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Attualità
Attualità, 22/2022, 15/12/2022, pag. 713

Anna Maria Cànopi. La spiritualità dell’abbandono

Mariella Carpinello

Dal settembre 1994, in cui la incontrai per la prima volta, alla primavera 2019, in cui lasciò questo mondo, non sono mancate le opportunità per scrivere di madre Cànopi. Ogni volta è stato naturale ritornare all’indigenza radicale da cui origina l’abbazia Mater Ecclesiæ, che l’accomuna ai nuovi corsi nella storia della consacrazione. I primordi di Cîteaux, di Vallombrosa, di Monte Oliveto, degli eremiti del Monte Carmelo e de La Verna (solo per ricordare pochi esempi) sono analoghi per audacia di spirito e materiale penuria. È su quel retroterra millenario che la nostra visuale sull’Isola San Giulio d’Orta sconfina dai limiti del singolo evento e al contempo ne individua i tratti peculiari.

 

Dal settembre 1994, in cui la incontrai per la prima volta, alla primavera 2019, in cui lasciò questo mondo, non sono mancate le opportunità per scrivere di madre Cànopi. Ogni volta è stato naturale ritornare all’indigenza radicale da cui origina l’abbazia Mater Ecclesiæ, che l’accomuna ai nuovi corsi nella storia della consacrazione. I primordi di Cîteaux, di Vallombrosa, di Monte Oliveto, degli eremiti del Monte Carmelo e de La Verna (solo per ricordare pochi esempi) sono analoghi per audacia di spirito e materiale penuria. È su quel retroterra millenario che la nostra visuale sull’Isola San Giulio d’Orta sconfina dai limiti del singolo evento e al contempo ne individua i tratti peculiari.

La Regola e la Grazia

Forse una delle chiavi d’accesso al suo mondo è la parola abbandono. Quando provo a immaginare madre Cànopi appena insediata con sei consorelle su una minuscola isola lacustre disabitata, priva del necessario per la sopravvivenza, ripenso a una pagina di Jean-Pierre de Caussade: «Tutto quello che le anime trovano con la loro iniziativa, quest’anima lo riceve nel suo abbandono e ciò che le altre conservano per ritrovarlo nel momento opportuno, quest’anima lo riceve al momento del bisogno e poi lo abbandona, non volendo possedere se non quello che Dio vuole concederle, per non vivere che per mezzo di lui. Le altre intraprendono per la gloria di Dio un’infinità di cose, questa spesso è in un angolo della terra come un coccio di vaso. Lì quest’anima abbandonata dalle creature, ma nel godimento di Dio attraverso un amore autentico, non si rivolge a nessuna cosa per impulso proprio. Non sa far altro che abbandonarsi e rimettersi a Dio per servirlo nel modo che lui sa. Spesso ignora a che possa servire, ma lo sa bene Dio. Attraverso risorse segrete e canali sconosciuti, essa spande un’infinità di grazie su molte persone che spesso non se ne rendono conto e alle quali lei stessa non pensa».

Nella nudità d’un contesto vergine è inevitabile il ritorno alla purezza della Regola, come accade ogni volta che una comunità benedettina affronta un esodo (l’esodo in tal caso è dalla rinomata abbazia dei SS. Pietro e Paolo a Viboldone) e l’osservanza s’adatta a un ritrovato deserto dei padri. Ben presto la piccola fondazione va incontro a uno sviluppo sorprendente: crescita numerica, ma anche affluenza di religiosi e laici, di cattolici e non cattolici, di increduli e agnostici che cercano nel monastero un orientamento spirituale.

Benché nel trascorrere degli anni la portata attrattiva dell’Isola San Giulio quasi la equipari alle mete dei pellegrinaggi, la sua vocazione al silenzio e alla clausura resta tale. L’hortus conclusus perdura inaccessibile e tuttavia assolve anche la missione del crocevia d’innumerevoli percorsi. Il conciliarsi di questi opposti – apparentemente tali – crea un’occasione esigente anche per chi vi s’accosta.

