Francesco - Viaggio in Iraq: la sfida dello Spirito
Un viaggio e un progetto accuratamente meditati
La ribalta alla quale il martoriato Iraq è stato portato dal viaggio del papa sta tutta nel selfie delle giovani raccontato dall’obiettivo di Gianmarco Maraviglia e dalle parole di Laura Silvia Battaglia, inviati nella terra dei due fiumi.
La ribalta alla quale il martoriato Iraq è stato portato dal viaggio del papa sta tutta nel selfie delle giovani raccontato dall’obiettivo di Gianmarco Maraviglia e dalle parole di Laura Silvia Battaglia, inviati nella terra dei due fiumi. Definito un «miracolo», il viaggio segna un punto a favore della silenziosa e alacre diplomazia vaticana – erede delle tessiture e dei rapporti dei tanti Etchegaray, Tauran, Silvestrini… – e dà visibilità alla vita sofferta dei cristiani orientali, ricchezza ignota per lo più ai latini. Come scrive Claudio Monge, Francesco ha potuto recarsi, in quanto «penitente e pellegrino di fede e di pace», in una terra tutt’altro che pacificata, ma nella quale una parola di fraternità tra credenti è possibile. Anche grazie a incontri come quello con al-Sistani «si sono compiuti infatti i primi passi» – osserva Piero Stefani – di una «teologia della fratellanza». Tema approfondito nello Studio del mese da Kurt Appel che propone l’«alterità fraterna» come bene comune per ebraismo, cristianesimo e islam.
Ho «pensato tanto, ho pregato tanto su questo e alla fine ho preso la decisione, liberamente, che veniva da dentro. E io ho detto: colui che mi dà di decidere, si occupi della gente. E così ho preso la decisione, così, ma dopo la preghiera e dopo la consapevolezza dei rischi». I rischi ai quali fa riferimento papa Francesco nella risposta a una domanda che gli viene posta, nella tradizionale conferenza stampa sul volo di ritorno dal viaggio in Iraq (5-8.3.2021), sono, nella fattispecie, quelli legati alla pandemia da coronavirus, che da oltre un anno tiene in scacco il mondo intero.
A posteriori, potremmo dire che l’inizio quasi in sordina, in una Baghdad blindata a causa delle precauzioni sanitarie (nulla a che vedere con le immagini di folle in festa nel Nord del paese), oltre che per motivi di sicurezza, ha simbolicamente significato la necessità culturale ma anche teologica di entrare «in punta dei piedi», in un universo che rappresenta il clamoroso fallimento dell’arroganza occidentale e dell’impotenza di una politica fatta di interessi travestiti da nobili motivazioni umanitarie (cf. lett. enc. Fratelli tutti, n. 258).
Certo, l’Iraq era e resta un paese in guerra (due giorni prima dell’atterraggio di papa Francesco a Baghdad, tiri di mortaio di una milizia sciita filo-iraniana sulla base militare di Din al Assad, avevano fatto ancora una vittima) ma, checché ne dicano semplici pubblicisti improvvisati esperti, né Francesco né l’attenta diplomazia vaticana sono usi a colpi di testa o a decisioni affrettate e totalmente irrazionali. C’è una differenza sostanziale tra il protagonismo autoreferenziale e l’azione profetica che è mossa da una profonda fede nel Dio della storia, affidandosi alla sua intercessione!
Ed è proprio nei momenti di crisi che è necessario alimentare la speranza e incoraggiare azioni nuove, capaci di sbloccare situazioni incancrenite a causa di politiche ciniche, figlie di interessi di pochi che giocano sulla pelle di centinaia di migliaia di innocenti. Quello di papa Francesco è stato un viaggio a lungo desiderato e preparato, figlio di un sogno che era già di Giovanni Paolo II, interrotto dal diniego di Saddam Hussein, satrapo del momento, ma anche certamente di un’amministrazione americana sufficientemente irritata dalle veementi condanne del pontefice polacco alla sedicente guerra giusta del Golfo.
