Dibattito - Riforma premierato: consensi e dissensi
Una riforma di principio che necessita di radicali correttivi
L’articolo di Giovanni Guzzetta pubblicato sullo scorso numero (Regno-att. 14,2024,405) di questa rivista si presta a una serie di articolate riflessioni.
L’articolo di Giovanni Guzzetta pubblicato sullo scorso numero (Regno-att. 14,2024,405) di questa rivista si presta a una serie di articolate riflessioni.
Anzitutto quelle positive. Indubbiamente, come scrive Guzzetta, il modello del premierato, ovvero il tentativo di riprodurre la logica del Governo di legislatura direttamente legittimato dal corpo elettorale in un continuum che abbraccia corpo elettorale, maggioranza e Governo, è stato quello che a partire dal movimento referendario per la riforma elettorale dei primi anni Novanta, e ancora prima dall’insegnamento di Roberto Ruffilli sul cittadino come arbitro della scelta di governo, ha marcato il centrosinistra italiano, in particolare con la Tesi 1 dell’Ulivo.
Il movimento referendario, a cui questa rivista con l’area cattolico-democratica diede un importante contributo in vista della realizzazione di una piena democrazia dell’alternanza, si mise sulla scia di quello che era stato anche il centrosinistra democratico in Francia negli anni Cinquanta (Maurice Duverger, il Club Jean Moulin).
L’idea era di giungere, con strumenti necessariamente originali che tenessero conto di tendenze naturali alla frammentazione di fronte alla dissoluzione delle appartenenze tradizionali del primo sistema dei partiti, agli stessi risultati del Regno Unito e delle principali democrazie parlamentari che non concepiscono il rapporto di fiducia in modo oligarchico, chiuso solo tra Parlamento e Governo, ma aperto anche al ruolo decisivo degli elettori.
Se si vede bene, del resto, anche i limitati casi di cambiamento di guida del Governo, nell’esperienza del Regno Unito, rispondono comunque a questa logica, giacché s’intende sostituire leadership usurate con altre in grado di far vincere le successive elezioni. Il continuum coinvolge sempre l’elettore e la vera separazione dei poteri passa attraverso lo schema elettori-maggioranza-Governo da una parte, opposizione e minoranze dal-
l’altra. Da qui vennero i cambiamenti alla legge elettorale e alla forma di governo comunale con la legge per i comuni del 1993 e i successivi interventi sulle regioni (elettorale nel 1995, costituzionale nel 1999).
Purtroppo, invece, sul piano nazionale, l’innovazione è stata sin qui limitata alle sole norme elettorali, per di più in modo contraddittorio. Si tratta quindi di un modello formalmente originale, ma tutt’altro che improvvisato e privo di riferimenti in termini d’elaborazione. Del resto, è rarissimo che modelli esteri vengano puramente e semplicemente clonati: per avere effetti analoghi vanno comunque sempre adattati al contesto in cui devono essere applicati.
Non basta una legge ordinaria
Fa quindi bene Guzzetta, citando anche l’importante intervista del presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera a Il Sole24ore del 28 giugno scorso, a riproporre questa memoria e a respingere il ritorno a quelle che Duverger chiamava logiche assembleariste, archeo-parlamentari, che spesso derivano dallo shock per sconfitte elettorali e dal timore che esse possano ripetersi.
Il proporzionalismo è spesso figlio dello sconfittismo, dell’idea di una scorciatoia che, anziché spingere a formulare proposte coinvolgenti per gli elettori, cerchi di bloccare il sistema in modo tale che il voto non sia decisivo e si possa riparare tramite combinazioni parlamentari.
Il punto problematico nella ricostruzione di Guzzetta sta nel passaggio da questo orizzonte condivisibile alla concreta proposta sostenuta da Governo e maggioranza. Qui s’intravvede un salto logico perché si ritiene in modo un po’ troppo assiomatico che «la riforma complessivamente assicura mezzi adeguati a perseguire i fini proclamati» (Regno-att. 14,2024,406) in quanto, pur non definendo perfette le soluzioni trovate, sembra che ci sia una forte continuità tra principi e soluzioni, e che cercarne altre, soprattutto attraverso un più preciso intervento costituzionale sulle formule elettorali, sia tutto sommato superfluo se non dannoso.
Qui però Guzzetta sembra trascurare due anomalie italiane preesistenti che la riforma si trascina e non risolve e – ancor più importante – una questione di fondo sulla natura delle maggioranze.
