: coscienza di sé? Rappresentazioni? Intenzionalità? Esperienza vissuta?
Qualunque sia la complessità della ricerca di questa caratteristica costitutiva, questi labirinti della riflessione non dovrebbero oscurare il fatto che la funzione che ciascuno di questi nobili candidati è chiamato a svolgere è al tempo stesso la più immediata e la più misteriosa di tutte: quella di consentire la nostra connessione con il mondo. Questa connessione, qualunque sia la sua natura, è ciò che definisce la mente. La mente non è né un luogo speciale (un «teatro interiore»), né una sostanza particolare (immateriale, pensante), né un insieme di disposizioni o funzioni; è soprattutto una relazione con il mondo.
Un bicchiere sul tavolo non ha una mente perché non ha un legame con il mondo, tutto qui. Che la nostra relazione con il mondo sia fatta di coscienza, intenzionalità, rappresentazioni o di qualia [nella filosofia della mente sono gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti; ndt] è tutta un’altra questione. La mente è l’organo della nostra relazione con il mondo e questa è la sua realtà primaria, anche se non è un organo in alcun senso biologicamente identificabile.
Ora, essendo diventata un mediatore obbligato, la tecnologia digitale+ è in grado d’imporre alla mente la sua forma privilegiata di rapporto con il mondo. Ora più che mai la ragione individuale, lontana dalla splendida sovranità del cogito cartesiano, appare come un organo d’adattamento alla razionalità sociale: se penso che occorre sorridere al bancomat per ottenere del denaro, non ho compreso la razionalità del sistema che mi permette realizzare la mia volontà.
La razionalità individuale non può essere esercitata senza questo connubio con la razionalità oggettiva, così come viene consegnata dalla tecnologia e, più in generale, nel contesto in cui si svolge l’azione. Certo, non è mai avvenuto diversamente: l’individuo ha sempre dovuto elevarsi al livello della razionalità sociale. Ma la morsa della tecnologia digitale conferisce a questo fenomeno una portata senza precedenti, costringendola a conformarsi in modo permanente all’ordine stabilito, ad allinearsi in tutti gli ambiti dell’esistenza all’esistente stato delle cose. In questo contesto, la parte rimanente della ragione individuale, quella non allineata, si sta riducendo, come la pelle di zigrino [dell’omonimo romanzo di Honoré De Balzac; ndt].
Colonizzazione libidinale
È vero che questo obbligo generale al conformismo non assume la forma della coercizione. Come compenso per questa obbedienza predefinita, ogni utente digitale (individui, organizzazioni, Stati) è continuamente risarcito tramite innumerevoli benefici che la tecnologia digitale offre. Tutti ne traggono vantaggio, ovvero si trovano a proprio agio: chi per la soddisfazione immediata che il sistema gli mette a portata di mano, chi per il risparmio nei costi che apporta alla sua catena di produzione, chi per la razionalizzazione e l’efficienza che apporta al suo settore di attività. Nessuno può sfuggire ai benefici della tecnologia digitale+, la cui utilità immediata appare in molti settori innegabile e spettacolare (navigazione, medicina, accesso ai beni culturali ecc.). Di conseguenza, l’estensione unilaterale della tecnologia digitale nel nostro mondo quotidiano non solo sembra indolore, ma tende a essere riconosciuta come auspicabile (cosa che, a sua volta, ha ovviamente come effetto quello di accelerarla). Non provoca più una «desublimazione repressiva»,2 come diceva Marcuse, ma piuttosto un asservimento ludico.
L’arrivo sul mercato globale alla fine del 2022 di ChatGPT, l’emblema dell’intelligenza artificiale generativa, ne è una dimostrazione lampante. Una volta placato il panico iniziale (che ne sarebbe stato di molte professioni? Come e cosa insegnare? Come rapportarsi a questa nuova forma di produzione di conoscenza? Secondo quali standard di verità?), ChatGPT è stata accolta a porte aperte nella vita di tutte e tutti coloro che avevano compiti da fargli svolgere, giustamente affascinati dalle sue prestazioni.
