Santa Sede - Sinodo dei vescovi: lo zaino del terzo millennio
Intervista al card. Walter Kasper
Conclusa a Roma la II sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione», si apre ora la fase della sua recezione.

Conclusa a Roma la II sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione», si apre ora la fase della sua recezione. Il dibattito è aperto tra chi ritiene il Documento finale insufficiente perché non contiene proposte vincolanti e chi ritiene invece che l’apertura su una molteplicità di temi dia la possibilità alle Chiese locali di procedere con decisioni valutate in base al contesto. In un’intervista apparsa su Communio (31.10.2024, bit.ly/3Z1Xgac) il direttore Jan-Heiner Tück – che ringraziamo per la gentile concessione – dialoga con il card. Walter Kasper, che giudica semplicistico liquidare il testo come qualcosa di non vincolante. Presentiamo qui l’intervista in una nostra traduzione dal tedesco e con titolazione redazionale (red.).
– Nessun rinnovamento senza pentimento. Il Sinodo appena concluso è iniziato con una veglia penitenziale. È stato secondo lei un giusto inizio?
«L’invito alla conversione è una parte essenziale del messaggio di Gesù (cf. Mc 1,19). Nel Credo confessiamo la Chiesa come santa e guidata dallo Spirito Santo; allo stesso tempo però è la Chiesa dei peccatori, che ha sempre bisogno di purificazione e di riforma. La veglia penitenziale all’inizio del Sinodo si è potuta ricollegare all’atto penitenziale che Giovanni Paolo II celebrò liturgicamente nella prima domenica di Quaresima dell’Anno santo 2000. Anche se il pentimento e la penitenza risultano sempre difficili, per le persone e anche per la Chiesa, sono un dono di grazia per poter sempre ricominciare, liberati dal peso del passato. Sono un dono della libertà cristiana».
– Vescovi, preti e laici, e anche alcune donne, hanno trascorso insieme 4 settimane di intense consultazioni con il metodo della conversazione nello Spirito. Si è dimostrato un metodo valido?
«A mio parere, decisamente sì. Il metodo sinodale si è rivelato un’efficace alternativa ai dibattiti aggressivi e a tutta quella in-cultura che oggi prevale nei dibattiti politici e purtroppo anche in quelli ecclesiali, dove alla fine rimangono solo presunti vincitori insieme a sconfitti umiliati e feriti. Al Sinodo abbiamo potuto intraprendere il nostro cammino sinodalmente, cioè insieme, con una maggioranza schiacciante».
– Ha percepito nello scambio sinodale livelli teologici diversi, con il conseguente rischio di qualche ambiguità o fraintendimento? E questo rischio con che metodo è stato affrontato?
«Naturalmente questo pericolo c’era, e d’altra parte, con persone provenienti da culture e lingue diverse, non c’era alternativa. Soprattutto il concetto relativamente nuovo di sinodalità è stato all’inizio interpretato in modo molto diverso. Quindi non solo il livello teologico, ma anche le posizioni teologiche erano diverse. Dopotutto un Sinodo non è un congresso di teologi, ma dovrebbe permettere al popolo di Dio di dire la sua con le sue diverse esperienze di fede, ma anche con il suo comune senso della fede (sensus fidei) dato nel battesimo.
Poi è iniziato un processo d’apprendimento, un per così dire “learning by doing” (imparare facendo). Tra la I e la II sessione si sono registrati evidenti progressi. I gruppi linguistici hanno permesso un vivace scambio diretto da persona a persona. Un gruppo di esperti ha lavorato nelle retrovie per limare le diverse terminologie nella preparazione del Documento finale, anche se con lo svantaggio che la bozza originale di tale testo era più accattivante, almeno in italiano, rispetto al Documento finale, in qualche modo canonicamente smussato. Ciononostante, ben oltre i due terzi vi si sono riconosciuti e sono stati felici di votare a favore».
L’evangelizzazione è il centro
– Il «primato dell’evangelizzazione» è una delle preoccupazioni di papa Francesco. La Chiesa sinodale dovrebbe essere una Chiesa missionaria. Ogni battezzato dovrebbe essere un attore d’evangelizzazione. Ci sono segni di cambiamenti in questo senso?
