Germania - Chiesa cattolica: il cambiamento che vorrei
Intervista a mons. Georg Bätzing
A causa della crisi delle violenze sessuali, l’esigenza di riforme risuona più forte; ma di recente fra la Conferenza episcopale tedesca e Roma vi sono state notevoli tensioni. Qual è la posizione della Conferenza episcopale? Ne abbiamo parlato con il suo presidente, il vescovo Georg Bätzing.
A causa della crisi delle violenze sessuali, l’esigenza di riforme risuona più forte; ma di recente fra la Conferenza episcopale tedesca e Roma vi sono state notevoli tensioni. Qual è la posizione della Conferenza episcopale? Ne abbiamo parlato con il suo presidente, il vescovo Georg Bätzing.
– Monsignore, da un anno lei è presidente della Conferenza episcopale tedesca, ma personalmente rimane ancora poco noto. Una volta ha detto che la casa dei suoi genitori era cattolica fino al midollo. Che cosa significa?
«Significa che era naturalmente cattolica, nel contesto di Chiesa di popolo allora vigente. A Niederfischbach, il paese in cui sono nato, la maggior parte delle persone era cattolica. Nelle famiglie dei miei genitori c’erano religiosi e preti. La partecipazione alla celebrazione eucaristica la domenica e i giorni festivi non era un dovere, ma semplicemente una cosa normale. Mio padre era un impiegato delle ferrovie tedesche, ma anche un compositore come seconda attività, per cui si è realizzato nella musica».
– La sua famiglia era cattolica in senso rigido?
«No, non era né bigotta né rigida, era normale. Anche se la celebrazione domenicale giocava un ruolo importante e in casa si pregava, la Chiesa non era al centro. Ognuno di noi poteva pensare e agire come riteneva più giusto».
– C’erano discussioni con i genitori?
«Sulle posizioni ecclesiali no. Ma nella casa dei miei c’era sempre anche un tratto critico: non aderire a opinioni senza interrogarsi, non intraprendere strade senza esaminarle. A questo riguardo i miei genitori hanno criticato, ma anche sostenuto, il desiderio che manifestai molto presto di farmi prete. Volevo frequentare il ginnasio, perché già allora volevo diventare parroco. I miei genitori hanno sempre detto: fallo, ma sappi che non possiamo esserti di molto aiuto in questo».
– Com’è giunto a questo desiderio di diventare parroco?
«Il fascino della messa è all’origine della mia vocazione. Non so quando l’ho percepito in modo consapevole per la prima volta, ma è stato molto, molto presto. Che volessi diventare prete lo sapevo già al primo anno di scuola. Quando a volte, in occasione delle cresime, mi viene chiesto se ho mai desiderato di esercitare un’altra professione, devo sempre dire: a essere sincero, effettivamente no».
– Quali sono le differenze decisive tra quei tempi e oggi?
«Il mondo è completamente cambiato. Io sono cresciuto in un clima positivo di vita ecclesiale, ho sempre sperimentato la Chiesa come una realtà che liberava la persona: nell’impegno come chierichetto, con i gruppi giovanili, nella musica, nelle molteplici possibilità d’impegnarsi e svilupparsi, in un ambiente ampio nel quale poter crescere, essere accolto e mettersi alla prova, sostenuti da un’atmosfera positiva».
– Quali cambiamenti della Chiesa dalla sua infanzia e adolescenza sono stati particolarmente positivi e continuano a essere importanti?
«È positivo che sia finita l’epoca di una Chiesa sostenuta dal suo milieu. Molto presto, fin dall’inizio degli studi, poi negli anni successivi e anche come padre spirituale in diversi incarichi che ho svolto, ho colto anche l’altra faccia di quella forma di Chiesa di popolo: la pressione che veniva esercitata, la mancanza di libertà che dominava, l’indecisione allora possibile nelle questioni di fede. Il quadro nel quale noi ora viviamo è chiaramente molto più adatto alla fede cristiana. Non vorrei in alcun modo tornare indietro».