Il cristiano, ha ribadito Bergoglio in Iraq, è chiamato a testimoniare l’amore di Cristo ovunque, in ogni tempo, e soprattutto nei tempi forse non desiderati da coloro che, pur rendendosi complici della violenza e del degrado di tante aree del mondo, diventano di colpo prudenti, di fronte a chi ha l’ardire di proporre uno spartito nuovo, diverso, sul quale costruire un futuro fondato sulla giustizia e sul diritto dei più indifesi.
Sulle orme di Abramo
«Penitente e pellegrino di fede e di pace in Iraq, invoco da Dio per questo popolo, con l’intercessione della Vergine Maria, la forza di ricostruire insieme il paese nella fraternità». Il messaggio vergato da papa Francesco sul libro d’onore della cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora della salvezza di Baghdad, descrive perfettamente il senso di una missione spirituale. Il pontefice, pur essendo un capo di stato, e ricevuto come tale, non scimmiotta il discorso dei leader politici, ma nel suo parlare da pastore della più numerosa comunità di fede al mondo, annuncia un Vangelo le cui provocazioni sono eminentemente politiche, perché riverberano non solo la prospettiva di un Regno escatologico ma una visione radicalmente nuova di questo mondo, in cui l’umanità è in cammino, pellegrina, verso il Regno.
Nella piana di Ur dei Caldei (6 marzo) non si tiene la messinscena di un irenico incontro interreligioso ma, alla scuola del patriarca Abramo, antenato archetipale della fede monoteista non accaparrabile in esclusiva da nessuna delle tre grandi fedi semitiche, viene lanciato un messaggio teologico fondamentale: l’itinerario di fede non può che essere viaggio senza ritorno, metafora di uno stato permanente di conversione stimolata dall’altro.
In altre parole, Abramo ci obbliga a dire Dio, cioè a fare teologia, in esilio: una condizione che, in una prospettiva di fede, non è più una maledizione, ma un invito implicito al distacco, alla gratuità, alla creazione di un’identità aperta alla relazione. Sì, perché i veri figli di Abramo hanno come bussola il Cielo, sanno elevare lo sguardo consapevoli di non bastare a se stessi.
Ma, sorprendentemente, dice papa Francesco a Ur, «l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello». Il dialogo nel segno dell’ospitalità richiede umiltà: accettare il rischio di combattere il sentimento rassicurante dell’autosufficienza, accogliendo la vulnerabilità e la contingenza dell’essere in cammino, pellegrini in cerca della Verità.
È la consapevolezza che il Mistero non è esauribile in un’unica esperienza religiosa e che il rapporto con esso non è neppure statico, ma esperienza dinamica e in divenire, che implica la trasformazione di se stessi: appunto, uno stato di conversione permanente, stimolato dall’altro e, in ultimo, dall’Altro. Ed è qui che il papa «penitente e pellegrino della fede», come novello Abramo propone quella che è una vera e propria rivoluzione antropologica, figlia di una visione non più economicistica e meramente funzionalistica (che riduce gli altri in funzione dei propri interessi e bisogni) ma mistico-contemplativa, perché rimette al centro il primato e la sacralità di ogni essere umano e in particolare dei più deboli e fragili.
Questo sguardo, che è alla base della costruzione di comunità, ha il nome degli affetti e della responsabilità e si chiama fraternità. In una tale prospettiva, è evidente che per papa Francesco il vero dialogo s’instaura non tra religioni intese come semplici sistemi dottrinali, ma tra credenti in carne e ossa, capaci di rimettere al centro una fede che coincida davvero con una buona notizia per l’umanità e che è, quindi, indissociabile dal riconoscimento di ciò è autenticamente umano denunciando, al tempo stesso, ciò che è disumano!
Solo così la diversità religiosa, culturale ed etnica, che ha sempre caratterizzato la società irachena, è una preziosa risorsa a cui attingere, da cui ripartire, e non un ostacolo da eliminare!
«Dov’è Abele tuo fratello?»