La prima anomalia è l’esistenza di due Camere chiamate a dare entrambe la fiducia. Ora, anche volendo scartare la via d’uscita più semplice, quella di dare alla sola Camera la fiducia per evitare di rivedere il bicameralismo paritario, un testo di riforma non può comunque esporsi al rischio di eleggere un premier con due maggioranze diverse nelle due Camere o comunque con esiti elettorali difformi (ad esempio il superamento della soglia per conseguire il premio in una sola Camera).
Le soluzioni possono forse essere diverse; quella più naturale, tenendo il bicameralismo per il rapporto fiduciario, sarebbe prevedere un ballottaggio di spareggio con unico voto, valevole per entrambe le Camere. Ma questa scelta, superando l’impostazione dell’attuale Costituzione che vuole due elezioni diverse, deve essere fatta direttamente in Costituzione, non sarebbe legittima se fatta solo da una legge ordinaria, com’è comunque quella elettorale.
La seconda anomalia è il voto dei residenti all’estero: la nostra Costituzione ha accettato un metodo che consente di esprimersi a 5 milioni di elettori senza rientrare in Italia a prezzo di garanzie molto basse di segretezza e personalità del voto, ma proprio per questo lo ha costruito come un diritto di tribuna, come un’eccezione al voto uguale, dando loro solo il 2% dei seggi, 8 deputati e 4 senatori.
Ora, se s’inserisce in Costituzione il principio di un’elezione a suffragio universale e diretto del premier, questo porta, senza altre precisazioni, a una contraddizione insormontabile: per il premier uno varrebbe uno, ogni elettore peserebbe uguale, ma per la scelta dei parlamentari continuerebbero a pesare 5 volte di meno. Se si vuole eleggere un premier con una maggioranza omogenea diventa molto elevata la probabilità di esiti contraddittori. Le soluzioni possono essere varie, ma vanno stabilite in Costituzione, la quale non può contenere due principi contrastanti.
Contro gli estremismi
La questione di fondo, che va ben al di là di queste anomalie, ma che va anch’essa risolta in Costituzione, anzi essa prima delle altre, è la questione delle maggioranze, assolute oppure relative, con cui dar vita a un premier e una maggioranza. In un contesto segnato da una naturale propensione alla frammentazione, non da un bipartitismo o un bipolarismo nettamente stabilizzati, vi è il rischio che il sistema possa premiare una minoranza intensa, coesa e militante, ma sgradita alla maggioranza della popolazione che magari si divide su diverse prime scelte, ma a cui occorre consentire d’esprimere una propria seconda scelta, un male minore rispetto alla minoranza intensa più coesa.
Questo vuol dire consentire all’elettore, nel caso non sia raggiunta la maggioranza assoluta, di votare con un secondo turno elettorale di ballottaggio, che ha appunto un significato de-radicalizzante, di polizza d’assicurazione contro estremisti o comunque contro coalizioni in cui il ruolo delle forze più estreme, decisive per vincere in un turno unico, possa essere rilevante.
Questi sono i nodi reali da affrontare, mentre le altre obiezioni, va convenuto con Guzzetta, non sono risolutive. Non lo è il ruolo del capo dello Stato, se lo si compara bene con le altre forme di governo parlamentari efficienti.
Infatti, è ovvio che, se si pone l’elettore al centro del sistema, una certa compressione del potere di nomina del Governo è inevitabile, tanto più se si vuole un ballottaggio decisivo (ma qualche estremismo come l’automatismo ora previsto nella proposta tra sfiducia e scioglimento andrebbe evitato perché attraverso il capo dello Stato può essere la maggioranza stessa a non volere questa rigidità per trovare un altro candidato) e così pure sul potere d’indire elezioni anticipate. Esso è credibile come deterrente contro le crisi se è più spostato verso il premier, come appunto nelle altre democrazie parlamentari.
Tuttavia, prospettare argomenti poco fondati, in ultimo dovuti alla logica ricorrente del complesso del tiranno e alle previsioni pessimiste sulle proprie sorti elettorali, non elimina il fatto che i tre elementi critici qui proposti siano invece forti, fondati e che non possano né tecnicamente né politicamente essere rinviati alla legge elettorale.
Insomma, sbaglia chi propone rifiuti pregiudiziali, smentendo l’impostazione classica del centrosinistra di Governo, ma il premierato non può essere approvato solo in base a una generica condivisione dei principi.
Ma c’è ancora tempo per rimediare.
Stefano Ceccanti