Volevo essere un pastore
– Ma lei voleva diventare parroco e non lo è mai diventato…
«Dalle mie parti peraltro si dice pastore. Effettivamente io volevo diventare pastore e non lo sono mai diventato. Ho trascorso vent’anni nella formazione dei preti, poi ho accompagnato pellegrinaggi e infine sono stato nominato vicario generale. Oggi come vescovo ho nuovamente più possibilità d’incontrare persone, quindi mi sono riavvicinato al desiderio originario della mia vocazione».
– Ma c’è anche qualcosa di drammatico: non è diventato ciò che voleva.
«È così. Si potrebbe dire che in parte è anche colpa mia, perché non ho mai scelto qualcosa di mia iniziativa ma sono stato sempre mandato, o perlomeno mi è stato chiesto di andare in certi posti. Non ho mai saputo dire di no».
– Quando si è reso conto dell’esistenza di violenze nella Chiesa cattolica?
«In realtà molto presto, perché nel mio paese natale ai tempi dei miei fratelli vi furono violenze da parte di un prete. Personalmente non ne sono stato coinvolto, perché ai miei tempi quel parroco non era più in parrocchia».
– Presto significa quindi da gio-
vane?
«Sì, da giovane. E accadde esattamente come vediamo ancora oggi. Le cose erano celate, ma in qualche modo si sapeva. Nessuno ne parlava, ma il tema esisteva».
– I fratelli di cui parlava furono personalmente coinvolti?
«Grazie a Dio no».
– Come andò? Si sapeva, ma non se ne parlava…
«Il parroco venne allontanato fulmineamente e non gli venne mai più dato quell’incarico. La gestione della parrocchia fu affidata al cappellano. Più tardi, nel 1970, venne nominato un nuovo parroco, che rimase per 37 anni, fino alla morte. Fu la sua prima e ultima parrocchia. Questo parroco ha esercitato una grande influenza sulla mia formazione, ma non ha mai affrontato questo tema e neppure lo avrebbe mai fatto in pubblico».
– Quando si è imbattuto di nuovo in questo tema?
«Imparai in seminario che la violenza era un tema che non riguardava solo un luogo o singole persone, ma tutta la diocesi. Naturalmente lì ero più vicino a certe situazioni. Una volta venni pregato di presiedere una celebrazione del Mercoledì delle ceneri, perché proprio in quel giorno si teneva in tribunale il processo per violenze contro il parroco di quella parrocchia. Era l’inizio degli anni Novanta, e la cosa mi colpì profondamente».
– Nel tempo in cui è stato rettore del seminario e vicario generale ha fatto anche degli errori nella gestione delle violenze?
«(Pausa) No. Almeno che io sappia. All’epoca in cui ero vicario generale gli standard erano già delineati molto chiaramente. Il vescovo Stephan Ackermann ha preso molto sul serio il tema, e il vicario giudiziale si è attenuto rigorosamente al diritto. Per tutti noi era molto importante osservare gli standard che avevamo. Come rettore, considerando la formazione dei preti devo dire che, come ha constatato lo Studio-MHG,1 il numero di preti veramente pedofili è molto basso. Io non ne ho incontrato nessuno nell’ambito della formazione dei sacerdoti.
Ma naturalmente la questione dell’immaturità sessuale o anche umana era un tema spesso trattato al tempo del seminario, spesso anche nei dialoghi con i seminaristi. Non di rado tale questione è stata anche alla base della decisione di non ammettere un seminarista all’ordinazione sacerdotale. E tuttavia nella diocesi di Treviri vi sono state violenze anche da parte di preti che erano stati nostri seminaristi, e riguardo ai quali naturalmente con il senno di poi mi sono chiesto se non avessimo commesso degli errori. Ma non riesco a vederli, perché all’epoca le violenze non si erano mai manifestate».
Le violenze, un punto di non ritorno
– Al più tardi nel 2002, tutti sarebbero venuti a conoscenza della drammaticità del tema. Come è cambiata la sua posizione nel corso del tempo?
