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Attualità, 22/2025, 15/12/2025, pag. 671

Medio Oriente: l'islam in politica

Olivier Roy

Quale islam? È la domanda che attraversa questo testo – pronunciato da Olivier Roy in occasione dell’Incontro di studio organizzato a Camaldoli dalla rivista, la Comunità monastica e la COMECE (6-9 novembre) –, incentrato sull’arco di tempo che corre tra la guerra arabo-israeliana del 1967 e quella del 2023-2025. Gran parte dell’attenzione si rivolge alle dinamiche che riguardano l’ascesa, fino al 2006, e poi il declino di un’influenza dell’Iran che Roy qualifica come politica e militare più che religiosa, e al cui interno individua due svolte: quella della Primavera araba del 2011, che ha segnato la secolarizzazione della vita politica in Medio Oriente, e quella che s’apre il 7 ottobre 2023 e si conclude tra il 2024 e il 2025, quando, in pochi mesi, l’asse filoiraniano viene distrutto, o almeno perde la sua capacità militare. La conclusione è che oggi l’islam non è più un fattore di mobilitazione politica, gli islamisti «non riescono più a presentarsi come un’alternativa credibile, ma al massimo come partiti conservatori al pari di altri», mentre s’assiste, in particolare in Iran, a «una crescente secolarizzazione della società civile».


Gli allineamenti geostrategici in Medio Oriente non possono essere separati dalle tensioni religiose, ma sarebbe un errore leggere gli sviluppi in ambito religioso solo alla luce dei conflitti geopolitici, sia interpretandoli come una delle cause principali di tali tensioni, sia, al contrario, considerandoli una conseguenza delle tensioni politiche.

La rivoluzione islamica in Iran e l’asse della resistenza

La rivoluzione islamica in Iran (1978) ha senza dubbio rappresentato una svolta geostrategica in Medio Oriente. In pochi mesi l’Iran ha cambiato schieramento e da alleato d’Israele contro gli Stati arabi è diventato il capofila del fronte dell’opposizione a Israele, un fronte che fino ad allora era basato essenzialmente sul nazionalismo arabo.

L’Iran ha cercato quindi d’islamizzare questo fronte facendo appello alla solidarietà islamica, e non araba, contro Israele per denunciare meglio la passività degli Stati arabi, a cominciare dalle monarchie conservatrici e dall’Egitto. Tuttavia i militanti islamisti arabi sunniti, ovvero essenzialmente i Fratelli musulmani, hanno rifiutato d’aderire a questo fronte, con la notevole eccezione di Hamas, ben felice di trovare un alleato nella coppia Iran/Hezbollah.

L’Iran si è quindi trovato alla guida di una coalizione essenzialmente sciita, che includeva minoranze cripto-sciite (gli alauiti e, in seguito, gli houti dello Yemen). Si è quindi assistito a un processo d’iranizzazione degli sciiti arabi sia sul piano dottrinale (sciismo duodecimano) sia su quello clericale (abbigliamento clericale, luoghi di formazione, gradi religiosi). In questo senso, la rivoluzione islamica iraniana ha avuto un impatto religioso al di fuori dei propri confini (dal Pakistan al Senegal): un’omogeneizzazione di un mondo sciita fino ad allora molto diversificato.

Ma l’Iran non è mai riuscito a federare tutti gli sciiti arabi. I grandi ayatollah Khou’y e Sistani in Iraq, la famiglia Shirazi nel Golfo e una parte del clero libanese rifiutano d’entrare nella coalizione e respingono la fedeltà alla nuova leadership politico-religiosa incarnata in una sola persona: la guida suprema della rivoluzione islamica (Khomeyni e poi Khamenei). Non tutti concordano sul principio della velayat e faqih, «il regno del giudice religioso».

Il grande successo di questa strategia iraniana è stato la creazione di Hezbollah in Libano, che si è completamente allineato all’Iran sia dal punto di vista politico e militare sia da quello religioso (velaytat e faqih) e clericale (modello del clero sciita duodecimano).

Dal punto di vista statale, il regime degli Assad in Siria è quindi diventato un alleato sicuro. Ma la minoranza alauita, da cui proviene la famiglia Assad e che appartiene al mondo sciita, si è ben guardata dall’integrarsi nello sciismo iraniano e rimane profondamente secolarizzata.

La caduta dell’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, occupato dagli americani, porta al potere gli sciiti iracheni e apre all’Iran una sorta di continuità territoriale fino al Mediterraneo e al confine libano-israeliano. Tuttavia, l’Iran non controlla né il Governo iracheno né il clero sciita, che rimane in gran parte sotto l’influenza della corrente quietista (non politica), guidata dal grande ayatollah Sistani. Tuttavia, l’Iran gode di una certa influenza in Iraq, puramente politica, grazie alla lealtà delle milizie locali.