La devozione qui non basta, anche all’ospite è richiesto un certo abbandono, parziale ma veritiero. La Regola benedettina definisce il monastero schola, che nel largo spettro del significato latino è il luogo dove si apprende, dove si esercita un’arte, dove ci si tempra in una militanza comune. Chi arriva dal mondo deve lasciarsi un poco formare e arruolare: una buona disposizione spontanea non sarebbe sufficiente. Deve compiere lo sforzo d’immettersi in un’alta densità di contenuti che gli riesce insolita.

Come san Benedetto prevede, all’arrivo l’ospite è accolto con premura dall’abbadessa. Se occupa un posto elevato in società o nella gerarchia ecclesiastica avverte che la deferenza rivoltagli non è del tipo consueto, perché l’amabilità dell’approccio è per chiunque.

Trascorsa la notte, il primo impegno è la liturgia mattutina, tragitto prolungato che gli richiede qualche sforzo, se non è avvezzo. Si alza alle 4.20, quando ancora è buio, alle 4.50 è in cappella per il Mattutino. La salmodia, la lettura biblica e patristica o brani tratti dall’opera del santo celebrato in quel giorno lo assorbono nella calma di un lessico intemporale. Intanto l’aurora si diffonde sulla superficie delle acque.

Intorno alle 5.45 un intervallo di circa dieci minuti lo invita ad affacciarsi sul verde del giardino. Gli sembra di non essere stato mai altrettanto grato per l’inizio del nuovo giorno. È oramai l’ora delle Lodi ed è durante il loro svolgersi che si schiude la lectio divina: la parola dell’abbadessa rivolta al coro delle monache e agli ospiti. La sua voce suona al nuovo venuto come lo stringersi di una relazione simultanea e personale. La partecipazione alla preghiera comune si fa invito diretto. È quasi al dunque dell’incontro che ha sperato arrivando. 

Dire che il monastero è una schola e che la madre pronuncia una lectio non significa che tenga una lezione. Nel termine lectio i monaci antichi designano il testo da leggere e se lo completano con l’aggettivo divina è perché quel testo è la Bibbia. Non un libro come un altro, ma un cosmo vivente, che continuamente rinnova la creazione nell’animo di chi lo frequenta. Dio comunica le sovrabbondanze del suo amore creatore tramite la Parola. La lectio quindi non è solo nella sacra lettura, ma nel soggetto che legge e che risponde. Oggetto e soggetto vivono quello scambio speciale che si gusta senza alcun altro fine che gustare. Quale altro rapporto potrebbe essere più desiderabile?

 

La lectio divina

Fra i monaci di prima generazione nulla è più importante della parola di Dio, che vivano nel deserto egiziano o nella Cappadocia di Basilio. Due autori monastici che si oppongono su tutto, Agostino e Pelagio, concordano su un punto: la valenza della lectio. San Benedetto le assegna un posto privilegiato, le riserva le ore migliori, si preoccupa che nessuno la trascuri, incoraggia gli svogliati e sceglie con attenzione i testi: la Bibbia, ma anche le opere dei padri del deserto e dei primordi patristici, affinché risulti evidente il trasfondersi della parola di Dio in coloro che gli si sono dati. Assegna al monaco una lettura che continui ad accompagnarlo lungo la giornata nella ripetizione mnemonica di ciò che ha letto.

Durante il Medioevo, i benedettini non si scostano dal suo modello. A partire dalla lectio, «ruminano» continuamente le Scritture, al pari dei coevi bizantini, la cui assiduità alla meditazione biblica ammiriamo negli affreschi dell’Athos. Se ci avviciniamo ai nostri anni, la ricerca scientifica sulle fonti evidenzia energicamente alla Chiesa del Novecento l’inseparabilità della lectio dall’orazione e dalla meditazione. Le tre opere sono una. 

Lungi dal compiacere il gusto romantico per il primordiale, constatare la longevità di questa pratica c’introduce a un efficace realismo. Se qualcosa s’avvalora nel tempo, se distilla esperienza eccellente in un’epoca di sommarietà religiosa quale la nostra, se attrae ascoltatori in austeri ambiti che niente lasciano al caso, ci dice che è tutt’uno con le nostre esigenze spirituali primarie.