«Già all’inizio degli anni Novanta il tema venne alla luce. Prima di allora vigeva, come ci viene giustamente contestato nei casi aperti, la strategia di allontanare i colpevoli di violenze. Quindi l’attenzione era concentrata su di loro. Non si sono praticamente mai considerate le vittime, non ci si è fatti carico delle loro ferite e dato risposta ai loro bisogni. Questo è cambiato, e ha cambiato anche me. Mi è divenuto chiaro che si tratta di reati, e per questo esiste un diritto penale sia civile sia ecclesiale».
– Oggi sperimentiamo come si giudica il comportamento delle passate generazioni di vescovi, da ultimo a Colonia, Aachen e Münster. Ritiene ingiusto il modo in cui si trattano le generazioni precedenti?
«Non si tratta di giudizi, ma di un’elaborazione che rappresenta la realtà. È quanto dobbiamo pretendere da noi stessi e da coloro che ci hanno preceduti nel ministero. Se la realtà è tale da dover dire oggettivamente: qui ci si è comportati in modo sbagliato, qui si è insabbiato, qui si è tenuto conto solo della prospettiva del colpevole e di come gestire al meglio gli abusi compiuti, ebbene allora questo approccio era deficitario anche nelle epoche precedenti. Ora lo si chiama per nome, senza che in ogni caso sia già un giudizio. Lo dobbiamo, non da ultimo, alle vittime che devono vivere con ciò che hanno subito, anche se i responsabili sono morti già da molto tempo».
– Quindi se è provato che qualcuno dopo il 2002 nell’ambito della sua responsabilità di governo non ha rispettato le Linee guida deve dimettersi?
«Deve in ogni caso trarre le conseguenze del suo comportamento. Ora sono quasi 20 anni che abbiamo le Linee guida. Se uno oggi è in carica e gli viene dimostrato che non ha agito in modo conforme alle Linee guida, deve spiegarsi al riguardo e trarne le conseguenze».
– Quindi dimissioni?
«Possono essere anche dimis-
sioni».
– Molto spesso si scarica la responsabilità su qualcun altro, oppure nessuno viene ritenuto personalmente responsabile. Dove stanno allora esattamente le responsabilità: nel vescovo, nel vicario generale, nel responsabile del personale?
«Nel caso della diocesi di Limburg è risultato che le responsabilità sono state rimpallate di qua e di là. Il vescovo non ha saputo nulla della cosa, perché il responsabile del personale avrebbe agito autonomamente. L’attribuzione non chiara della responsabilità è qualcosa che dobbiamo cambiare. Deve essere chiaro chi è responsabile di che cosa. Perciò abbiamo bisogno di un’elaborazione indipendente, in modo da poter imparare da essa a stabilire chiare strutture di responsabilità e processi corrispondenti. Naturalmente alla fine il responsabile di ciò che avviene nella sua diocesi è il vescovo».
Sono un buon conservatore
– Oggi lei viene percepito come un riformatore. Nella sua vita esiste per lei un punto di svolta, dal quale non si può più tornare indietro, ma al contrario si deve avanzare con maggior decisone?
«In questo senso un punto di svolta non c’è mai stato. Personalmente mi descriverei come un buon conservatore, perché amo questa Chiesa e dono volentieri per essa la mia vita e le mie energie. Ma voglio che cambi».
– Se ora dovesse discutere con il Georg Bätzing del giorno della sua ordinazione, litigherebbe sull’ordinazione sacerdotale delle donne?
«No. Georg Bätzing ne discuteva già allora. Nel 1984 come presidente del Comitato studentesco dell’università partecipai all’organizzazione di un seminario indipendente, come allora si chiamavano, sul ministero nella Chiesa. A quel tempo avevamo anche un legame d’amicizia stretto con gli studenti che ambivano ad altre vocazioni pastorali. Erano gli anni del blocco delle assunzioni dei referenti pastorali. Questo mi spingeva personalmente a solidarizzare profondamente con quegli studenti, e lo faccio ancora. Ci si chiedeva: gli uni vengono corteggiati, desiderati e voluti nel ministero sacerdotale, gli altri vengono bloccati. Io lo percepivo come un’ingiustizia».