D’altra parte, né sul piano religioso né su quello politico l’Iran riesce ad assumere la guida del movimento islamista arabo. La rivoluzione iraniana ha improvvisamente politicizzato l’antagonismo tra sciiti e sunniti, ha dato maggiore visibilità agli sciiti e alle minoranze cripto-sciite, ma non ha avuto un impatto profondo sul pensiero religioso sunnita.

Il culmine dell’influenza iraniana si è raggiunto nel 2006: Israele è costretto a porre fine alla sua offensiva nel sud del Libano a causa della resistenza di Hezbollah. Per un breve periodo Nasrallah è parso essere il leader della resistenza del mondo arabo-musulmano contro Israele. Pertanto, ciò che è accaduto in seguito è stato soltanto un lungo declino: l’esecuzione di Saddam Hussein nel dicembre 2006 apparve chiaramente come una vendetta confessionale che indignò l’opinione pubblica araba sunnita.

In sintesi: 25 anni d’attivismo politico dell’Iran conferiscono a questo paese un’influenza militare e politica, ma, sul piano religioso, solo una parte delle comunità sciite cade sotto l’influenza del clero iraniano e della sua tradizione clericale.

L’islamismo cessa di essere un fattore geostrategico

La vera svolta è stata la Primavera araba del 2011 (cf. Regno-att. 14,2011,438; 8,2021,247), che ha segnato una notevole secolarizzazione della vita politica in Medio Oriente. Per la prima volta in oltre trent’anni, l’islam non è più al centro della contestazione politica. Non ci sono più slogan come «La soluzione è l’islam» e «Il Corano è la nostra Costituzione»; i Fratelli musulmani sono assenti dalle manifestazioni nelle quali invece si trovano molte giovani donne e, in Egitto, cristiani (nonostante le reticenze del clero copto).

I giovani chiedono la fine della corruzione e la democrazia. La protesta è rivolta contro i regimi al potere. Non si articola nelle tradizionali cause difese in passato nelle piazze arabe: rifiuto di Israele, sostegno ai palestinesi, denuncia dell’«imperialismo americano».

L’Iran è destabilizzato dalla Primavera araba quando questa si estende alla Siria. La caduta del regime di Bashar al Assad significherebbe la fine dell’asse della resistenza e l’interruzione del collegamento territoriale tra l’Iran e il Libano. Gli iraniani ed Hezbollah intervengono quindi direttamente e militarmente a fianco del regime (ad esempio nella battaglia di Qusayr nel maggio/giugno 2013). Da allora l’Iran s’identifica con la controrivoluzione.

Contemporaneamente nasce il Daesh (ISIS), lo Stato islamico dello «Sham» (grande Siria), un movimento jihadista molto violento, molto radicale, molto anti-sciita e anti-cristiano, e che rifiuta anche qualsiasi alleanza con i movimenti sunniti esistenti.

Con la conquista di Mosul da parte dell’ISIS nel 2014, l’emiro Baghdadi avvia la sua conquista territoriale per stabilire un califfato islamico nel nord dell’Iraq e della Siria. Il radicalismo assoluto del jihad globale, che pretende l’egemonia nel mondo sunnita e l’eliminazione degli sciiti e dei cristiani, sconvolge anche gli equilibri geostrategici.

L’ISIS non rientra nell’ambito dei conflitti mediorientali, anche se certamente il suo radicamento locale si fonda sulle frustrazioni delle popolazioni arabe sunnite della Siria orientale e dell’Iraq settentrionale che hanno visto il potere nazionale confiscato dagli sciiti (in Siria con la dinastia Assad, in Iraq con la caduta di Saddam Hussein).

Ma Daesh è innanzitutto, come lo era Al Qaeda, espressione di un «jihad globale», che fa appello soprattutto a volontari internazionali, i quali non sono elementi di supporto, ma sono al centro stesso dell’apparato militare e politico dell’ISIS. L’ISIS rifiuta qualsiasi alleanza con gli Stati e con gli altri movimenti islamici della regione, e si trova in guerra con tutti. A tal punto che la coalizione anti-ISIS riunisce quasi tutti i soggetti della regione: sciiti (compresi i filo-iraniani), i Fratelli musulmani, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) turco, americani ed europei, giordani, turchi.