Questa chiave interpretativa teologico-spirituale, diventa per papa Francesco non solo il filo rosso di tutti gli interventi e dei molteplici incontri dei tre giorni intensi di viaggio apostolico nella terra del Tigri e dell’Eufrate, ma anche il criterio ermeneutico per interpretare la tragica storia recente del paese, come di un po’ tutto il Medio Oriente, segnato da conflitti ribollenti, inimicizie settarie (dove la linea di demarcazione non è solo tra religioni, come molti in Occidente vorrebbero far credere, ma interconfessionale: al cuore dell’islam come del cristianesimo).
Il santo padre chiama in causa una strumentalizzazione non solo politica ma anche teologica delle religioni, di coloro che, pur proclamando Dio come misericordioso, lo offendono profanando blasfemamente il suo nome nell’odio del fratello. «Noi credenti non possiamo tacere» con chi «abusa della religione», dice Francesco sempre a Ur e lo ribadisce denunciando come falsificazione idolatrica di Dio le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani.
«Oggi, malgrado tutto, riaffermiamo la nostra convinzione che la fraternità è più forte del fratricidio» scandisce nella tappa di Mosul (7 marzo), ritornando implicitamente a quella domanda posta da Dio a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). Con questo termine, Francesco si dissocia dalla contabilità confessionale delle vittime delle tragedie umane, depotenziando la pericolosa dialettica fratello-nemico, che nella narrativa mediatica sarebbe alla base di quella che nel Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, è definita la «Terza guerra mondiale a pezzi».
Si arricchisce così anche il martirologio della fede. Nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad, ricostruita nella memoria dei 48 fratelli e sorelle in essa massacrati durante l’eucaristia, pagando il prezzo estremo della loro fedeltà al Signore e alla sua Chiesa, papa Francesco allarga il ricordo a tutte le vittime di violenze e persecuzioni, appartenenti a qualsiasi comunità religiosa. Ribadendo che l’incitamento alla guerra, gli atteggiamenti d’odio, la violenza e lo spargimento di sangue sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi; ancora a Ur, il santo padre ribadirà che: «Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli».
Ripartire dalle macerie
A testimoniare della mancanza di alternativa a questo percorso, per altro molto esigente, ci sono le macerie: le tante macerie materiali, epifenomeno di una violenza inaudita all’origine di ferite umane e spirituali inimmaginabili, che hanno fatto da sfondo all’incontro di Mosul, teatro della Preghiera di suffragio per le vittime della guerra, ma anche al passaggio a Qaraqosh, nella cui cattedrale siro-cattolica dell’Immacolata concezione, trasformata dai miliziani dello Stato islamico in un poligono di tiro, il papa ha recitato l’Angelus.
Ricostruire e riconsacrare i luoghi architettonici della fede (fondamentale il progetto UNESCO a Mosul, che unisce moschee e chiese nella ricostruzione) per disarmare i cuori, ricreando le condizioni della fiducia che sta alla base della creazione di società inclusive.
Papa Bergoglio non ha nascosto il suo sgomento per tanta devastazione e l’ha ribadito ai giornalisti durante il viaggio di ritorno: «Io non immaginavo le rovine di Mosul, di Qaraqosh, non immaginavo davvero... Sì, avevo visto le cose, avevo letto il libro, ma questo tocca, è toccante». La percezione estetica si traduce immediatamente, nella riflessione di Francesco, in un imperativo etico: «Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie, giovani e anziani. Il profeta Gioele dice: “I tuoi figli e le tue figlie profetizzeranno, i tuoi vecchi sogneranno e i tuoi giovani avranno visioni” (cf. Gl 3,1). Quando gli anziani e i giovani si incontrano, che cosa succede? Gli anziani sognano, sognano un futuro per i giovani; e i giovani possono raccogliere questi sogni e profetizzare, portarli avanti. Quando gli anziani e i giovani si uniscono, preserviamo e trasmettiamo i doni che Dio dà».