«Il Vangelo e l’evangelizzazione erano già le preoccupazioni fondamentali di papa Giovanni XXIII quando convocò il concilio Vaticano II. Papa Paolo VI ha riassunto il Concilio in questi termini (cf. Evangelii nuntiandi), e tutti i papi successivi hanno adottato questo tono di fondo, specialmente papa Francesco, che parla di gioia del Vangelo. In molti viaggi in giro per il mondo ho potuto ritrovare molti buoni frutti nelle comunità, nei nuovi movimenti spirituali e nelle comunità religiose che si sono rinnovate, così come nella teologia.
Tuttavia nella Chiesa c’è ancora troppa autoriflessione, se non addirittura letargia, mancanza di vigore e di prospettiva. Per quanto riguarda il suo tema, anche il Sinodo stesso è stato un’autoriflessione, anche se con l’intenzione esplicita di mettersi in forma per la missione affidataci da Gesù Cristo e, per così dire, preparare i nostri zaini per una nuova partenza nel XXI secolo. Ciascuno ha una missione e ciascuno è una missione».
– L’equilibrio si è spostato. Quasi due terzi dei membri del Sinodo provengono dal Sud globale. Le condizioni culturali per l’evangelizzazione qui sono diverse rispetto all’Occidente. In breve: la sfida della cultura laica per la trasmissione del Vangelo è stata sufficientemente considerata?
«Dovremo fare i conti con il fatto che l’Europa non è più il centro del mondo, né ora né in futuro. Soffia un forte vento da Sud. Le giovani Chiese dell’emisfero meridionale spesso fanno sembrare noi europei un po’ vecchi. A causa della globalizzazione economica e tecnologica, anche nel Sud ci sono tendenze secolarizzanti, ma, nonostante la povertà e spesso le persecuzioni, ci sono ancora Chiese vibranti e in crescita. La sfida della cultura laica non si presenta quindi con la stessa urgenza ovunque, e non è stata il tema del Sinodo. La sfida proviene piuttosto da contesti di povertà e miseria, palesi ingiustizie, disastri naturali e conflitti armati, una nuova guerra mondiale a pezzi e un nuovo risveglio delle culture indigene».
– La crisi degli abusi è menzionata nel Documento finale (n. 55). La richiesta di perdono, la maggiore preoccupazione per le vittime e gli strumenti di prevenzione sono citati come risposte. È sufficiente per ristabilire la fiducia, dopo questa crisi globale?
«Certamente no, ma è bene averlo ricordato. Non è possibile affrontare tutti i temi importanti, per quanto possano essere tali, con la necessaria completezza in un Sinodo universale in sole 4 settimane. Avendo il Sinodo messo al centro un approccio d’ascolto, attenzione, apprezzamento e rispetto, soprattutto nei confronti delle persone vulnerabili, ha indirettamente dato un contributo fondamentale alla questione degli abusi.
Lo stesso vale se si riconosce che la sinodalità è praticamente un attacco frontale al clericalismo e che l’obbligo del vescovo di rendere regolarmente conto del suo operato è anche una fondamentale misura preventiva contro gli insabbiamenti. Lo sviluppo dello stile e delle istituzioni sinodali e il trattamento e la prevenzione degli abusi vanno di pari passo. Dato che la fiducia si distrugge in fretta, ma una volta persa può essere ricostruita solo su tempi lunghi, fare i conti con gli abusi e costruire uno stile sinodale ci impegnerà per molto tempo».
– Si è parlato di una «salutare decentralizzazione» (Evangelii gaudium, n. 16; EV 29/2122) per promuovere l’inculturazione della fede e l’aggiornamento giuridico e teologico delle conferenze episcopali. Vede dei progressi in questo senso?
Locale e universale non sono separabili
«La discussione sullo statuto delle conferenze episcopali non è nuova; va avanti dal Concilio e ricordo d’aver partecipato a una commissione romana su questo tema ben 40 anni fa. In molti sinodi pastorali, come il “Sinodo di Würzburg”, e nei dibattiti teologici il tema ha avuto un ruolo importante fin dal Concilio. A suo tempo ho avuto un vivace dibattito pubblico su di esso con il card. Joseph Ratzinger.
La novità è che oggi stiamo finalmente discutendo la questione “ecclesiologicamente”, nel contesto ecclesiologico generale dell’unità nella diversità, o meglio della diversità delle Chiese locali all’interno dell’unità della Chiesa universale. Ci sono ormai molti studi esegetici, storici e teologici ben fondati su questo tema. Ci dicono: la Chiesa locale non è solo una provincia o un’area amministrativa della Chiesa universale, ma è piuttosto la Chiesa in un luogo.
