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Attualità
Attualità, 8/2023, 15/04/2023, pag. 269

Resurgamus. La chiesa, il famedio e il crematorio

Piero Stefani

Cimitero monumentale di Lugano. Viale d’ingresso ampio e rettilineo, senza alberi; a fianco tombe, espressione di arte funeraria di fine Ottocento. Al centro una chiesa di rilevanti dimensioni; la lunga data in caratteri latini la fa risalire all’AD 1887. Lo stile è tipico dell’epoca, vagamente neoromanico con apporti orientaleggianti.

Sul portale d’ingresso campeggia un’incisione: «Resurgamus sed utinam in Domino resurgamus» (detto che sembra rappresentare la faccia complementare di: «Beati mortui qui in Domino moriuntur»; Ap 14,13). Sotto la scritta c’è una lunetta, corredata, a destra e a sinistra, dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto greco (alfa e omega); vi è raffigurata una giovane figura femminile, distesa e bianco vestita; sopra di lei vola un angelo senza ali né tromba; sotto una scritta: «Resurge». A fianco alla porta, sulla destra dell’osservatore, ad altezza d’uomo vi è una piccola lapide di marmo grigio, molto più recente, con scritto in caratteri aurei: «Famedio». Basta una sola parola incisa su un rettangolo petroso per risignificare il senso di un intero, enorme edificio: dare degna sepoltura agli uomini illustri.

All’interno della cinta muraria cimiteriale si è compiuta una secolarizzazione a causa della quale la risurrezione ha lasciato il posto alla fama. Ai primi del Novecento, a sfidare quella fede fu invece un altro edificio. Dopo il famedio il viale continua, senza restringimenti, per sfociare in una costruzione di dimensioni pari alla ex chiesa. Lo stile architettonico è però diverso: la facciata richiama il Pantheon (colonne, trabeazione, frontone) o, se si vuole, il Palladio. In luogo della cupola, presente nella chiesa, c’è un parallelepipedo alto ma piuttosto massiccio, grigio. Sul frontone è incisa a grandi caratteri un’unica parola: crematorio. Nel tempo la destinazione della costruzione non ha subito varianti.

Qui tutto è rimasto uguale, tranne un particolare: sul muro sono appesi quattro poderosi altoparlanti che, quando si è in procinto di riconsegnare le ceneri ai parenti, diffondono per tutto il cimitero canzoni tipo Mamma o Ritornerai. 

Spazi interiori ed esteriori

Nel XXI secolo si è persa memoria del contrasto, lungo e tenace, che accompagnò l’erezione del crematorio. Ai suoi tempi la laica battaglia si prolungò per più decenni. Il sigillo dell’avvenuta vittoria è presente nella pergamena racchiusa nella prima pietra dell’edificio. Sono righe contraddistinte da un clima di fiduciosa sacralità materialistica: «Auspice la Società ticinese di cremazione oggi 4 novembre 1913 un’adunanza di uomini liberi afferma ai posteri che saldezza di convincimenti e tenacia di propositi hanno reso possibile, in epoca di civile progresso, ma di contrastata libertà, l’erezione di questo tempio sacro alla fiamma purificatrice, all’ideale antico dell’immediato ritorno della materia all’origine prima».

Oggi a essere svanita, su entrambi i fronti, è la sfida lanciata, più di un secolo fa, dalla cultura scientifico-materialista a una Chiesa ancora fedele all’inumazione. La targa «famedio» e le canzoni strappalacrime attestano che, nel vecchio scontro, la vittoria non è stata riportata da nessuno dei due antichi contendenti.

Da un lato, la fede nella risurrezione ha lasciato il posto a uno spazio memoriale laico; dall’altro, il materialismo rivestito di scientismi è stato sostituito da un facile sentimentalismo di consumo. Non meno della chiesa, anche il crematorio, pur mantenendo a pieno ritmo la componente pratica, è stato depotenziato nel suo aspetto simbolico. Anch’esso non ha più alcun messaggio ideale (o ideologico) da comunicare.

Dopo essere stata allontanata dagli spazi interni, la liturgia cattolica ha trovato, dagli anni Settanta del Novecento, ospitalità nelle immediate vicinanze. Fuori dalla cinta cimiteriale sorge, infatti, una chiesa di non vasta dimensione, architettonicamente non sciatta. È la parrocchia di Cristo Risorto. All’esterno vi si legge una data: 1974. Attualmente l’edificio è frequentato soprattutto da immigrati. La zona, per quanto ormai pienamente urbana, resta infatti ancora un po’ decentrata. In contrasto con il suo etimo, l’altare è posto nella parte bassa di un interno che richiama la struttura di un auditorium. Le funzioni funebri cattoliche si svolgono lì. Da mezzo secolo l’atto di celebrare la fede nella risurrezione, almeno nella sua dimensione propriamente liturgica, non è più ospitato nel cimitero. La croce di Gesù fu piantata al di fuori della città dei vivi (cf. Eb 13,12); dal canto suo, la chiesa di Gesù risorto è collocata al di fuori della città dei morti.