Al-Sistani lo accoglie alla porta
Gli anziani ritornano spesso nel discorso del papa ottantaquattrenne. L’ayatollah Al Sayyed Ali al Husseini al Sistani, di anni ne ha 90 e ormai raramente esce dalla sua modesta casa, che si trova in un vicolo di Najaf a due passi dalla Moschea di Alì, il sito sacro più venerato dagli sciiti di tutto il mondo, probabilmente più amato della Mecca stessa. Fuori dalla porta vi è sempre una lunga fila di persone, in generale semplici e anonime, ma talvolta anche personaggi con ruoli istituzionali o altolocati.
L’ayatollah riceve seduto a gambe incrociate su un tappeto, in una stanza dalle mura disadorne: ascolta, benedice, talvolta sussurra qualche consiglio. Al-Sistani non fa discorsi pubblici ma, se necessario, affida i suoi messaggi ai portavoce, che li diffondono anche tramite Internet. Non ha mai ricevuto un capo di stato in casa sua e, evidentemente, acconsente di incontrare in papa Francesco il leader religioso per il quale nutre molto rispetto, tanto che per lui abbandona il tappeto, lo accoglie e lo congeda in piedi: messaggio che vale più di tanti discorsi.
Al-Sistani è simbolo vivente dell’ala quietista dello sciismo mondiale, contrapposta alla teocrazia politica degli ayatollah imposta in Iran dalla rivoluzione khomeinista del 1979. La scuola di Najaf ritiene ogni potere mondano privo di legittimazione, dal momento che, secondo la credenza religiosa, questa è esclusiva prerogativa del Mahdi, il 12o imam della shia, la guida della comunità di fede ritenuto temporaneamente occultato.
Tornerà, messianicamente, alla fine dei tempi per instaurare il Regno della giustizia. Il problema è: che fare fino a quel giorno? Per Khomeini non era possibile che Dio volesse che i fedeli in attesa fossero governati dai suoi nemici. Nella sua visione, sino al ritorno dell’imam nascosto, sulla base della dottrina del velayat-e-faqih, il governo del giusperito o del dotto (quello che noi chiameremmo governo dei tecnici) è, di fatto, sotto il totale controllo del clero sciita.
La visione di al-Sistani è sempre stata più sfumata, accentuando il carattere meramente funzionale del rapporto dei credenti con la politica e lasciando emergere molto di più le forze laiche all’interno della società, con una particolare attenzione a non svilire le minoranze religiose e culturali non islamiche. Questo non ha impedito, al leader di Najaf (iraniano d’origine, non dimentichiamolo) d’intervenire, da dietro le quinte, in diversi momenti chiave della storia irachena degli ultimi 40 anni.
Nel 2004, riesce a fermare i combattimenti scoppiati proprio a Najaf tra le milizie sciite da una parte ed esercito iracheno e soldati americani dall’altra. Poco più tardi cerca d’impedire le rappresaglie sciite contro la minoranza sunnita irachena dopo gli attentati di al-Qaeda ai mausolei sciiti di Samarra. Nel 2014, con una fatwa, determina la creazione delle Hashd al-Shaabi (unità di mobilitazione popolare), per un jihad contro lo Stato islamico (ISIS), che pochi giorni prima aveva conquistato la città di Mosul. Ne fanno parte 40 gruppi paramilitari prevalentemente sciiti ma anche con una minoranza sunnita e dei cristiani che formano la brigata Babilyun (Babilonia).
Tessitori di futuro
Questo movimento trasversale sarà determinante per la sconfitta del califfato e, soprattutto, contribuirà ad accrescere l’idea di un Iraq capace d’autodeterminarsi senza ingerenze esterne, per costruire un futuro grazie al contributo corale della sua diversità complessa. Al-Sistani da più di un decennio incoraggia l’idea di un’armonia sociale nel rispetto delle minoranze, capace d’integrare perfino l’elemento curdo e difendendo la portata storica del contributo cristiano, il tutto senza ricadere nell’esperimento libanese di una federazione di gruppi che si spartiscono il potere, difendendo più i privilegi della loro parte che un’idea comune del tutto.