– E il ministero sacerdotale per le donne?
«Allora come oggi mi preme considerare lealmente gli argomenti della Chiesa sul perché il ministero sacramentale spetti solo agli uomini. Ma devo anche dire onestamente che questi argomenti sono sempre meno convincenti, e che nella teologia vi sono argomenti ben più sviscerati a favore dell’apertura del ministero sacramentale anche alle donne. Per questo cito spesso il diaconato delle donne, perché ci vedo uno spazio d’azione.
Riguardo al ministero del presbitero i papi a partire da Giovani Paolo II hanno affermato all’unisono che alla questione si è già risposto; e ciononostante è sul tavolo».
– Vi è una certa frustrazione nella Chiesa: da una parte a causa della contrapposizione, e dall’altra per quella che molti avvertono come una paralisi rispetto ai cambiamenti. Come pensa di affrontare la situazione?
«Le contrapposizioni stanno aumentando nella Chiesa, ma anche nella società; questo è molto pericoloso. Io però non percepisco nel Cammino sinodale un aumento della frustrazione. Esistono moltissimi stimoli importanti. Siamo in una finestra temporale in cui possiamo veramente cambiare qualcosa, ne sono convinto. Dobbiamo usarla».
– Sul tema della mancanza di preti, concretamente: non ultimo per via delle condizioni d’ammissione, per esempio l’obbligo del celibato, la situazione è drammatica; in alcune diocesi non c’è più alcun candidato. Poiché, d’altra parte, la struttura sacramentale della Chiesa richiede sacerdoti, la tensione cresce sempre di più…
«Sono molto convinto che anche nel nostro tempo esistono vocazioni al sacerdozio. Ma queste vocazioni vengono esasperate e rese incerte dalla situazione esistente nella Chiesa. I conservatori dicono a volte che se c’è esasperazione è perché i progressisti vogliono cambiare tutto. Ma se perdiamo il collegamento con la società, se come Chiesa ci “esculturiamo” ancora di più, noi blocchiamo le vocazioni. Questo è un dramma. A quanta sostanza rinunciamo, che potremmo avere come forza per l’evangelizzazione, perché restiamo aggrappati alle attuali condizioni d’ammissione? Questa domanda è da molto tempo in sospeso».
L’ecumenismo non è cosa da bar
– Come vanno le cose riguardo al tema dell’ecumenismo? Nel 2003 il teologo Gotthold Hasenhüttl di Trier, dopo una celebrazione eucaristica ecumenica al primo Kirchentag ecumenico a Berlino, subì un’azione disciplinare. Ora lei con il Gruppo di lavoro ecumenico si è impegnato per attuare l’ospitalità eucaristica al prossimo Kirchentag ecumenico a Frankfurt. Una contraddizione?
«No, assolutamente. Allora era una situazione del tutto diversa. Hasenhüttl aveva intrapreso una celebrazione con ministri di confessioni diverse, e in questo caso al vescovo di Trier non restava altro da fare. Allora io come membro del Consiglio presbiterale ho condiviso la procedura disciplinare, con tutte le reazioni che ha suscitato. Questo spingersi oltre di un singolo è sempre dannoso. Ma questo non è il caso del documento del Gruppo di lavoro ecumenico di teologi evangelici e cattolici in Germania (cf. Regno-doc. 11,2020,358ss).
Esso è un saggio passo avanti, che viene presentato con buone argomentazioni. Lì non si parla di celebrazione comune della Cena, non si parla di inter-celebrazione, non si parla di generale intercomunione. Si tratta semplicemente di chiedersi se persone che vanno alla Cena come cattoliche o all’eucaristia come protestanti abbiano buone ragioni per farlo; infatti la prassi esiste già da molto tempo».