Oggi, a detta di tutti, è un compagno molto apprezzato. Appena lanciata sul mercato, l’intelligenza artificiale generativa ha aperto agli utenti un immenso campo di soddisfazioni aggiuntive – anzi, a dire la verità, un nuovo continente –, a portata di clic: la produzione di testi originali, dotati di significato e somiglianti in modo impressionante a un test di Turing riuscito.
Si fa di tutto – e con grande successo! – per far sì che, dal punto di vista dell’utente, i dispositivi digitali appaiano straordinariamente pratici, che, da un lato, realizzino effettivamente ciò che l’utente chiede loro (questa è la dimensione oggettiva di ciò che è pratico) e, dall’altro, che lo facciano nel modo più economico possibile in termini d’energia cognitiva, psichica o fisica (questa è la sua dimensione soggettiva).
In poche parole, il sistema digitale ha la capacità di rivolgersi ai suoi utenti come esseri libidinali, cercando d’offrire loro i modi più comodi per soddisfare i loro desideri e volontà, e non solo di tipo consumistico. Esso sa come fare per andare nella direzione del soddisfacimento dei singoli utenti, chiunque essi siano (dal gamer di base alla ricercatrice d’avanguardia, passando dall’ingegnere e dalla sportiva), per essere il più possibile confortevole, per rendersi utile e infine diventare per loro indispensabile. Per le istituzioni o le organizzazioni pubbliche o private, il sistema digitale è anche in grado d’offrire soddisfazioni libidinali sistemiche come l’ottimizzazione dei costi (risparmi operativi, economie di scala grazie alla dematerializzazione, riduzione dei costi per le infrastrutture ecc.). Ovunque, l’impero libidinale è diventato evidente.3
Il paradigma cibernetico
Così facendo, la tecnologia digitale sta riuscendo ad attuare, con una forza colossale e a ogni livello di utilizzo, quello che è sempre stato il principio del suo funzionamento: il paradigma cibernetico della comunicazione, «il crogiolo e la matrice» della tecnologia digitale e dell’intelligenza artificiale, come ci ha ricordato recentemente Daniel Andler.4
Il concetto d’informazione è qui essenziale: per la cibernetica, un’informazione non è altro che un dato che, trattato in un certo modo, provoca un certo effetto. L’informazione non è portatrice di senso, ma è un dato fisico negli scambi con il mondo esterno. Questo, tra l’altro, è ciò che ha permesso a Norbert Wiener, il padre fondatore della cibernetica, di unificare, con un gesto metafisico senza precedenti, tutti i comportamenti (delle macchine, degli organismi viventi, degli esseri umani, della società) sotto questo unico schema cibernetico: ricezione di input, elaborazione, attivazione di un output, quindi effetto di ritorno (feedback, «retroazione»), che a sua volta costituisce un nuovo input per il sistema in esame.
Rivolgendosi a noi come esseri libidinali, il sistema digitale si basa proprio sul trattamento libidinale delle informazioni che ci invia, cioè su una risposta sempre orientata al più comodo, al più soddisfacente, al più pratico. L’unica condizione per entrare in questo sistema generalizzato di soddisfazione è affidarsi alla macchina. È questo l’automatismo che alimenta l’intero sistema, l’automatismo di tutti gli automatismi, o archi-automatismo: l’automatismo della mente che consiste nel rivolgersi alla macchina per risolvere i propri problemi, rispondere alle proprie domande, soddisfare i propri desideri. È questo archi-automatismo che alimenta ogni giorno la colonizzazione del nostro mondo quotidiano da parte del digitale aumentato.
Di conseguenza, la mediazione obbligata della tecnologia digitale pone oggi ciascuno dei suoi utenti nella posizione di operatore cibernetico, che riceve costantemente, su sua richiesta o meno, gli input che gli vengono inviati, producendo al contempo degli output che a loro volta diventano istantaneamente informazioni per il sistema, in una circolazione cibernetica senza fine. Definito, secondo il paradigma cibernetico, come un dispositivo per trattare l’informazione, l’essere umano, trasformato in utente, è lui stesso diventato un’informazione da trattare.
