N. Antonetti, L. Giorgi (a cura di), Democrazia e fascismo
A cento anni dal Congresso PPI di Torino (1923)
Nel quadro dell’indagine si situa anche questo volumetto che raccoglie, dopo una nota introduttiva di Mariapia Donat-Cattin, gli interventi tenuti da 5 studiosi – Nicola Antonetti, Francesco Malgeri, Francesco Traniello, Luigi Giorgi, Vittorio Rapetti – a un incontro di studio svoltosi nel maggio 2023.
Istituto Luigi Sturzo - Rubbettino, Roma - Soveria Mannelli (CZ) 2024, pp. 86, € 14,00.
Nel corso del 2021, quando nuove accuse di populismo si riversavano sull’insegnamento di papa Francesco, Bergoglio introduceva nel suo discorso pubblico la distinzione tra «populismo» – che fermamente rigettava, individuandone nel nazismo la paradigmatica esemplificazione storica – e «popolarismo», verso cui esprimeva invece un giudizio positivo. Lo collegava infatti a un concreto esercizio della democrazia politica.
L’intervento del pontefice rilanciava, in alcuni settori della cultura cattolica, l’attenzione verso tale categoria, che si era già manifestata due anni prima, in occasione del centenario dell’appello indirizzato da Luigi Sturzo ai «liberi e forti», in vista della costituzione del Partito popolare italiano (PPI).
Il dibattito, strettamente intrecciato all’annosa questione di una riattivazione della presenza politica dei cattolici italiani dopo la scomparsa della Democrazia cristiana, non approdava a risultati particolarmente significativi. Induceva però l’Istituto Sturzo, che ospita nella sua sede romana le carte del sacerdote calatino e di diversi esponenti del cattolicesimo politico, ad approfondire un progetto di ricerca sul tema.
Nel quadro dell’indagine si situa anche questo volumetto che raccoglie, dopo una nota introduttiva di Mariapia Donat-Cattin, gli interventi tenuti da 5 studiosi – Nicola Antonetti, Francesco Malgeri, Francesco Traniello, Luigi Giorgi, Vittorio Rapetti – a un incontro di studio svoltosi nel maggio 2023. Intendevano approfondire il significato del IV congresso del PPI, che si era svolto a Torino 100 anni prima, nell’aprile 1923. Ne era tema centrale il sostegno del partito – che vi partecipava con due ministri e quattro sottosegretari – al Governo formato da Mussolini dopo la marcia su Roma.
L’incontro vide l’affermazione della linea di Sturzo, che mediava tra opposte posizioni. L’ala sinistra, guidata da Luigi Francesco Ferrari, invocava la mobilitazione dei popolari per condurre un’opposizione a tutto campo e in tutte le sedi contro la dittatura fascista, valendosi, se necessario, del concorso dei socialisti. L’«ala destra nazionale», che godeva di ampi sostegni nel gruppo parlamentare e nella cultura cattolica, proponeva il passaggio a una collaborazione organica con il fascismo e l’espulsione della sinistra, minacciando, in caso di rifiuto, una scissione. A essa aveva intanto offerto una sponda la fondazione, a opera di Ottavio Cornaggia, di un nuovo partito cattolico filofascista, l’Unione nazionale.
Sotto la regia del segretario il convegno approvò due ordini del giorno. Uno presentato dallo stesso Sturzo dopo un ampio discorso in cui ricordava i caratteri fondamentali del partito, ne ribadiva l’impegno a sostegno della democrazia e l’opposizione a «ogni pervertimento centralizzatore dello Stato». L’altro, presentato dal capogruppo dei deputati, Alcide De Gasperi, prospettava la continuazione della «collaborazione» – che il Trentino aveva voluto tener ben distinta dal «collaborazionismo» – con il Governo a condizione che si mantenesse il sistema elettorale proporzionale. In tal modo, come più tardi Sturzo ricordò, egli aveva dato inizio all’«operazione di disincagliamento della collaborazione ministeriale con Mussolini».