Di conseguenza la vita del cristiano normalmente ha il suo centro in una dimensione locale, sociale e culturale. Per questo motivo la Chiesa non può essere controllata e guidata solo da una lontana sede centralizzata, anche in considerazione della diversità e complessità sociale e culturale del mondo di oggi. Senza compromettere minimamente l’unità, abbiamo bisogno di autorità intermedie a livello diocesano, nazionale e continentale, che a loro volta devono essere in comunione con il vescovo di Roma come custode dell’unità e che presiede all’universale comunità dell’amore (Ignazio di Antiochia)».
– Henri De Lubac affermava che o il collegio episcopale è universale o non è. Secondo lui una conferenza episcopale non può decidere giuridicamente o insegnare teologicamente ciò che un’altra rifiuta. Il decentramento potrebbe portare a delle crepe nella struttura della Chiesa universale. Egli attribuiva alle conferenze episcopali un carattere puramente pastorale. Come risponderebbe?
«Sono completamente d’accordo con la tesi di Henri De Lubac; ma De Lubac ha anche scritto un libro molto apprezzato, tradotto in tedesco, sul rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale,1 secondo il quale la Chiesa locale e la Chiesa universale s’appartengono vicendevolmente. Unità non significa uniformità e omogeneità. L’unità della Chiesa assomiglia piuttosto all’armoniosa interazione di un concerto, con molti strumenti diversi ma in armonia. La Chiesa universale senza Chiese locali vive è un’astrazione, e una singola Chiesa – sia essa diocesana, nazionale o continentale – che non sia in comunione e dialogo con la Chiesa universale e con le altre Chiese locali è come un ramo appassito di un albero spazzato via dal vento e ancor più dalla tempesta».
Il vescovo sinodale e le diacone possibili
– È stato definito il radicamento sinodale delle decisioni episcopali: trasparenza, responsabilità e valutazione sono le parole chiave. Allo stesso tempo il Documento finale chiarisce che l’autorità decisionale del vescovo è «inalienabile» (n. 92), cioè che egli non è semplicemente l’organo esecutivo delle decisioni della maggioranza sinodale. In che misura si tratta di un chiarimento rispetto al progetto del Cammino sinodale in Germania?
«L’autorità decisionale del vescovo è “inalienabile”, ma deve essere sinodale, sia con il proprio sinodo sia con i confratelli della conferenza episcopale. Il presidente della conferenza episcopale, in particolare, deve assicurarsi che il maggior numero possibile di vescovi diocesani sia d’accordo e che le voci dissenzienti non vengano semplicemente scavalcate e bocciate. Ci sono sempre stati singoli “dissidenti” nei concili e nei sinodi; sono stati anche tollerati finché non sono diventati un’opposizione di fondo – come l’arcivescovo Marcel Lefebvre e i vescovi della Fraternità San Pio X –. Per quanto riguarda la Conferenza episcopale tedesca, ho l’impressione che la maggioranza voglia ora intraprendere un percorso orientato al consenso in consultazione con Roma. Dovremo aspettare e vedere come sarà».
– Durante il concilio Vaticano II, Jean Daniélou propose la reintroduzione del diaconato femminile sul modello della Chiesa primitiva. Da allora tutti gli aspetti storici, liturgici e teologici sono stati analizzati, anche da due commissioni pontificie. Tuttavia il papa ha tolto l’argomento dall’ordine del giorno del Sinodo dei vescovi e lo ha trasferito a un gruppo di studio. Alla fine ha detto che i tempi non erano ancora maturi. Lei che cosa avrebbe deciso?
«Il fatto che diverse commissioni siano già state incaricate della questione della reintroduzione del diaconato per le donne, ma nessuna sia giunta a una decisione unanime, dimostra che la questione è controversa, ma anche aperta, ed è definita come questione “aperta” anche dal Documento finale del Sinodo. Non è una decisione dottrinale vincolante. Io stesso ho lottato a lungo con la risposta a questa domanda, ma ora sono giunto alla conclusione che ci sono buone ragioni che rendono teologicamente possibile e pastoralmente sensato aprire il diaconato permanente (!) alle donne. Ogni Chiesa locale sarebbe libera di decidere se avvalersi o meno di questa possibilità».