Per praticare la lectio, fruire dell’orazione che ne scaturisce e custodirne lungamente i benefici, occorre ascoltarla nell’habitat in cui nasce, vale a dire in una realtà d’ascesi e di raccoglimento, quale è la vita monastica. Occorre che trovi il suo posto nella liturgia, lo spazio in cui il tempo umano s’avvicina alla dimensione eterna. La lectio è inseparabile da un’esistenza ordinata alla ricerca di Dio secondo la forma monastica, diretta concretamente a quel fine in ogni aspetto e in grado di trasmettersi di generazione in generazione per sua intrinseca generatività. I gesuiti hanno gli esercizi ignaziani, i carmelitani l’orazione contemplativa e, molti secoli prima di loro, i monaci hanno la lectio.

Perciò quello che madre Cànopi esprime durante le Lodi non deriva tanto dal suo percorso di buoni studi, non è un assemblaggio di nozioni esegetiche, ma quanto ha acquisito personalmente e comunitariamente dalla sua prima formazione fino all’abbaziato, nell’accoglienza di un’eredità millenaria cui si abbandona operosamente. L’assimilazione del suo dire e del suo riflettere le sacre Scritture secondo il metodo della lectio oramai è in lei tanto connaturale che non si può distinguere lo slancio del suo cuore dalla reminiscenza del testo sacro.

I suoi uditori per lo più ignorano da quale trasmissione provenga il beneficio di quanto odono, ma lo ricevono. La lectio, nella linearità vissuta della sua esposizione, si fa ponte tra clausura e mondo annullandone il contrasto e la convocazione all’ascolto non scoraggia le presenze esterne, anzi le incrementa.

Terminate le Ore degli uffici mattutini e la celebrazione della messa, alle 9 circa, dopo colazione, quando la madre s’avvicina al refettorio, saluta gli ospiti e ne chiama qualcuno per intrattenerlo in disparte, l’adesione alla parola di Dio continua a essere il tono, il filo conduttore e l’anima del suo colloquiare. 

I modelli femminili della Parola

Nei giorni feriali i temi scelti vertono sulle letture del Mattutino: prima lettura dall’Antico o Nuovo Testamento, lettura patristica e terza lettura per le memorie, feste o solennità. Lo stesso dicasi per le domeniche, con l’aggiunta di alcuni spunti legati al Vangelo domenicale, senza interferire con l’omelia del sacerdote. 

Le lectio dei tempi forti introducono nei temi relativi. Per l’Avvento le figure delle donne bibliche, con attenzione verso i modelli femminili, lo Spirito Santo nell’Antico e Nuovo Testamento, l’infanzia di Gesù in prossimità dei suoi natali, Gesù e i bambini, le domande della fede, Dio risponde all’uomo, l’oggi della salvezza.

In Quaresima i Salmi graduali (così detti perché accompagnavano i pellegrini nella salita al tempio di Gerusalemme), il profeta Osea, cui Dio rivolge la più esplicita convocazione sponsale al deserto, la fede messa alla prova che tutti conoscono, Gesù maestro di lectio divina nella sinagoga, Gesù e i malati, l’«ora» di Gesù, le parole di Gesù risorto.

Nel periodo annuale di deserto, quando l’ospitalità è sospesa, la parola pronunciata alla sola comunità non manca di trattare il dono della vita monastica.

Singolarmente, le lectio prendono sovente la forma di piccolo volume ed entrano nei circuiti editoriali, oppure sono stampate dalla piccola stamperia del monastero ed esposte nelle portinerie dell’abbazia Mater Ecclesiæ e delle sue case-figlie a Saint-Oyen, a Fossano. Tale diffusione contribuisce alla notorietà dell’isola.

Quotidiani e riviste pubblicano articoli sul «caso San Giulio», insistendo sull’alto tenore della vita religiosa e sulla profondità spirituale dell’abbadessa. Di rado o forse mai si accenna alla sua opera di carità.