Il paese è economicamente a pezzi e il leader sciita non ha esitato a dare ascolto e supporto ai movimenti di piazza, soprattutto giovanili, volti a chiedere riforme sociali, lavoro, trasparenza e provvedimenti anti-corruzione ai vertici del governo.
Questo percorso ricco di consonanze con l’idea della costruzione di una fraternità universale, ha portato papa Francesco a chiedere di poterlo incontrare, per un ascolto reciproco e la condivisione di speranze sul futuro del paese: visioni di futuro, animate dalle loro fedi rispettive.
L’hanno capito molti commentatori, anche in Turchia, come il noto giornalista e analista politico Fehim Taştekin e addirittura in Iran, come Mohammad Ali Abtani, braccio destro dell’ex-presidente Khatami, malgrado il fatto che le agenzie di stampa occidentali (anche quelle confessionali) tendano sempre più facilmente ad amplificare i commenti strumentali di regime, inclini a interpretazioni complottistiche, alimentando la narrativa dualista dei fondamentalismi, che p. Antonio Spadaro ha riassunto efficacemente nell’espressione: «O martiri o apostati».
«La risposta alla guerra non è un’altra guerra, la risposta alle armi non sono altre armi – ripete papa Francesco –; la risposta è la fraternità. Questa è la sfida per l’Iraq, ma non solo» (Catechesi sul viaggio apostolico in Iraq, 10.3.2021). Questo è il motivo che lo porta a cercare una sponda in al-Sistani, senza le agende segrete fantasiosamente ipotizzate dai soliti esperti ben informati (tipo quella di fare uno sgarbo all’Iran degli ayatollah khomeinisti e della scuola teologica di Qom: con la quale, tra l’altro, la diplomazia vaticana è in buoni rapporti), ma nella speranza di coinvolgere l’universo sciita in quel movimento moderato e aperto a un dialogo, inaugurato ormai da alcuni anni con il mondo sunnita, nel lungo e paziente pellegrinaggio che passa dal Cairo e, successivamente, attraverso Abu Dhabi e Rabat.
«È un uomo umile e saggio. A me ha fatto bene all’anima, questo incontro – ha detto Francesco del vecchio ayatollah di Najaf ai giornalisti al seguito – È una luce. E questi saggi sono dappertutto, perché la saggezza di Dio è stata sparsa per tutto il mondo».
Ingenuo? A Najaf, Bergoglio non ha cercato di produrre facili e affrettati documenti d’intesa: ha cercato un volto, un fratello! Al tempo stesso – i detrattori se ne facciano una ragione – papa Francesco e i suoi collaboratori non offrono benedizioni alle idee e alle strategie che da decenni continuano ad attestare i deficit di comprensione o la malafede delle leadership politiche e intellettuali d’Occidente davanti alle convulsioni mediorientali. E in Iraq, molti testimoni anche musulmani, hanno semplicemente detto: il papa con la sua visita ci ha ridato dignità e ci ha incoraggiati a nutrire una speranza per il futuro!
Cristiani d’Oriente protagonisti
«Noi siamo le radici della fede, del cristianesimo e se non ci saranno più cristiani in Medio Oriente, il cristianesimo non avrà più le sue radici. Questo è un problema molto serio, perciò bisogna fare tanto per difendere, proteggere o almeno incoraggiare questi cristiani a rimanere nelle loro terre»: così parla il cardinale Louis Raphaël Sako (Avvenire 4.3.2021, https://bit.ly/3bEEBbC), divenuto patriarca di Babilonia dei caldei nello stesso anno dell’elezione di Francesco al soglio pontificio, e sicuramente il grande ispiratore di questo viaggio e della sua strutturazione.