Così, estraendo continuamente i dati di utilizzo di ciascun utente (profilazione) e trattandoli in modo appropriato, il dispositivo cibernetico-digitale si dota dei mezzi tecnici per attirarci nel suo sistema e rivolgersi a noi non come a degli esseri capaci di pensare, giudicare e riflettere, ma come a degli esseri inclini a soddisfare i propri desideri e voglie nel modo più comodo e confortevole possibile.
In questo modo non abolisce, ma aggira quelle facoltà che Hannah Arendt considerava le più alte della mente umana: pensare, giudicare e contemplare (tutte cose che lei distingueva dal sapere e dalla conoscenza). Ma aggirandole, le indebolisce, le assottiglia e le erode, fino a rendere la mente un organo atrofizzato.
La minaccia ultima, quindi, è che la mente diventi cibernetica. La digitalizzazione del mondo avvolge la mente in un mantello di dati. Immersa nella sua vasca digitale, la mente (che altro?) si muove in essa come nel suo nuovo ambiente naturale, abituandosi sempre più in fretta a trovare la propria strada in un mondo controllato dal trattamento dei dati.
Di conseguenza, la mente impara – con la stessa facilità con cui si impara la lingua madre – a comportarsi come un attore cibernetico, adottando automaticamente il modo di fare del mondo digitale, reattivo alle informazioni, sapendo trasformare gli input in output, agguerrita nel formulare i propri scopi e obiettivi (la formulazione di richieste per l’intelligenza artificiale generativa è una specializzazione: la prompt engineering), abile nell’ottimizzare il proprio comportamento e nel pianificare le proprie strategie.
Questo lo si vede chiaramente nei bambini: la mente acquisisce molto rapidamente i riflessi giusti per orientarsi nel mondo attraverso la mediazione dei dati. È così che la colonizzazione del mondo vissuto da parte della tecnologia digitale porta inevitabilmente alla colonizzazione della mente, l’organo del nostro rapporto con il mondo. A un mondo cibernetico corrisponde una mente cibernetica: questa è la formula del futuro cibernetico della mente.
Ma in definitiva perché questo dovrebbe essere una minaccia? Se la mente è l’organo del nostro rapporto con il mondo, perché non dovremmo applaudire a questo ingigantimento delle possibilità d’accesso al mondo, reale o virtuale, offerto a ciascuno e a ciascuna di noi da una tecnologia geniale? Perché la futura cibernetica della mente non potrebbe essere semplicemente un nuovo modo di pensare, un accrescimento dei poteri della mente, di cui dovremmo rallegrarci piuttosto che preoccuparci?
La mente, il potere della controfattualità
La domanda ha a che fare con la natura della mente. In quanto operatori cibernetici, siamo sempre più immersi in un universo di dati. La mente è immersa in un universo di dati, nel dato dei dati. Tuttavia, la caratteristica principale della mente umana, la più fondamentale, che la distingue da tutti gli altri fenomeni naturali, è di non essere legata a ciò che è dato, ma a ciò che non è dato; d’essere guidata meno dal reale e più dall’ideale; meno da ciò che è dato e più da ciò che non è ancora dato.
Questo è un aspetto che la contemporanea filosofia analitica della mente, ma anche la cibernetica e la ricerca sull’intelligenza artificiale, hanno in gran parte dimenticato, affascinati come sono (e questo è comprensibile) dalle capacità del trattamento algoritmico dei dati da parte dei dispositivi artificiali. Sebbene questi metodi sempre più sofisticati di elaborazione dei dati possano produrre risultati senza precedenti – come dimostrano le prestazioni dell’intelligenza artificiale generativa – essi non corrispondono in alcun modo al principio operativo più elementare della mente umana che, al contrario, è caratterizzato dalla capacità di andare oltre il dato – da quello che io chiamo il suo potere di controfattualità.
Eppure è proprio questo potere di controfattualità della mente – esso può essere definito proprio come la sua capacità di rapportarsi a una realtà indipendentemente dalla sua effettiva esistenza – che tende a essere minacciato dal bagno permanente di dati in cui ci immerge la digitalizzazione del mondo quotidiano.
