Africa – Repubblica democratica del Congo: la caduta di Goma
Il computo ufficiale dei morti ha superato i 3.000. In 3 giorni di scontri. Corpi abbandonati per giorni sulle strade della città di Goma…

Il computo ufficiale dei morti ha superato i 3.000. In 3 giorni di scontri. Corpi abbandonati per giorni sulle strade della città di Goma… Ma probabilmente il numero totale non si saprà mai: ai 900 morti negli obitori e agli oltre 2.000 corpi sepolti dalla Croce rossa in fosse comuni senza esser stati nemmeno identificati, pare vadano aggiunti un numero imprecisato di morti gettati nel lago Kivu. Così almeno si vocifera.
La caduta di Goma è solo l’ultimo anello di una catena che da oltre 30 anni imprigiona l’Est della Repubblica democratica del Congo (RDC). Una storia disseminata di sangue e sfruttamento, silenzi e complicità. Una storia che spesso è stata raccontata su queste pagine (cf., ad esempio, Regno-att. 18,2024,575). Una storia che ci riguarda tutti da vicino, perché – ormai lo sappiamo – una delle cause del conflitto è il controllo dei più grandi giacimenti al mondo di coltan, la columbite tantalite, indispensabile per la nostra vita di esseri connessi.
Oggi la situazione è la più grave di sempre: Goma, la città martire, è in mano ai miliziani dell’M23, che non hanno alcuna intenzione di ritirarsi. Era già successo alla fine del 2012, ma allora l’occupazione era durata un paio di settimane e poi le forti pressioni internazionali li avevano costretti a retrocedere. Stavolta tutto è cambiato: il contesto interno, ma soprattutto quello internazionale.
L’insediamento di Trump alla Casa Bianca pare sia stato letto dall’M23 come un semaforo verde per spingersi ben oltre le zone che già da mesi erano sotto il suo controllo. Del resto, a queste latitudini si combatte una guerra anche geopolitica e commerciale, con la Cina che controlla – più a Sud – i giacimenti di oro e di cobalto, mentre a fianco dell’M23 c’è il piccolo e potente Ruanda: qui, nel luglio scorso, il presidente in carica si è visto riconfermato per il 4o mandato consecutivo con un 99,18% di voti che qualche dubbio dovrebbe quanto meno suscitare.
E invece l’Occidente guarda a questo piccolo Stato come a un modello di sviluppo! Eppure da anni dettagliatissimi rapporti del Gruppo di esperti delle Nazioni Unite documentano il suo coinvolgimento nella guerra nella RDC e nello sfruttamento illegale delle materie prime.
Ma il Ruanda non è solo: agisce per procura, agisce a nome di interessi occidentali, come dimostra in maniera chiara il memorandum d’intesa sottoscritto con l’Unione Europea esattamente un anno fa, il 19 febbraio 2024, per l’approvvigionamento di minerali strategici e terre rare. Minerali che il Ruanda non possiede, ma che vende come suoi.
Due mesi dopo l’accordo, l’M23 occupava la miniera di Rubaya, il più grande giacimento di coltan al mondo, che ora fa entrare nelle sue casse 800.000 dollari al mese. Chilometro dopo chilometro, lo scorso anno i miliziani hanno occupato porzioni sempre più ampie del Nord Kivu, incontrando solo una flebile resistenza da parte delle forze armate congolesi, mal armate, mal addestrate e mal pagate. Con loro i cosiddetti wazalendo, civili in armi che provano a difendere il paese.
A rischio l’intera regione
Se la difesa armata non è stata efficace, velleitaria è parsa anche la risposta politico-diplomatica: il Governo di Kinshasa non va oltre i proclami, mentre le due forze regionali in gioco, l’East African Community e la Southern African Development Community si sono per la prima volta nella storia riunite insieme per trovare una via d’uscita dalla crisi, partorendo la richiesta di un cessate il fuoco e di uno stop all’avanzata dell’M23, senza chiederne però il ritiro. Il Ruanda non è stato nemmeno nominato.
Se le diplomazie al momento non pare portino grossi risultati, ricompare un altro attore che in passato ha giocato spesso un ruolo di primo piano durante le crisi: la Chiesa. Sono serviti giorni perché giungesse un messaggio chiaro dai vescovi congolesi. Solo il vescovo di Goma si era espresso nel mezzo del caos, invocando il rispetto della vita umana e chiedendo l’accesso dei viveri.
Invece la Conferenza episcopale, tradizionalmente sempre molto combattiva e schietta, stavolta ha aspettato e meditato per giorni prima di esprimersi. Poi, insieme alla protestante Église du Christ au Congo, ha deciso d’avviare delle consultazioni con gli attori socio-politici del paese nel quadro del «Patto sociale per la pace e il vivere insieme nella RDC», un piano per porre fine alla crisi.
Dopo vari incontri istituzionali, fra cui quello con il presidente Félix Tshisekedi e con diversi esponenti dell’opposizione, il 12 febbraio una delegazione guidata dal segretario generale, mons. Donatien Nshole, a sorpresa si è recata a Goma, ritenendo necessario ampliare le consultazioni a tutti gli attori, compresi quelli in armi: una scelta che ha suscitato diverse critiche fra chi teme che così si possano legittimare le richieste dell’M23 e indebolire gli sforzi del Governo per ripristinare la stabilità nell’Est del paese.
E proprio nelle ore in cui la delegazione delle Chiese incontrava Corneille Nangaa, il capo politico del movimento che occupa Goma, per parlare di pace e di uscita dalla crisi, le truppe dell’M23 riprendevano l’avanzata verso Sud, in direzione Bukavu, capoluogo del Sud Kivu. È questa la grande paura: la possibile degenerazione e regionalizzazione del conflitto.
Da giorni anche sui social si sono drammaticamente intensificati i messaggi d’odio. Sul suolo congolese, in appoggio alle forze armate, combattono infatti anche circa 10.000 soldati burundesi. Il loro paese, alla vigilia di un delicatissimo voto e in profonda crisi economica, potrebbe essere il prossimo obiettivo, in un effetto domino che rischia di devastare la regione dei Grandi laghi.
Giusy Baioni