C’è tanto del suo sguardo sull’Iraq, non solo del cristianesimo nella terra dei due fiumi, negli interventi di Francesco nei tre giorni intensi del viaggio. Da anni il card. Sako parla e lotta per un paese che è arabo, fiero della sua cultura in tutta la diversità delle sue componenti, che ha bisogno di costruire un tessuto umano fraterno, sulle basi di un perdono che sappia curare le ferite del passato, respingendo la catena infinita della vendetta e dei regolamenti di conti.
Un futuro dove anche i cristiani devono assumere le proprie responsabilità politiche e sociali, per creare con tutte le altre forze del paese uno stato civile, basato sulla democrazia e sulla giustizia, e non uno stato settario, ripiegato nella difesa di rivendicazioni particolaristiche. «Viviamo in una famiglia che si chiama Iraq, o Siria o Libano e ognuno si deve sentire a casa, non è uno straniero, un avversario che bisogna evitare o cancellare», ripete quasi come un mantra (ivi).
Sako si è tanto battuto per arginare l’emorragia dei cristiani, in particolare dei pastori del gregge che gli è stato affidato: una lotta dura, perché, accanto a figure straordinarie di dedizione, talvolta pagata fino al martirio cruento, c’è stato anche, com’è assai normale, chi a suo modo di vedere ha disertato una missione che è imperativo del Vangelo!
Raphaël Sako è sempre stato anche il primo ad alzare alta la voce, in Medio Oriente come in Occidente, contro le politiche d’interesse, contro il commercio di armi e in difesa della povera gente, anche durante i periodi più bui di recrudescenza della violenza islamista. Nella spianata di Hosh al-Bieaa, a Mosul, in mezzo alle macerie delle 4 chiese (la siro-cattolica, l’armeno-ortodossa, la siro-ortodossa e la caldea) distrutte, tra il 2014 e il 2017, dalla furia iconoclasta degli uomini del califfato, che non risparmiò neppure delle vestigia musulmane, il patriarca di Babilonia deve sicuramente aver pensato all’importanza di ricostruire relazioni ecumeniche nuove, proprio a partire dalle macerie di una sofferenza comune.
Quando i numeri diventano molto esigui, la difesa a oltranza di tipicità rituali autoreferenziali (nell’oriente cristiano, che non è solamente ortodosso, i cattolici orientali, caldei e siri calcedonesi, che si distinguono dai giacobiti, di fede monofisita, da non confondersi a loro volta con gli assiri o siriaci orientali-nestoriani, conservano tradizioni e riti diversi che pur condividono la stessa lingua liturgica aramaica nonché la lingua culturale araba) rischia di isolare e rendere un residuo museale delle ricche tradizioni, tra l’altro sempre più estranee alle nuove generazioni, nate e cresciute nella diaspora.
Anche in questo, il patriarca vede lontano da molti anni e il suo straordinario lavoro per rendere accessibile la ricca liturgia eucaristica caldea anche ai cattolici d’Occidente, ha permesso la prima volta storica di un papa che presiede una liturgia in rito non latino, nella cattedrale caldea di San Giuseppe a Baghdad.
Sono vere e proprie piccole rivoluzioni, frutto di un lungo cammino e non certo d’improvvisazione, segno di uno Spirito che opera con modalità e percorsi spesso imprevedibili. In Iraq tutto un popolo, non esclusivamente i cristiani, ha avuto questa sensazione. Il card. Louis Raphaël Sako lo ripete: l’avvenire bisogna renderlo possibile: «il papa semina, noi dobbiamo irrigare e Dio benedirà il raccolto» (ivi).
Claudio Monge *
* Domenicano, p. Claudio Monge è direttore del Centro di documentazione e formazione interculturale e religiosa DoSt-İ di Istanbul (Turchia), dove vive da circa 18 anni. È dottore in Teologia fondamentale (specialità «Teologia delle religioni») all’Università di Strasburgo in Francia, dove ha anche conseguito un master in lingua e civiltà turco-ottomane. Professore invitato in diverse università in Europa e in America, nel 2014 è stato nominato da papa Francesco consultore del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso (recentemente confermato per un secondo mandato).