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Attualità
Attualità, 2/2025, 15/01/2025, pag. 38

Tobino e le libere donne di Magliano

Mariapia Veladiano

Bisogna partire dalla storia di Maria Concetta, suora in servizio al manicomio di Maggiano, che una notte sogna la sorella improvvisamente malata, e poi si scopre che era vero, l’avevano operata d’urgenza in quelle ore all’ospedale di Piombino. Suor Maria Concetta chiede il permesso d’andare ad assisterla e le viene pavidamente negato, pavidamente perché dalla Casa madre non arriva né un sì né un no.

Le sue consorelle sono contente che si siano «stretti i cordoni», perché una sorella malata è troppo poco per avere un permesso, bisogna che siano i genitori. Più avanti la stessa suor Maria Concetta, affettiva e piena di umanità, che la Casa madre ha costretto a non seguire il richiamo del suo cuore, se ne andrà senza chiedere permesso alcuno, innamorata di un impiegato che faceva servizio occasionale (cf. 106).

È dirompente rileggere oggi Le libere donne di Magliano, di Mario Tobino (Mondadori 2023, la prima pubblicazione è del 1953). Ciascuno l’ha letto all’età sua questo libro che racconta storie di donne, e il nostro sguardo sulle donne è così profondamente cambiato che sembra d’avere in mano un altro libro rispetto a quando lo abbiamo acquistato la prima volta da giovani lettori e lettrici onnivori.

Mario Tobino fu direttore per quasi quarant’anni della sezione femminile al manicomio di Maggiano (nel titolo diventa Magliano) sulle colline di Lucca che lui, da poeta quale fondamentalmente è, chiama «leggere sopraelevatezze» e «affettuosissimi monti» (74). Abitava lì, in due stanze dalle quali sentiva tutto quello che capitava, di giorno e soprattutto di notte. Le donne sono quelle ricoverate, ma anche le infermiere e, appunto, le suore che prestavano servizio. Lo sguardo è maschile e, com’è ovvio, collocato nel tempo e profondamente empatico.

Il libro fu scritto appena prima che gli psicofarmaci entrassero nei manicomi nel 1952, e molti anni prima della riforma Basaglia del 1978. Hic sunt leones, qui sono i leoni scrivevano i cartografi sulle aree del mondo selvagge e non ancora esplorate, e il cielo sa quanto la pazzia fosse parte di queste terre.

È impressionante come molte delle malattie psichiatriche di queste donne fossero immerse in contesti di violenza. Verso le donne stesse. La più struggente è la storia di una donna che Tobino chiama «la Fratesi». È «bruna, giovane, tutta bella, e una tenerezza sempre vicina al pianto». In manicomio racconta che il marito di notte la sveglia, la fa scendere in cucina, la fa mettere in ginocchio, la picchia violentemente sulla testa talvolta fino allo svenimento. «Poi il marito, dopo le percosse, usava di lei». Viene ricoverata per malinconia.

Scrive Tobino che tutto quello che racconta è vero, eppure, «bella e pietosa non si lamenta, né rimprovera o inveisce contro il marito che così la usava. Solo gli occhi le si fanno più grandi, nella bocca una leggerissima amarezza, che subito viene cancellata da un sorriso colmo di perdono, e sembra che sia sul punto di aggiungere che il marito forse aveva le sue ragioni» (30s).

Al secondo posto in questa classifica del dolore sta «la Maresca» ricoverata in quanto «vittima dei grilli erotici». Racconta che il marito, semiparalizzato, invalido di guerra, la costringeva a «certe pratiche nel disperato tentativo di potenza, e alla fine con le gote stanche lei si ribellava». E così la Maresca riversava il desiderio così acceso su chiunque e, come lo stesso marito «dalle gambe fredde» raccontava, era «impossibile trattenerla» (24s).

Il manicomio doveva essere una vacanza, per queste donne. Un nido che offriva pausa, pace, protezione. C’erano donne con ogni evidenza malate davvero, schizofreniche, deliranti, ma il più delle volte era difficile una diagnosi, venivano da tanta e tale miseria che non si sapeva distinguere quale comportamento fosse deviante e quale solo protettivo da un mondo che circoscriveva le donne dentro confini socialmente rigidissimi. Bisognava accettare ed essere sottomesse.

Fra le donne di cui Tobino racconta, ci sono appunto anche le suore in servizio al manicomio. Ne parla molto e con alterna simpatia. Le trova eroiche, votate a un lavoro tremendo, verso alcune ha un’ammirazione totale. Ma ne registra la stupida obbedienza alla superiora quando interpretano i fatti che accadono in corsia prima con libertà e acume e poi, quando arriva l’ordine superiore di allinearsi a una certa opinione, svoltano soldatescamente tutte da una parte, rinnegando il loro libero pensiero.

Oppure, peggio, registra la fiera stupidità che le inginocchia a una gerarchia astratta di valori per cui possono nottetempo tranciare i garofani coltivati con passione dalla Lella, una paziente bene inserita e però sempre fragile nell’equilibrio. Li rubano devotamente per offrirli in chiesa a Nostro Signore.

La galleria delle donne recluse si può chiudere sulla voce della Nofera, ormai anziana, che da sempre, ogni mattina ripete al dottore «con la verginità della prima volta: faccia qualcosa per me, mi ridia la vita, che torni a Firenze, come prima, io lavori felice, mi ridia le luci della città, la letizia di ciò che è bello, possa vivere, consumarmi contenta» (91).

Si può rileggere in tanti modi questo bellissimo libro che ha avuto un effetto dirompente sulla percezione collettiva dei manicomi e ha accorciato la distanza fra sani e malati, liberi e rinchiusi. Ma leggerlo con lo sguardo largo e consapevole sulla questione femminile è davvero straziante.

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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