Anche Hamas combatte contro l’ISIS (nell’aprile 2015, l’ISIS attacca il campo profughi palestinese di Yarmouk, a sud di Damasco, e massacra i militanti di Hamas). Allo stesso modo, un gruppo derivato da Al Qaeda, Jabhat al-Nusra, si unisce alla coalizione anti-ISIS: quest’ultimo gruppo, guidato da Jolani/Al Shaara, prenderà il potere a Damasco nel dicembre 2024 (cf. Regno-att. 2,2025,13), provocando così la caduta del regime di Assad.

Nel periodo compreso tra il 2015 e il 2024 il fattore «islamico», e quindi quello religioso, ha smesso d’essere determinante per spiegare gli sconvolgimenti politici e gli allineamenti geostrategici in Medio Oriente.

Il jihad dell’ISIS ha rappresentato una radicalizzazione parossistica affascinata dalla morte e, alla fin fine, si è rivelata nichilista.

Il crollo dell’asse filo-iraniano

Dopo la sconfitta dell’ISIS, l’asse della resistenza guidato dall’Iran, che ha ricevuto il sostegno della Russia e che beneficia di un quasi-ritiro americano (con il rifiuto del presidente USA Barack Obama d’intervenire contro il regime di Bashar al Assad nel 2014), sembra più forte che mai. Hezbollah sta aumentando la sua potenza militare (con attacchi missilistici su Israele); il regime di Assad, sostenuto dai russi e dai pasdaran iraniani, sembra uscire vincitore (o almeno assicurarsi di essere imbattuto) dalla guerra civile in Siria.

Il Governo iracheno, ufficialmente sostenuto dagli americani, mantiene buoni rapporti con l’Iran. Infine, nello Yemen sta emergendo un nuovo polo «cripto-sciita» (gli houti) che tiene testa all’Arabia Saudita e minaccia l’ingresso nel Mar Rosso.

Ma la seconda grande svolta, dopo la Primavera araba, si apre il 7 ottobre 2023 (cf. Regno-att. 18,2023,545) e si conclude con gli eventi dell’autunno 2024. In pochi mesi l’asse della resistenza viene distrutto, o almeno perde la sua capacità militare in Medio Oriente. Hamas ed Hezbollah vengono ridotti senza essere distrutti, il regime di Assad viene rovesciato e l’Iran viene espulso dal Vicino Oriente e vede i suoi impianti nucleari bombardati da Israele nel giugno 2025.

Non tornerò sul calendario di questa sequenza. Ciò che mi interessa qui è cercare un possibile parallelo tra gli eventi geostrategici e gli sviluppi in ambito religioso, così come sembra essere avvenuto a partire dagli anni Settanta.

È chiaro infatti che la sconfitta araba del 1967 ha contribuito in larga misura a screditare i regimi nazionalisti arabi a vantaggio dei movimenti islamisti. È anche chiaro che la rivoluzione islamica iraniana ha cercato d’assumere la guida della contestazione islamista globale.

Va aggiunto, senza necessariamente cercare un nesso di causalità, che anche l’espansione del salafismo nelle società musulmane è iniziata a seguito della sconfitta del 1967. Il salafismo si definisce come la volontà di re-islamizzare le società musulmane «dal basso», ovvero attraverso un ritorno a una pratica religiosa stretta per quanto riguarda gli individui (uso del velo e della barba, islamizzazione della vita quotidiana), indipendentemente dai regimi. È possibile che il suo sviluppo sia legato al trauma morale che è avvenuto dopo la sconfitta del 1967.

L’islam non è più un fattore di mobilitazione politica

È evidente che il crollo dell’asse della resistenza rientra in un processo di perdita d’influenza dei partiti islamisti: il modello iraniano è contestato nel suo paese di nascita; Hezbollah in Libano non è riuscito a essere nient’altro che il partito politico di una parte della comunità sciita libanese; i Fratelli musulmani hanno perso le elezioni in Tunisia e in Marocco, sono stati schiacciati dall’esercito in Egitto, non hanno più alcun ruolo in Sudan, sono scomparsi dalla scena politica in Libia (e in Siria), sono stati emarginati dalla monarchia in Giordania e fungono da supporto al regime militare algerino. Solo Hamas manteneva una solida base popolare e militare a Gaza, ma è stato schiacciato dall’offensiva israeliana nella Striscia.

Inaspettatamente, la stretta cooperazione tra il clero wahhabita e la monarchia saudita, che aveva alimentato le reti salafite nel mondo, è stata brutalmente interrotta dal principe ereditario (Mohammed bin Salman), che ha abbandonato l’uso del salafismo come soft power sulla scena internazionale per mettere in atto una strategia puramente nazionalista.

