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Attualità
Attualità, 8/2020, 15/04/2020, pag. 200

Liturgia - COVID-19: diversamente Chiesa

Come essere assemblea celebrante in tempo di pandemia

Andrea Grillo

Se la Chiesa non può radunarsi, è inevitabile che entri in crisi. Uno dei modi storici per lottare contro le Chiese è stato quello di impedirne l’atto elementare, che sta scritto a chiare lettere nel loro nome. Ecclesia è assemblea, essere convocati, chiamati, radunati. Senza raduno non c’è Chiesa. Chi impedisce il raduno è nemico. Questo immaginario è scattato in molti cuori, non solo in quelli cupamente reazionari. Ma se il raduno è vietato non per far male alla Chiesa, ma per il bene comune dei cittadini, allora le cose cambiano e le pratiche si complicano.

 

Se la Chiesa non può radunarsi, è inevitabile che entri in crisi. Uno dei modi storici per lottare contro le Chiese è stato quello di impedirne l’atto elementare, che sta scritto a chiare lettere nel loro nome. Ecclesia è assemblea, essere convocati, chiamati, radunati. Senza raduno non c’è Chiesa. Chi impedisce il raduno è nemico. Questo immaginario è scattato in molti cuori, non solo in quelli cupamente reazionari. Ma se il raduno è vietato non per far male alla Chiesa, ma per il bene comune dei cittadini, allora le cose cambiano e le pratiche si complicano.

Il raduno è un bene e il suo divieto è un bene maggiore cui sacrificare l’assemblea. Tra i due beni non sono possibili spazi di mediazione. Questo apre un ventaglio di questioni e opportunità che sono effettivamente nuove e come tali devono essere affrontate, sapendo che i precedenti sono pochi, o troppo dissimili o troppo poco rilevanti. Proviamo allora a farne una rassegna.

Se i corpi restano a casa, almeno gli occhi, le orecchie, le menti  e i cuori provano a uscire, cercano d’incontrarsi, non tardano a connettersi. Attraverso gli schermi dei PC, dei tablet, degli smartphones o dei televisori abbiamo provato a sopperire. E questa via ha trovato facile riconoscimento, anzitutto ufficiale, ma anche particolare, personale, pastorale. Moltissime parrocchie hanno attivato dirette streaming, altre si sono appoggiate a TV locali. Questo, però, è un canale che facilmente spettacolarizza il rito.

Non «fai Pasqua», ma guardi un altro che, poco più che solo, fa Pasqua. Questo non solo è triste, ma va contro l’idea, profetica, che il popolo di Dio non sia «muto spettatore», tanto più se accomodato sul divano di casa. Non tutto, però, è stato condotto in questo modo. Abbiamo visto il bambino che segue la messa a casa, ma vestito da chierichetto. Abbiamo sentito di forme di partecipazione più intensa, più attiva e interattiva. Abbiamo anche trovato la forza di «fare comunione» non visuale, ma corporea e pratica.

L’incontro con il Signore, se non può essere garantito dal raduno di popolo, può esserlo nella forma domestica, casalinga, economica della Chiesa. Così persino il Triduo pasquale, cuore pulsante dell’assemblea ecclesiale, ha preso forma a casa, con una creatività, una pertinenza e un’intensità che forse nessuno si sarebbe atteso.

Il fatto da accettare e la spiegazione da offrire

Un secondo punto, più delicato, è parso, finora, il complesso percorso di giustificazione della rinuncia al raduno e di una teologia capace di elaborarlo in modo significativo. Entrambi questi passaggi non sono stati indolori.

Da un lato, infatti, almeno all’inizio dell’epidemia, era corsa nel corpo della Chiesa la percezione che chiudere, rinunciare sarebbe stato tradire la Tradizione, la missione, la testimonianza, la carità... ma non appena il fenomeno ha assunto tutta la sua tragicità di sofferenza e di morte, a esitare sono rimasti soltanto o i fedelissimi senza cuore, o i comunicatori con cuore da sciacalli.

La questione, però, non si è risolta, si è solo spostata. Così, acquisita la condizione di chiusura, si è entrati nel tunnel oscuro delle giustificazioni. E qui, ahimè, si è vista molto chiaramente una scissione drammatica tra l’iniziativa lodevole di diversi ministri e fedeli e la lettura fredda, burocratica, distante, puramente normativa di una parte non irrilevante del corpo episcopale.

Se, di fronte alla dura necessità di rinunciare al raduno, scatta immediatamente, quasi come un riflesso condizionato, la lettura eucaristica centrata sul prete, che quindi, anche da solo, costituirebbe «soggetto sufficiente» alla celebrazione, tutto questo sembra un messaggio assai dissonante rispetto alla sensibilità maturata dopo il Vaticano II.

È parso che la ragione teologica dell’emergenza venisse improvvisata con gli scampoli mal composti di una teologia vecchia e senza cuore. Questo va poi sommato a circolari e decreti, emessi a livello universale o particolare, nei quali, quasi fossimo in una Chiesa-nave sorpresa da una grave tempesta che ne alterasse gravemente l’assetto di galleggiamento, tutte le istruzioni fossero dedicate all’equipaggio, mentre i passeggeri  risultassero come lasciati a loro stessi o rimandati al divano con vista TV.