– Ciononostante ora vi sono anche critiche a quel documento. Come si possono disinnescare?
«È bene che vi siano delle critiche. Il Gruppo di lavoro ecumenico non si aspettava che il suo testo venisse accolto senza critiche. Oltretutto ha legato il suo lavoro a una votazione e l’ha resa pubblica: questo è del tutto insolito. Bisogna prendere in considerazione le critiche e rispondervi per quanto è possibile, ed è quello che sta avvenendo.
Come conferenza episcopale risponderemo alle richieste della Congregazione per la dottrina della fede e introdurremo la critica nella nostra valutazione del documento del Gruppo di lavoro ecumenico. Ugualmente anche il Gruppo di lavoro ecumenico si confronterà con le contro-argomentazioni e darà una sua risposta. La Congregazione per la dottrina della fede ha il diritto di avanzare le sue critiche. La mia critica alle sue critiche è su un altro piano».
– E cioè?
«Anzitutto ha suscitato irritazione il fatto che la lettera del prefetto con le osservazioni del magistero sia arrivata pochi giorni prima dell’apertura dell’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale tedesca. La valutazione era stata effettuata dal card. Marc Ouellet già il 20 maggio. Alla fine di giugno poi mi trovavo a Roma per la visita inaugurale del mio incarico e ho parlato con tre cardinali coinvolti. Nessuno di loro ha accennato al fatto che fosse in corso una valutazione del documento, o che volessero confrontarsi con me al riguardo.
In secondo luogo la reazione critica della Congregazione apprezza ben poco lo sforzo ecumenico che c’è dietro le considerazioni del Gruppo di lavoro ecumenico. Non si tratta di una chiacchierata ecumenica da bar, ma del lavoro di un gruppo di esperti che sono anche personalmente appassionatamente ecumenici. Ha qualcosa di cinico dire loro semplicemente: no, così non va, lavorateci ancora».
Aspettare in eterno?
– Poco prima di questa discussione c’è stato il conflitto con il card. Beniamino Stella sull’istruzione della Congregazione per il clero sulla conversione della pastorale. Qual è la strategia della conferenza episcopale per superare l’antagonismo fra la Chiesa in Germania e il Vaticano?
«In giugno mi sono reso conto che ci sono delle riserve verso noi tedeschi e il modo in cui affrontiamo le cose. E questo riguarda anche il Cammino sinodale. Io cerco di comprenderlo e intuisco che a Roma si avverte una forte pressione su come poter mantenere unita la Chiesa universale in presenza di caratteristiche culturali così diverse. Al riguardo da parte cattolica non abbiamo ancora risposte valide.
Ma la risposta non può essere: aspettiamo fino alla fine; prima di allora nessuno può spingersi in avanti, nessuno può porre domande e cercare risposte, che siano adatte per il suo contesto culturale ed evitare così che il fossato fra il Vangelo e la rispettiva cultura diventi sempre più grande. Questo è il nostro problema. Le risposte devono essere più decentrate, devono permettere spazi di manovra. Noi possiamo procedere molto di più con l’inculturazione, là dove essa non tocca il depositum fidei».
– Problemi di comprensione esistono fino al vertice. Come ha percepito le ultime affermazioni del papa, in cui si è espresso generalmente con molto scetticismo sui «cammini sinodali»?
«Non dovremmo soffermarci su ogni affermazione pronunciata in ogni singola udienza. Vi sono chiare comunicazioni alle quali ci atteniamo. Il santo padre all’inizio del Cammino sinodale ci ha scritto una lettera (cf. Regno-doc. 15,2019,479), in cui ci incoraggia ad affrontare le questioni attuali. Infatti non siamo noi ad averle scelte, ma sono il risultato delle ampie ricerche sulle cause sistemiche degli abusi. E sono questioni che sono da decenni sul tavolo, e alle quali non si è data risposta. Il papa ci ha detto che si tratta dell’evangelizzazione, ma per questo noi dobbiamo sciogliere i blocchi che ostacolano l’evangelizzazione».