Questa sconfitta politica dei movimenti islamisti e salafiti è concomitante con un complesso fenomeno di secolarizzazione che interessa tutto il Medio Oriente. Non si può parlare di un rapporto di causa-effetto, ma esiste inevitabilmente una certa correlazione.

La Primavera araba segna una vera rottura rispetto ai trent’anni precedenti: i giovani non si ribellano in nome dell’islam, chiedono giustizia, dignità e democrazia e si collocano sempre in un contesto nazionale: è la fine del riferimento alla umma musulmana.

Le elezioni in Tunisia, Marocco ed Egitto hanno certamente portato alla vittoria nel 2011 dei partiti islamisti provenienti dai Fratelli musulmani, poiché sono gli unici a disporre di un apparato politico e di quadri. Ma gli islamisti al potere non riescono a mettere in atto una vera alternativa politica. Abbandonano il loro slogan della islamizzazione sia per pragmatismo sia per impotenza. L’opinione pubblica rimane contraria all’introduzione della sharia.

Si verifica persino un paradosso: in Tunisia, è un Parlamento a maggioranza islamista che vota la legge che garantisce la libertà di coscienza, ovvero il diritto di un individuo di scegliere la propria religione o di non averne alcuna. Le precedenti leggi sulla libertà religiosa garantivano semplicemente il diritto delle minoranze religiose (cristianesimo o ebraismo) di godere della libertà di culto, ma escludevano la conversione di un musulmano a un’altra religione.

Inoltre, gli islamisti non hanno più il monopolio dell’islam politico: i salafiti entrano nella scena politica egiziana e, invece di allearsi con i Fratelli musulmani, preferiscono unirsi al colpo di Stato del maresciallo Al Sisi. Altrove sono i Governi anti-Fratelli musulmani (Egitto, Tunisia) che si richiamano all’islam (anche se in una versione conservatrice di «cultura nazionale»), impongono norme conservatrici (condanna dell’omosessualità) e organizzano un clero di Stato. In Marocco il sovrano mantiene la sua aura di comandante dei credenti, nonostante una vita personale poco tradizionale.

La Primavera araba ha certamente perso sul piano politico, ma dal 2011 tutte le rivolte e le manifestazioni dei giovani del mondo arabo si svolgono sulle stesse basi di richiesta di giustizia senza riferimento all’islam: il movimento Hirak in Algeria (2019), la generazione Z in Marocco (2025).

In breve, gli islamisti non riescono più a presentarsi come un’alternativa credibile, ma al massimo come partiti conservatori al pari di altri.

La società iraniana, campione di secolarizzazione

Infine, la crescente secolarizzazione della società civile (nonostante, ovviamente, il predominio di un conservatorismo dei costumi) fa sì che i simboli dell’islamicità (velo, digiuni, preghiere pubbliche) non abbiano più un significato politico. Molti giovani smettono di praticare il ramadan in pubblico. I tribunali si mostrano più moderati sulle questioni di blasfemia: in Marocco, nel settembre di quest’anno, Ibtissame Lachgar è stata condannata a soli 30 mesi di carcere per aver indossato una maglietta con la scritta «Dio è lesbica», mentre vent’anni fa decine di migliaia di radicali sarebbero scesi in piazza per chiederne la morte.

Un altro esempio: la messa al passo del clero wahhabita in Arabia Saudita non ha suscitato alcuna reazione negativa, al contrario i giovani si sono precipitati nei nuovi luoghi di concerti e di svago profani, al limite dell’irriverente.

Infine, le manifestazioni per Gaza nel mondo si svolgono più all’interno di una tradizione anticolonialista che in riferimento al jihad: in Occidente riuniscono i giovani studenti e non i quartieri immigrati a forte popolazione musulmana.

In Iran la legittimazione islamica del regime è scomparsa ed esso appare ormai solo come una dittatura. Una prima svolta si è avuta nel 2009, quando il presidente conservatore Ahmadinejad è stato rieletto in circostanze dubbie, provocando una violenta reazione popolare, il cui slogan principale era «Dov’è il mio voto?». È la natura autoritaria del regime che viene denunciata nelle strade. La società civile rifiuta il concetto di «sovranità di Dio» e vede nella guida solo un leader autoritario come ce ne sono tanti altri in Medio Oriente.