Il duce, che aveva subito bollato sul Popolo d’Italia l’intervento di Sturzo con un articolo intitolato «Il discorso di un nemico», giocò d’anticipo. Convocò i ministri popolari e, con evidente irrisione di un loro estremo sforzo per continuare la presenza al Governo, proclamò che ne accettava le dimissioni. Contemporaneamente accelerava il processo d’approvazione della «legge Acerbo», che introduceva al posto del sistema proporzionale un forte premio maggioritario. Interveniva poi sulla Segreteria di Stato, che avviava quella serie di atti, privati e pubblici, che dovevano portare nel giro di qualche mese alle dimissioni del segretario del PPI e al sostegno vaticano al nuovo Centro nazionale, il raggruppamento degli ex popolari devoti al fascismo.
Queste vicende sono state da tempo chiarite dalla storiografia. Il libro poco o nulla aggiunge alla loro conoscenza, ma merita ugualmente attenzione. Nasce infatti dalla considerazione che quel congresso costituisce un momento cruciale per la concreta determinazione di quella categoria di «popolarismo» che appare oggi assai sfuggente.
In effetti, nel febbraio 1923 Sturzo, pubblicando una raccolta dei discorsi pronunciati negli ultimi due anni, faceva per la prima volta a essa preciso riferimento. Scriveva infatti nell’Introduzione: «Il popolarismo è una dottrina politica, della quale il partito non è altro che una concretizzazione organizzativa, che può fiorire o morire in determinate circostanze, ma che non limita il valore della dottrina stessa».
Alla luce del discorso tenuto a Torino dal sacerdote calatino, non è difficile coglierne alcuni elementi fondamentali. In primo luogo il popolarismo appare una concezione che si pone come alternativa non solo al liberalismo e al socialismo, secondo la consolidata tradizione del magistero ecclesiale, ma anche a ogni forma di nazionalismo che pretenda di sacralizzare la patria, elevandola al rango di nuova divinità politica.
Non ne discende una negazione del valore della nazione, ma la considerazione che la sua promozione non passa attraverso belliciste mire imperiali, ma si realizza nella tutela dei suoi interessi attraverso il perseguimento di una concordia internazionale basata sul riconoscimento dell’universale fratellanza tra tutti i popoli.
In questo quadro generale si colloca anche l’antitesi del popolarismo a ogni assolutizzazione dello Stato, quale sarà, ad esempio, delineata dalla voce «Fascismo» sull’Enciclopedia italiana, che firma Mussolini, ma che è largamente redatta da Giovanni Gentile. A una visione che fa dello Stato il produttore dell’etica, Sturzo contrappone la tesi che lo Stato «non sopprime, non annulla, non crea i diritti naturali dell’uomo, della famiglia, della classe, dei comuni, della religione, soltanto li coordina e li tutela nei limiti della propria funzione politica».
L’architettura istituzionale a questo scopo designata – bicameralismo perfetto; una Camera a suffragio diretto, universale (compreso il voto femminile) e proporzionale; un Senato a suffragio di secondo grado da parte di tutti gli organi amministrativi; larghe autonomie regionali; ruolo centrale del partito nella forma assunta nella prima società di massa – appare assai legata alla contingenza storica.
Ma il principio dell’esistenza di libertà naturali, che lo Stato può solo tutelare, costituisce una delle eredità cruciali del popolarismo. Così come ne è elemento strutturale l’asserzione di una sfera di autonomia dall’autorità ecclesiastica (e un po’ stupisce che scarsa sia l’attenzione del libro a questo nodo).
In effetti Sturzo nel suo discorso ne ripropone i cardini: aconfessionalità del partito, sul cui programma possono convenire cattolici e non cattolici; legittimo pluralismo nelle opzioni politiche dei fedeli; rivendicazione della capacità di dare pratica attuazione all’ispirazione cristiana del proprio agire politico sulla base del consenso ricevuto dagli elettori.
Sta qui una questione ineludibile per un’effettiva intelligenza del popolarismo. Non a caso segnava il tramonto del PPI la decisione di Pio XI di attribuire all’Azione cattolica il compito di stabilire, sotto il rigido controllo della gerarchia, le forme del regno sociale di Cristo – un consorzio civile in grado di tutelare i diritti di Dio e della Chiesa –.
Daniele Menozzi