Platone chiamava «amore» la capacità di trascendere verso ciò che non è presente; Kant assegnava alla «ragione», distinta in questo senso dalla comprensione, la facoltà di orientarsi in base agli ideali; la scuola fenomenologica usa il termine «intenzionalità» per descrivere questa capacità di mirare a qualcosa al di là di ciò che si percepisce, una capacità che è insita nella percezione della stessa. E molti altri hanno colto nelle proprie teorizzazioni proprio questa capacità trascendentale della mente. Ma la cibernetica li ha stravolti tutti, riducendo la mente, l’intelligenza e tutto ciò che ne consegue a una mera elaborazione di dati.
Ma questo è solo una faccia di un’operazione che ha anche, inscindibilmente, il suo contrario: come, in vista di che cosa, perché tratto i dati in questo modo non è un dato, appunto, ma risulta una produzione controfattuale della mente. Tuttavia, la morsa del mondo digitale odierno sta legando sempre più la mente a un mondo di dati, riducendola gradualmente al ruolo di mero operatore cibernetico. La sua modalità operativa privilegiata non è la ricerca spontanea, la domanda spensierata, l’indagine curiosa, il coraggio di sbagliare, tanto meno il sogno a occhi aperti o il vagabondaggio; è quella dello scambio immediato di input e output.
Iscritta in un gigantesco sistema di informazioni, diventa un gestore di informazioni e, di fatto, si piega a questo funzionalismo ambientale in cui ogni attesa provoca una risposta appropriata, in cui un desiderio appena suscitato riceve la soddisfazione che lo spegne, in cui il minimo desiderio viene automaticamente preso in carico da un sistema che lo esegue.
Dichiarare la mente patrimonio comune dell’umanità
La lezione fondamentale da trarre da questo sviluppo è la seguente: se è la mente a essere minacciata, è la mente che deve non solo essere protetta. È la mente che ora è assediata dal potere colonizzatore dei big data. Ed è minacciata nei termini della sua facoltà suprema, che è quella d’essere in grado di cogliere ciò che esiste solo nel pensiero, di andare oltre il dato, di non considerare mai il fattuale come un trampolino verso il controfattuale e di farne la guida per ogni azione nel mondo. È la mente nella sua capacità di trascendenza che viene così indebolita dall’imperiosa onnipresenza della tecnologia digitale, come un paziente costretto a letto la cui forza muscolare si affievolisce giorno dopo giorno suo malgrado.
Allo stato attuale delle cose, non siamo attrezzati per il compito di difendere la mente. Né moralmente né politicamente. Nel nostro mondo giuridico proteggiamo l’individuo, non la mente. Le leggi democratiche sono certamente in grado di proteggere dalle violazioni dei diritti individuali e da tutti i reati definiti dall’ordinamento giuridico. Ma la mente umana, non essendo né una persona né un bene giuridico, non può ricadere nell’ambito di un reato qualificato dalla legge.
Non esiste un «crimine contro la mente», perché la mente non è protetta – lasciando libero sfogo alla battaglia condotta dai giganti digitali –. Quanto all’Unione Europea, sempre incline a un benevolo paternalismo nei confronti dei tecno-titani, si limita a proteggere gli individui in quanto utenti della tecnologia digitale+, senza mai mettere in discussione la tecnologia digitale stessa. Al contrario, l’incoraggia in modo generalizzato.5
Per questo propongo di dichiarare la mente patrimonio comune dell’dell’umanità, come abbiamo fatto per i fondali marini, con un’autorità dedicata.6 Questa sarebbe la più alta manifestazione giuridica attualmente immaginabile di una presa di consapevolezza sia dell’inestimabile valore della mente umana sia della sua intrinseca vulnerabilità. Preservare la libertà originaria della mente umana di trascendere la realtà semplicemente data e di non essere assoggettata al funzionalismo cibernetico è oggi un compito che dobbiamo assumerci se vogliamo preservare le condizioni di uno sviluppo autenticamente umano.
Una simile «dichiarazione» offrirebbe qualcosa di più e di diverso di una semplice soluzione ai problemi posti dalla colonizzazione della mente umana: fornirebbe il quadro normativo, oggi mancante, entro il quale tutte le soluzioni ipotizzabili potrebbero aver luogo – sul modello dei diritti umani, che non hanno ridotto in quanto tali i reati commessi contro la dignità umana, ma hanno formulato i principi in nome dei quali essi dovevano essere ridotti.