Questa rivolta è certamente politica, ma soprattutto denota un cambiamento importante: la secolarizzazione della società civile. Il riferimento all’islam non mobilita più e diventa addirittura controproducente. Il regime conserva una base sociale (probabilmente intorno al 20%) per ragioni sia ideologiche sia clientelari. Ma il clero non è più un efficace canale di trasmissione tra il regime e la società, poiché il sistema, per sua stessa natura, ha impedito l’emergere di grandi figure spirituali indipendenti in un clero ormai statalizzato.

I mullah di quartiere hanno perso ogni prestigio e non sono altro che officianti di riti a cui si ricorre solo in occasioni importanti, principalmente i funerali. Parallelamente, il peso dei Guardiani della rivoluzione prevale su quello del clero. Ma i Guardiani (pasdaran) sono «laici» che hanno un rapporto puramente ideologico con la religione. Il movimento di rifiuto del velo assume una dimensione sia politica (zan azadi zendegi: donna-libertà-vita) sia sociale: le donne smettono semplicemente d’indossare il velo per strada, nonostante i rischi.

Il discredito del regime finisce per colpire l’islam in quanto tale, non solo l’islam politico. La società iraniana è sicuramente diventata la più secolarizzata di tutto il Medio Oriente. Non esistono statistiche sulla pratica religiosa nel paese, ma le testimonianze concordano sul disamore per l’islam ufficiale, se non addirittura per l’islam tout court.

L’ateismo, la ricerca di altre forme di spiritualità (sufismo, o addirittura conversione al cristianesimo) o semplicemente la «tiepidezza» religiosa sono ormai comuni. Le conversioni ad altre religioni diverse dall’islam sono ovviamente vietate, ma basta guardare su Internet il numero di siti che fanno riferimento alle Chiese cristiane di lingua persiana con sede in Turchia – dove vivono milioni di iraniani che possono recarvisi senza visto – per constatare un effettivo movimento di conversioni al cristianesimo, soprattutto evangelico.

Allora, quale islam?

Oggi assistiamo a un’individualizzazione del rapporto con la religione ancora più accentuata, in particolare sotto forma di un ritorno a forme più tradizionali come il sufismo, ma anche all’affermazione dell’ateismo o addirittura a conversioni (in particolare al cristianesimo). Direi che assistiamo inoltre a un fenomeno che si riscontra anche nel cattolicesimo: una crescente scomposizione tra fede e identità.

I simboli religiosi, come il velo, rappresentano sia un’affermazione di sé e della propria fede, sia un segno più culturale che religioso. In Europa indicano l’appartenenza a una minoranza dominata che difende la propria identità per essere riconosciuta e rispettata, ma che non pone la questione della fede e del credo.

Il dibattito non verte sulla teologia (il che spiega perché gli intellettuali musulmani riformatori, come Abdolkarim Soroush, Abdelmajid Charfi, Mahmoud Mohamed Taha ecc. siano poco letti dai giovani musulmani di oggi). Questa tendenza identitaria s’allea volentieri con l’estrema sinistra nella difesa del multiculturalismo e non della libertà religiosa.

Al contrario, molti giovani musulmani born again (rinati), invece di partire per il jihad, dialogano/emulano i giovani cristiani della loro età: è per questo che si vedono ragazze cristiane indossare il velo o digiunare, non perché affascinate dall’islam in sé, ma per emulazione verso una spiritualità che va per la maggiore tra i giovani musulmani che frequentano il loro quartiere, a scuola o all’università. Questo complesso gioco tra identità e spiritualità spesso si svolge anche in uno spazio virtuale (Internet) e rimane distaccato da riferimenti politici.

Le polarizzazioni identitarie che dominano la vita politica (il movimento MAGA negli Stati Uniti che riunisce evangelismo protestante e identitarismo bianco, cattolici tradizionalisti in Europa che difendono un’Europa cristiana contro l’immigrazione) non dovrebbero nascondere i movimenti più profondi e complessi che dimostrano che la ricerca di spiritualità tra i giovani non assume più le forme ideologiche che hanno conosciuto le generazioni precedenti.

 

Olivier Roy *

 

* Il testo che qui pubblichiamo è stato pronunciato nel corso del VI Incontro di studio – intitolato «Cristianesimo coscienza dell’Europa» – organizzato dalla nostra rivista, dalla Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE) e dalla Comunità monastica di Camaldoli, che lo ha anche ospitato nel proprio monastero dal 6 al 9 novembre scorso. Il titolo della relazione del prof. O. Roy è stato «Realtà e visioni dell’islam dopo la guerra in Iran. Tra religione e politica». Gli atti completi dell’Incontro saranno pubblicati nel prossimo Annale Chiesa in Italia 2026.

Tipo Studio del mese
Tema Islam
Area
Nazioni