Di fatto, il dono di partecipare al dolore di chiunque era uno dei tratti primari della personalità di madre Cànopi e fu da lei dispensato fino agli ultimi giorni silenziosamente.

Per decenni furono a migliaia quelli che approdarono all’isola sull’onda della disperazione. Molti di coloro che l’avevano incontrata anche una sola volta, tornavano spontaneamente da lei dopo una diagnosi medica che non lasciava scampo, la morte della persona più cara, la scoperta d’un inganno ignominioso, la prospettiva della carcerazione, l’incapacità di riscattarsi da gravi dipendenze.

La speranza dell’approdo

Si sapeva che sarebbe stata disponibile con un: «Eccomi», che era la sua prima espressione nel rispondere a ognuno. Era lei l’ultima persona cui si telefonava prima d’entrare in sala operatoria o quando il suicidio pareva l’unica uscita dal disastro esistenziale. La guida della sua comunità non le impedì un’assistenza esterna alla quale dedicò parimenti sé stessa.

Non avrebbe potuto risollevare tante speranze e scongiurare il peggio per molti se la sua condivisione non fosse stata in verità. Il sofferente si sentiva accolto dentro un abbraccio di compartecipazione che diventava l’ambito per sopportarla. A poco a poco scopriva nella pena il mezzo vitale per addentrarsi a fondo nella condizione umana, nelle sue dolenti bellezze, fino a liberarsi dei suoi aspetti terrificanti.

La conoscevo da poco quando mi resi conto che il portare in sé tanto dolore la accompagnava anche nelle ore notturne e la consumava nel fisico, benché nel contegno apparisse sempre impeccabile. Ingenuamente, una volta mi permisi di dirle che doveva proteggersi per non estinguersi. Rispose con viva fermezza, ma anche con un sorriso indulgente: «Non si può». Non disse: «Non posso», l’essere benedettina parlava in lei al plurale.

I secoli benedettini descrivono un’ininterrotta assunzione di responsabilità da parte dei chiostri verso il contado prossimo, le regioni lontane e l’oltremare. Il monachesimo reale, nella sua separazione dal mondo, genera i principi d’una cultura spirituale che determina buon vivere terreno e li espande a largo raggio, come la sua storia illustra. Pertanto la clausura e l’ampio posto riservato alla preghiera non concede alle comunità singolari il pretesto per trascurare la carità. 

Il «non si può» di madre Cànopi m’indicò la fonte della sua forza: l’abbandonarsi senza ritrosia alla miseria umana, quel genere d’abbandono che è nella disponibilità ad amare la croce. La sua relazione d’amore a Cristo si rinnovava continuamente in lei tramite la pena altrui, con le parole e i sentimenti sempre diversi della vita che si moltiplica.

Negli stessi anni capitava che, tra le file del monachesimo femminile e dei suoi sostenitori, alcuni si chiedessero se fosse opportuno o meno osservare la clausura più stretta o formulare un repertorio di nuove prescrizioni per «mantenere aperta una finestra sul mondo»: ammodernare l’abito, lasciare che le monache uscissero in città per le commissioni, sciogliere vecchie riserve, aggiornare la condotta.

Quando mi chiedevano che cosa ne pensassi, restavo evasiva. Mi pareva che la domanda fosse posta astrattamente e che ciascuna comunità dovesse entrare a peso morto nel solco delle proprie condizioni particolari, consumare sperimentalmente nell’abbandono la propria ricerca di Dio, la quale non può passare per un adeguamento automatico all’attuale.

A distanza di tempo, sento di poter dare una risposta non mia. La stretta clausura dell’Isola San Giulio per mezzo secolo assicurò a miriadi di persone la certezza che non sarebbero state lasciate sole, che qualcuno avrebbe preso parte senza limiti alla loro umanissima afflizione. Fu questa la finestra sul mondo che madre Cànopi mantenne aperta.

 

Mariella Carpinello

 

 

Tipo Sulle spalle di giganti
Tema Cultura e società
Area
Nazioni