Le lettere ai vescovi di Mazzolari
Nella comunità cristiana l’obbedienza viene spesso invocata come misura della fede personale, perché viene assimilata alla fedeltà alla Chiesa di Cristo e quindi immediatamente al Vangelo. I lavori del Sinodo appena concluso nella sua fase – come dire – definitoria, hanno interrogato per tutto il tempo i credenti partecipanti e no sul tema del rapporto fra libertà di parola (la libertà di pensiero non può essere in discussione) e obbedienza, nel senso dell’adeguamento a un percorso percepito problematico. E allora viene in mente uno dei nostri maestri, di fede e di obbedienza. Tanti i suoi discepoli, anche ora, e quindi di certo maestro è.
Questo libretto, dal titolo piano e descrittivo, Lettere a vescovi (La Locusta editrice, Vicenza 1984), raccoglie alcune lettere scritte da don Primo Mazzolari ad alcuni dei vescovi ai quali di volta in volta ha dovuto rispondere dei suoi comportamenti e delle sue idee. Sono lettere a difesa, necessariamente. Non hanno il respiro confidente, intimo, intriso di Vangelo e fragilità, che troviamo in altre, rivolte a chi gli chiedeva consiglio spirituale. E sono interessanti proprio perché, pur dovendo rispondere punto su punto alle contestazioni, si può in ciascuna intuire come tutto dipenda dalla compagnia del Signore, che lo vuole insieme libero e obbediente, appunto.
Le prime lettere sono indirizzate a mons. Giovanni Cazzani vescovo di Cremona, il suo vescovo. Sono gli anni del fascismo, le lettere raccontano di verbali e protocolli e convocazioni da parte delle autorità fasciste che gli contestano «predicazione d’animo e d’espressione antifascista, abuso dell’ascendente sulla popolazione per infiltrare in essa dei sentimenti contrari al regime per tanti titoli benemerito alla religione (...) fino al fatale Te Deum» (8).
Il fatale Te Deum è forse la sua prima importante disobbedienza, non alla Chiesa ma al fascismo. Per il fallito attentato a Mussolini nel 1925 i gerarchi fascisti della zona chiesero ai preti di cantare il Te Deum e Mazzolari invece fece recitare ai fedeli il Padre nostro. Nel corso dell’interrogatorio, che viene riportato nella lettera, Mazzolari riferisce che il procuratore gli ricordò il «diritto d’intervento nelle cose nostre da parte dello Stato, quale dispensatore di viveri ai sacerdoti» (8).
E qui evidentemente c’è da pensare o ripensare a questa carsica forma di dipendenza concordataria che può, anche se è sempre possibile sottrarsi, condizionare la libertà del cattolico in Italia. In ogni caso Mazzolari conclude questa prima bella lettera con uno scarto sorprendente: «Non mi sono mai sentito come ieri calmo, sereno e abbandonato nella volontà del Signore. Il che mi portava verso un’ilarità spirituale non mai provata, la quale m’aiutava a contenere gli impeti dell’audacia e a mantenermi in quell’atmosfera di resistenza sovrannaturale che è indispensabile quando si tratta non dei nostri piccoli interessi personali ma della libertà della religione» (9).
L’ilarità è un termine che Mazzolari utilizza spesso e dice soprattutto la leggerezza. Sottrarsi alla gravità dei vincoli, lacci, doveri, rendiconti, relazioni tossiche col potere, diremmo oggi. La lettera si chiude con una professione piena di obbedienza, al Signore e al suo vescovo.
L’obbedienza è in mille modi assicurata in ogni lettera qui riportata, ma è una disposizione che non ha a che vedere con un atto di disciplina. Resta salda sempre, anche quando Mazzolari fa capire in modo limpido che non stima l’intelligenza del suo vescovo o del Sant’Uffizio. In nessun modo viene dal timore, non è accondiscendenza o arrendevolezza. L’obbedienza che Mazzolari professa è interna al suo rapporto con il Signore, è sostanza della sua fede. Quando dice d’obbedire e di fatto lo fa, Mazzolari parla comunque, parla liberamente e mostra di capire che quello dei suoi detrattori è un mondo altro rispetto al suo. Non giudica questo altro mondo, solo si tiene stretto il suo, dove sente di abitare in compagnia del Signore. Ma la libertà di dire rimane sempre.
Ecco un po’ di sue parole. Al vescovo preoccupato di salvaguardare certe procedure delle forme del matrimonio concordatario: «Quando non avrete carta timbrata da farmi riempire ma un sacrificio da chiedermi, se Dio mi sorregge, potete contare su questo povero prete che vi bacia la mano anche se lo colpite» (35). E sarà così. Subisce un attentato, gli sparano tre colpi di pistola, viene sequestrato, insieme ad altri sacerdoti, da squadracce fasciste, viene minacciato. Ne scrive al vescovo: «Non abbiamo nulla da vergognarci né come sacerdoti né come italiani» (57).
Dopo una «missione operaia», come la definisce, viene ripreso per sospetto comunismo e risponde: «La libertà cristiana può essere sofferta dall’ultimo prete e dimenticata sotto la porpora» (65). Ancora, quando per l’ennesima volta gli viene ordinato di non predicare e scrivere, risponde: «Non vi chiedo se la proibizione abbraccia ogni argomento e ogni luogo (...) mi basta continuare a pregare perché le mie spalle reggano usque ad vesperum (...) tanto chi comanda come chi obbedisce sono nelle mani del Signore, l’uno e l’altro gli devono rispondere al di sopra del breve clamore di un’opinione che vale quel che vale» (109s).
Al vescovo di Vicenza Carlo Zinato manda una nuova edizione del suo testo La parola che non passa. Gliela manda come «omaggio pulito e devoto» (113) e però insieme gli ricorda che la sua diffusione era stata bloccata proprio da lui anni prima. Ma poi il libro aveva fatto la sua strada testimoniando «l’amore per la Chiesa» del suo autore.
Un’altra parola torna spesso nelle lettere: «inquietare».
A chi gli contesta di «disorientare» i fedeli, Mazzolari risponde che semmai quello che scrive e predica può inquietare, ma l’inquietudine è sempre buona, impedisce d’accomodarsi in modo acquiescente. E comunque, lui che riconosce «di avere un cuore incontinente» (108), è sicuro che «è più tremendo imporre il silenzio che accettarlo» (81).