– La pressione della questione femminile è enorme, e anche al Sinodo è stato un tema che non si è potuto rimuovere dall’agenda. Nella storia della Chiesa c’è stato un diaconato specificamente femminile: non possiamo basarci su questo? Alcuni dicono che era basato solo su una benedizione e non su un’ordinazione sacramentale, e che l’unità dell’ordine di diaconato, presbiterato ed episcopato sarebbe messa a repentaglio se le donne venissero ordinate diacone. Lei che cosa ne pensa?
«Esiste effettivamente un argomento basato sulla tradizione, secondo cui sia la Chiesa orientale sia quella latina conoscevano le donne diacone in Occidente fino al XII secolo circa. La rigorosa distinzione tra sacramento e sacramentale non esisteva ancora nel primo millennio; è quindi improprio affermare che l’ordinazione delle diaconesse a quel tempo fosse un sacramentale. Anche il fatto che – per quanto ne so – le forme di ordinazione dei diaconi e delle diaconesse fossero le stesse depone contro questa tesi.
Ritengo problematico l’argomento da lei citato, secondo cui il diaconato, il presbiterato e l’episcopato costituiscono l’unico sacramento dell’ordine e quindi le donne non dovrebbero essere ordinate diacone. Come avrebbe potuto allora Benedetto XVI affermare che i sacerdoti e i vescovi rappresentano Gesù Cristo come capo della Chiesa, ma non i diaconi? E com’è stato possibile che l’ordinazione episcopale non sia stata considerata un sacramento nel secondo millennio e sia stata infine dichiarata sacramento solo dal Vaticano II, con il ricorso alla Chiesa primitiva, che non riconosceva affatto questa distinzione?
Ci sono state e ci sono quindi notevoli differenze all’interno dell’unico sacramento dell’ordine, così come sviluppi storici orientati alle esigenze pastorali».
Il primato petrino non è in discussione
– A sorpresa, il papa ha annunciato alla fine del Sinodo che avrebbe accettato il Documento finale e non avrebbe scritto una sua esortazione apostolica postsinodale. Come valuta questa decisione? È stato un atto pontificio in cui si il papa si è rimesso al Sinodo?
«Il papa ha semplicemente esercitato il suo diritto primaziale di confermare un documento sinodale, farlo entrare in vigore e pubblicarlo. Il Documento finale ha quindi uno status paragonabile a molti documenti curiali che il papa conferma ma non firma personalmente».
– L’esperto di diritto canonico di Bonn, Norbert Lüdecke, ha subito criticato il fatto che il papa, pur avendo reso pubblico il Documento finale, non l’abbia formalmente approvato, come previsto dalla costituzione apostolica Episcopalis communio (art. 18). Quindi esso non sarebbe altro che un insieme di “opzioni non vincolanti”. Che cosa ne pensa di questa valutazione?
«Non sono un canonista di professione e quindi non voglio entrare in una disputa tecnica con il prof. Lüdecke. Ma probabilmente non sono l’unico ad aver inteso le parole del papa come un’approvazione del Documento finale; altrimenti non avrebbe potuto ordinarne la pubblicazione. Se questo debba essere inteso come un’approvazione formale o meno spetta ai canonisti deciderlo. Il fattore decisivo sarà la recezione, cioè che cosa ne viene effettivamente fatto a Roma e nelle Chiese locali.
Liquidarlo sin dall’inizio come un’opzione non vincolante significa pugnalare il Sinodo e tutti coloro che hanno lavorato duramente per più di due anni e che ora sono grati che, con l’approvazione del papa, sia stato possibile varare un documento con una piena maggioranza dei due terzi che può essere ampliato e può servire come una roadmap per il futuro cammino della Chiesa».
– Tuttavia qualche dissonanza rimane, e non è stata risolta dopo diversi anni di consultazioni e deliberazioni. Per dirla senza mezzi termini, si potrebbe avere l’impressione che la comunione gerarchica della Chiesa con il papa, responsabile del ministero dell’unità, si trasformi in una «comunità sinodale discorsiva». È un’impressione ingiustificata?