Il cimitero monumentale di Lugano è soltanto un esempio, tra i molti possibili, che solleva il problema di sapere quali siano, oggi, gli spazi esteriori e interiori in grado di accogliere la fede espressa dal detto: «Resurgamus sed utinam in Domino resurgamus». Sorge una domanda: occorre avere nostalgia dei tempi e delle circostanze in cui venne incisa quella scritta? O conviene, addirittura, guardare con qualche rimpianto all’epoca nella quale la fede nella risurrezione era apertamente sfidata da sedicenti certezze materialistiche? 

La nostalgia del totalmente Altro

A volte i piccoli testi sono grandi. In questo novero rientra, a buon diritto, un libretto di Max Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro (1970). Siamo negli stessi anni in cui si erigeva, extra moenia, la chiesa di Cristo Risorto. Le pagine, nate da un’intervista, racchiudono passi memorabili. La Sehnsucht (nostalgia) manifestata dal filosofo francofortese non riguardava la possibilità di fondare i valori comuni su un’ipotetica esistenza di Dio. Il suo discorso era più profondo. Lo specifico di quella nostalgia era la volontà di liberarsi da ogni illusoria maschera propensa a coprire la finitezza umana.

Il testo dà corpo alla convinzione che, quando si è nel limitato, non tutti i conti tornano. La nostalgia del «totalmente Altro» è una specie di speranza depotenziata che trova la propria base d’appoggio solo in un anelito dell’animo umano. Essa non attende una realtà che viene a noi, si esplica unicamente nella ricerca di una specie di punto archimedeo in grado di giudicare questo mondo.

La Sehnsucht di Horkheimer è un messianismo ipotetico e critico. È la volontà di non rassegnarsi al fatto che l’assassino possa averla vinta per sempre sulla propria vittima innocente. È il convincimento sorto quando non si crede più che la storia, nel suo progredire, possa dar ragione di tutto quanto è stato. È l’atto di comprendere che l’autentica risposta al male del mondo potrebbe essere data soltanto dalla risurrezione dei morti, la quale, peraltro, non avverrà mai.

«Aspetto la risurrezione dei morti», afferma il Credo. La persona di fede attende una realtà sempre negata dall’esperienza. Gli occhi dei viventi fino a oggi hanno visto l’altrui morire e mai l’altrui risorgere. Solo questo esito ultimo potrebbe però rispondere in qualche modo al male del mondo. Non c’è azione che possa surrogarlo.

Vi è solo l’attesa che Qualcuno, dal di fuori, si pieghi, misericordioso, verso la polvere. La speranza non esprime la volontà di catturare nella fede un animo che, ragionevolmente, non può credere a quanto è inverosimile.

Ci può essere solo un invito a comprendere che, pur essendo certo che nel relativo vi sono cose impossibili da conseguire, resta saldo il più nobile pensiero accolto nell’animo umano, ovvero il giudicare la nostra fame e la nostra sete di giustizia più grandi del finito.

Scrisse Horkheimer nello Schopenhauer-Jahrbuch del 1961: «Ogni essere finito – e l’umanità è finita – che si pavoneggia come il valore ultimo, supremo e unico, diventa un idolo che ha sete di sacrifici di sangue». La confutazione del preteso valore ultimo della finitezza è la nostalgia della trascendenza e della grazia.

Sul terreno dell’azione non è affatto necessario spiegare le ali della nostalgia. Esistono morali laiche che non hanno bisogno di alcun puntello. Un’etica fedele a sé stessa sa di essere finita. Quanto non può esistere è una fede laica nella risurrezione dei morti.

Horkheimer lo sapeva, per questo ne aveva nostalgia. Sentimento, quest’ultimo, riservato, per definizione, alle realtà irraggiungibili e non già a quelle che si è in grado di conseguire con un agire all’altezza della nostra condizione umana. Quanto per definizione è fuori dalla nostra portata è ridare una vita vera al passato. Non ci è dato di riscattare le infinite vittime della storia umana. Può farlo solo la risurrezione. La nostalgia del totalmente Altro condivide questa convinzione, vi aggiunge però una nuda clausola: non vi sarà mai alcuna risurrezione.

«Resurgamus»; una parola letta dai vivi, ma che riguarda i morti. Per risorgere occorre prima morire. Il kerygma, divenuto tradizione, annuncia da due millenni che la morte non ci sarà più. Il succedersi delle generazioni presuppone, come dato ineliminabile, l’esistenza sia del nascere sia del morire.

In Gesù la vittoria sulla morte si compie attraverso la morte. Nei credenti la speranza che non ci sarà più morte si trasmette, di generazione in generazione, attraverso una catena di morti. Quando lo si pensa in profondità, è arduo vivere nel paradosso.

 

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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