Dichiarare la mente patrimonio comune dell’umanità e consacrarle un’Autorità dedicata consentirebbe di comprendere e regolare le innovazioni tecnologiche digitali+ non più dal solo punto di vista dei diritti del mercato e degli utenti – che, ripetiamo, potrebbero essere perfettamente rispettati in un mondo interamente cibernetizzato –, ma dal punto di vista delle condizioni in cui la mente può svilupparsi.
Oggi l’industria farmaceutica è strettamente regolamentata perché tutti sanno che una molecola non controllata può essere dannosa per la salute del corpo. Ma quando si tratta della mente, nessuno se ne preoccupa: il mercato è sovrano, come dimostra l’esempio di ChatGPT, introdotta senza controlli e precauzioni preventivi, nonostante tutti sapessero che avrebbe rivoluzionato la vita sociale sotto molti aspetti.
Più in generale, l’imposizione unilaterale della modalità cibernetica nella relazione col mondo è un vincolo importante che pesa universalmente sullo sviluppo della mente, vincolo tanto più insidioso in quanto apparentemente pratico.
È in questo senso che la tecnologia digitale+ è fondamentalmente una tecnologia della mente: essa modella la mente stimolando costantemente il trattamento libidinale delle informazioni. Finisce per trasformare la mente nel circuito chiuso della cibernetica, di cui la videodipendenza è solo la forma estrema, ma forse foriera della futura società dello streaming, dove tutto sarà a disposizione di tutti con pochi clic.
I problemi di salute mentale, che stanno diventando un problema di salute pubblica globale,7 sono il sintomo clinico più evidente e indiscutibile della vasta colonizzazione in corso nel campo di battaglia della mente. Sono quindi i diritti della mente a dover essere difesi, laddove i diritti individuali come li conosciamo si stanno dimostrando non solo impotenti a fermare la marcia trionfale delle superpotenze colonizzatrici, ma addirittura la incoraggiano.
La politica dell’individuo, ormai esaurita, deve essere sostituita da una politica della mente. Come, con quali istituzioni e secondo quali criteri: queste sono le questioni urgenti da risolvere se non vogliamo perdere la battaglia della mente, nostro patrimonio comune.
Mark Hunyadi*
*Mark Hunyadi è docente di Filosofia sociale, morale e politica presso l’Università cattolica di Lovanio. Il testo che qui pubblichiamo in una nostra traduzione dal francese è apparso nel numero di aprile della rivista francese Esprit (bit.ly/4i7BurO) interamente dedicato alle sfide dell’intelligenza artificiale («L’IA aux frontières de l’esprit»). Ringraziamo l’editore e l’autore per la gentile concessione.
1Il noto acronimo GAFAM (Google-Amazon-Facebook-Apple-Microsoft), oltre a essere obsoleto (Facebook ora si chiama Meta), ignora i giganti americani (come OpenAI, Netflix, Nvidia) e non (Alibaba, Baidu o Tencent per la Cina, Spotify per la Svezia, Atlassian per l’Australia), che svolgono tutti un ruolo importante nella colonizzazione della mente. Il termine «tecno-titani» mi è stato suggerito da Ivan Meseguer dell’Institut Mines-Télécom.
2H. Marcuse, Eros and civilization. A philosophical inquiry into Freud, Beacon Press, Boston 1955; trad. it. Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964.
3Cf. M. Hunyadi, «Du sujet de droit au sujet libidinal. L’emprise du numérique sur nos sociétés», in Esprit 88(2019) 3, marzo.
4D. Andler, Intelligence artificielle, intelligence humaine: la double énigme, coll. «NRF essais», Gallimard, Paris 2023.
5Come dimostra, ad esempio, la prevista introduzione del futuro «portafoglio digitale europeo», che dovrebbe entrare in vigore nel 2027.
6Cf. M. Hunyadi, Déclaration universelle des droits de l’esprit humain. Une proposition, Presses universitaires de France, Paris 2024.
7Si veda, ad esempio, per la Francia, «Smartphones, écrans: tous accros! » [dossier online], Observatoire Santé PRO BTP, gennaio 2024.