– Ma nella lettera il papa ha detto anche molto altro…
«Certamente, e io sento queste parole come un rafforzamento. Ha detto: guardate oltre la punta del naso della Chiesa tedesca. Il sensus Ecclesiae è qualcosa di molto importante, e io non conosco nessuno nel Cammino sinodale per il quale questo non sia importante. Inoltre Francesco dice che noi dobbiamo percorrere un cammino spirituale. Anche questo per me è molto importante, e sperimento che è quanto stiamo facendo.
Non sono d’accordo invece con le demarcazioni, quando per esempio il cammino spirituale viene distinto da quello democratico. L’uno non deve escludere l’altro. Non c’è stato concilio nel quale non si sia lottato, litigato e votato. Se è questo che si designa come democrazia, ne voglio di più nella Chiesa cattolica. Spirituale significa anche voler comprendere, e non escludere, le opinioni dell’altro».
– Il papa parla per esempio dei viri probati, affermando che questo cammino spirituale non è stato ancora sufficientemente percorso. Che cosa intende?
«Egli parla spesso di questo motivo gesuitico del discernimento degli spiriti, di cui ci sarebbe maggiormente bisogno. Tuttavia anche su questo ho una domanda. Quale istanza decide se questo processo è maturo o no? A un certo punto bisogna decidere».
– Questa istanza è alla fine il papa?
«Non in tutte le questioni è il papa. Al papa compete prendere decisioni da solo unicamente in questioni di fede chiaramente definite. I vescovi e il collegio episcopale sono una parte del governo della Chiesa universale – cum Petro et sub Petro».
– Questa è anche l’ipoteca del Cammino sinodale. Anche in questo processo occorrono decisioni perché non finisca ancora solo come un processo di dialogo…
«Il Cammino sinodale ha nello statuto il concetto di assunzione di decisioni. Questo è l’obiettivo, e ci sono tre livelli. Anzitutto vi sono temi che possono essere cambiati in Germania consensualmente. In secondo luogo vi sono punti che sono possibili attraverso cambiamenti del diritto canonico, ma che non riguardano ancora il livello della Chiesa universale. In terzo luogo sono in ballo grandi questioni, come per esempio l’apertura dei ministeri sacramentali alle donne, alle quali noi non possiamo dare una risposta localmente, ma lo possiamo fare solo a livello della Chiesa universale».
Ci sono cose da decidere in Germania…
– Lei si aspetta dal Cammino sinodale una decisione sulla possibilità per le donne di tenere l’omelia nella celebrazione eucaristica?
«L’attuale situazione giuridica nella Chiesa prevede che la proclamazione e la presidenza della celebrazione eucaristica restino nella stessa persona. La mia opinione personale è che al riguardo dovrebbe esservi un maggiore spazio di manovra rispetto a quello che abbiamo attualmente. Il mio desiderio è che più donne e in generale più laici partecipino alla proclamazione nella celebrazione eucaristica, perché la testimonianza di tutti i cristiani è arricchente, anche per noi preti».
– Quella di benedire le coppie omosessuali è una decisione che si potrebbe prendere indipendentemente da Roma?
«Nella mia diocesi ho avviato un processo per sondare questa ipotesi. Per me la domanda è più ampia: come ci comportiamo in generale con coppie che non possono sposarsi in Chiesa, ma chiedono la benedizione di Dio? Questa è una realtà ecclesiale; per questo abbiamo bisogno di soluzioni che non valgano solo nel privato, ma abbiano anche una visibilità pubblica, e insieme mostrino anche chiaramente che in questi casi non si sta celebrando un matrimonio».
– Questo è possibile senza Roma?
«Credo che qui dobbiamo trovare forme che sono possibili nella liturgia senza un’approvazione romana. In ogni caso posso dire per me stesso che, dopo intensa discussione, penso che dovremmo cambiare il Catechismo in questo senso».
– Quindi non c’è bisogno di un altro concilio?