«Sì, lo è. Solo il papa ha il diritto di convocare un Sinodo, di presiederlo, di concluderlo e di confermare i documenti sinodali o di modificarli o integrarli nel loro insieme o in singoli punti. Questi e altri diritti primaziali non sono mai stati messi in discussione dal Sinodo. Le proposte sinodali riguardano solo le modalità d’esercizio sinodale del primato. Sarà interessante vedere se e come questo avverrà. Ma non c’è dubbio che l’esercizio del primato ha subito notevoli cambiamenti più volte nel corso della storia, soprattutto tra il primo e il secondo millennio. Forse ora ci troviamo di nuovo di fronte a un cambiamento storico simile nel terzo millennio».
La sinodalità portata da Francesco
– Nell’ecclesiologia conciliare, alla fine si apre un orizzonte escatologico di speranza (cf. Lumen gentium, c. VII). Il popolo di Dio in cammino è quindi un’entità provvisoria che si dirige verso la polis celeste. In tempi di sconvolgimenti, non sarebbe bene riflettere maggiormente su questa prospettiva di speranza per una Chiesa sinodale?
«Sono d’accordo. La prospettiva escatologica della speranza è della massima importanza in un momento in cui molte altre aspettative si sono rivelate ingannevoli e il cielo sembra coprirsi di nubi. La speranza sarà quindi il tema fondamentale del prossimo Anno santo. Il Sinodo non ha affrontato esplicitamente l’argomento, ma ha lavorato concretamente in tal senso. Ha cercato di superare il diffuso disfattismo della Chiesa in Occidente attraverso la sua testimonianza concreta e ha mostrato che la Chiesa non è bloccata dalle incrostazioni, si mette in cammino insieme e irradia fiducia e speranza».
– Lei ha partecipato a molti Sinodi dei vescovi, sotto i papi Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Che cosa pensa ci sia di speciale e lungimirante in questo Sinodo?
«La prima volta che ho partecipato a un Sinodo dei vescovi è stato quando non ero ancora vescovo e sono stato nominato segretario teologico al Sinodo straordinario del 1985 per il 20° anniversario del concilio Vaticano II. Dovevo preparare la relazione introduttiva, quella intermedia e quella finale del relatore, il card. Godfried Danneels (Malines-Bruxelles), che all’epoca erano ancora in latino.
C’era in quel momento una notevole tensione nell’aria riguardo alla recezione del concilio Vaticano II. I Sinodi precedenti erano stati molto controllati dalla curia. Ciò che rimaneva erano le esortazioni apostoliche postsinodali del papa, gemme teologiche lucidate alla perfezione da papa Benedetto, ma chi le leggeva tutte? Nel corso del tempo c’è stato un numero molto limitato di laici accuratamente selezionati, uomini e donne, tra gli ospiti, compresi i delegati fraterni ecumenici, che potevano esprimersi liberamente solo alla fine.
Papa Benedetto XVI ha introdotto le prime aperture, come il tempo per le discussioni libere. Una svolta più profonda è iniziata sotto papa Francesco, che ha invitato a parlare liberamente e ha dato spazio alle controversie, ad esempio nei due Sinodi sulla famiglia, e poi con la nuova concezione del Sinodo attraverso la costituzione apostolica Episcopalis communio (2018): il Sinodo non è un evento, ma un processo.
Il Sinodo universale dei vescovi 2023-2024 è un evento davvero storico, poiché questa forma di preparazione mondiale e di partecipazione paritaria di laici, uomini e donne, non si era mai vista nell’intera storia della Chiesa. È anche un evento irreversibile che s’avvicina a una ri-recezione del concilio Vaticano II! Il fatto che molto sia rimasto aperto, sia dal punto di vista ecclesiologico sia da quello canonico, non è una critica, ma piuttosto un’espressione dell’apertura al futuro sia della struttura sinodale sia del tema del Sinodo.
La questione della sinodalità della Chiesa non può più essere tolta dal tavolo. Così, sulla base del concilio Vaticano II, sta emergendo la forma sinodale della Chiesa del terzo millennio. Il significato ecumenico di questo cambiamento è evidente, anche se i dettagli non sono ancora prevedibili. Tuttavia abbiamo assistito a un evento nella storia della Chiesa che porta un cambiamento e apre al futuro».
a cura di
Jan-Heiner Tück
1 Cf. H. De Lubac, Les Églises particulières dans l’Église universelle, Aubier, Paris 1971; trad. it. Le Chiese particolari nella Chiesa universale, «Opera omnia» / 10, Jaca Book, Milano 2017.