«Nel Cammino sinodale toccheremo anche questioni così fondamentali che a livello della Chiesa universale vengono affrontate normalmente attraverso un concilio. Attendo con interesse la celebrazione del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. Lì una buona volta si potrà porre anche la questione di quando si può avere la prospettiva di un concilio».
– Si è affermato spesso che la crisi del COVID-19 rafforzerebbe la tendenza alla secolarizzazione. Come cercherà la Conferenza episcopale di contrastarla? Come si può sviluppare una nuova dinamica?
«Nessuno si pone contro una macro-tendenza come quella della secolarizzazione del mondo occidentale. Nonostante tutta la buona volontà e tutti gli sforzi noi non fermeremo la tendenza al rarefarsi del collegamento fra la Chiesa e la nostra società e al chiaro avanzare della secolarità. Noi possiamo solo testimoniare meglio quello che è il nostro compito: annunciare con maggior forza il Vangelo con la nostra testimonianza».
Cristiani meno istituzionali
– Esistono percezioni molto diverse: l’intellettuale francese Michel Houellebecq confessa una nuova curiosità verso ciò che è cattolico. Il sociologo tedesco Heinz Bude chiede alla Chiesa d’inserire meglio il suo annuncio di salvezza nella società. Nella Chiesa viceversa si sentono risuonare molti lamenti. Manca un clima di propositività?
«Sì, lei mi chiedeva della crisi e io ho risposto sulla crisi. E sarebbe fatale negarla, nonostante tutti gli altri segnali. Ora c’è questa grande trasformazione dalla Chiesa di popolo sorretta dal milieu verso una Chiesa della decisione. E io desidero proprio questa Chiesa nella quale stiamo crescendo. Ancora una volta: non può e non deve esservi alcun ritorno indietro. Questo è anche un insegnamento della crisi degli abusi: un’istituzione di Chiesa di popolo ha prestato troppa attenzione a se stessa e troppo poca alle vittime.
Noi riconquisteremo la nostra credibilità – anche per ripartire – solo se pensiamo il nostro essere cristiani in modo meno istituzionale. Questo presuppone come ammissione fondamentale che la secolarità non è il nostro avversario. La società secolare è il nostro campo di gioco per invitare le persone a un legame con Dio e con la religione; e non è un terreno ostile».
– Immagini che noi veniamo da un altro pianeta, e ora lei ci volesse presentare la Chiesa cattolica in Germania. Dove ci porterebbe?
«Come prima cosa vi porterei in un ospizio. Lì è evidente il nostro limite, la finitezza della nostra vita, e appunto il fatto che la morte appartiene alla vita, e come si può morire bene. Questa per me è una parte importante della Chiesa. Poi andrei insieme a voi a una Giornata mondiale della gioventù. Questa è stata una geniale scoperta di Giovanni Paolo II. Le persone non vengono più automaticamente socializzate in senso cattolico in una famiglia, questo compito è nostro. Offrire avvenimenti ed esperienze avvincenti che permettano di imparare a conoscere il cattolicesimo».
– Vorrebbe un evento così in Germania?
«Sono trascorsi 15 anni dalla Giornata mondiale della gioventù in Germania. Vorrei impegnarmi personalmente per ospitare di nuovo una Giornata mondiale della gioventù. Inoltre sarei molto felice se presto papa Francesco ci facesse visita».
a cura di
Stefan Orth, Volker Resing*
* L’intervista, che pubblichiamo in una nostra traduzione dal tedesco, è uscita su Herder Korrespondenz 75(2021) 1, 16-20. Ringraziamo l’editore per il permesso di pubblicazione.
1 Lo studio Violenza sessuale su minori da parte di sacerdoti cattolici, diaconi e religiosi maschi appartenenti agli ordini religiosi nell’area della Conferenza episcopale tedesca (Studio MHG; bit.ly/37YXvFk, in italiano) è stato commissionato dai vescovi tedeschi nel 2014 agli istituti di ricerca di Mannheim, Heidelberg e Gießen, ed è stato pubblicato nel 2018 (ndr).