Solo il prete, prete solo

Un aspetto che non è stato facile mettere a fuoco è la correlazione complessa tra l’imporsi dello «stato di eccezione civile», con il distanziamento, il contenimento e il divieto d’assembramento, e lo «stato d’eccezione liturgica», che causa, ormai da 13 anni, nella Chiesa, l’accettazione di un distanziamento, di un raduno parallelo che  minaccia la qualità della vita ecclesiale.

Per certi versi i due stati di eccezione si sostengono, per altri versi si oppongono.  Da un lato, infatti, si discute sull’«eccezione liturgica», ossia su un regime strano e poco trasparente, con cui la Chiesa, per rispondere a una contingenza di 13 anni fa, ha imboccato una strada da cui non riesce più ad uscire. Ma vi è, accanto a questo, la pressione di un momento del tutto eccezionale, in cui siamo costretti dal presidio sanitario a rinunciare a molte pratiche consolidate e a inventarne di nuove.

Se consideriamo che nel pieno della pandemia la Congregazione per la dottrina della fede ha presentato due decreti (Quo magis e Cum sanctissima) con cui modifica l’Ordo missae del 1962, per scongiurare lo scandalo occorre precisare che:

– la legittimità di un atto non implica la sua opportunità o giustizia;

– la trama istituzionale della Chiesa diventa opaca quando afferma prima di tutto la ripetizione inerziale di se stessa;

– le trasformazioni di una procedura devono essere controllate e verificate con molta attenzione.

Così, se una procedura, che era stata pensata per un commissione speciale – com’era Ecclesia Dei – e che ora viene svolta da una sezione della Congregazione per la dottrina della fede, si occupa di «riformare il rito del 1962», l’effetto ecclesiale di questo atto appare mutato di segno. E la Congregazione, quasi automaticamente e senza colpo ferire, diventa il luogo di un dissidio tra forme concorrenziali dello stesso rito romano. Questo è un segnale estremamente negativo per la comunione ecclesiale.

Un sistema eccezionale voluto da papa Benedetto in vista e nella speranza di una riconciliazione, genera invece continuamente divisione, separazione, per non dire sedizione. Giustificare tutto ciò dicendo che «la legge lo consente» non è una soluzione, ma anzi trascina anche la legge nello scandalo che doveva essere evitato.

La differenza tra la legge del 2007 (Summorum pontificum) e il disegno del concilio Vaticano II ci permette di dire che «lo stato di eccezione è finito». Possiamo tornare alla logica conciliare. Perciò il contenimento civile fa esplodere due logiche opposte e antitetiche. Corrobora una Chiesa di soli preti (e di preti soli) e rilancia l’iniziativa dei fedeli non chierici e non maschi. In particolare ne emerge, allo stesso tempo:

– il tentativo d’avvalorare una Chiesa d’emergenza di soli preti celebranti, che  attinge a lessici e a canoni primo-moderni e preconciliari;

– il tentativo di giustificare il ruolo dell’assemblea, di una ministerialità allargata e del ruolo femminile, che implica la ripresa di discorsi forti e decisivi su questi temi.

Tutto ciò impone una de-clericalizzazione radicale e urgente, che possa dire tre cose decisive, anche se niente affatto nuove.

1. L’assemblea celebrante è il corpo di Cristo risorto (e quindi non può in alcun modo essere pensata o resa accessoria);

2. l’assemblea ha bisogno di più ministeri, non del solo presbitero;

3. le donne possono esercitare funzioni d’autorità, perché possono e debbono essere riconosciute titolari di un ministero in senso forte e pieno. Nelle donne è implicato e si esprime l’annuncio apostolico, dal quale dipende la stessa tradizione ecclesiale nella sua piena verità.

Talora, l’arroganza

Questo passaggio è difficile ed è anche teologicamente assai esigente. Potrà mettere definitivamente in soffitta i discorsini clericali che s’accontentano di citare frasi di uomini geniali, vissuti però in tutt’altro tempo, e che scambiano gli assetti istituzionali nei quali si trovano senza averli scelti col Vangelo, come se fossero di diritto divino.

Sono i trucchi tipici di una Chiesa che non c’è più e che appare bene solo a porte chiuse. Perché c’è una Chiesa che è sempre stata a porte chiuse anche quando le porte erano aperte, che è rimasta bloccata in ruoli vecchi, che ha parole e forme vecchie. E proprio ora si vede meglio, perché realizza pienamente se stessa, grazie alla epidemia. E ha l’ingenuità semplice e talora un’arroganza senza pudore nel dirlo apertamente.

Ma non c’è solo questo. C’è anche, e ben viva, una Chiesa che ha bisogno urgentissimo di rilanciare i grandi discorsi, che la ufficialità ecclesiale ha avuto la forza di fare apertamente e solennemente solo sessant’anni fa e che oggi sembra tanto confusa quando deve ripeterli in modo credibile. C’è però chi lo sa fare. E si trova proprio in quel vertice della piramide che è rovesciata.

Proprio per questa condizione rovesciata, ben prima della pandemia di oggi che desertifica il mondo, anche quando usciva ancora in una piazza S. Pietro aperta, in mezzo alla folla festante, Francesco era già apparso tremendamente solo, per il fatto di vivere lui a porte aperte in una Chiesa che le preferiva chiuse, già allora.

È quella stessa Chiesa che si rivitalizza oggi se può fare senza il popolo, se può sostituirlo in tutto, con un timbro o con un decreto. Se si ha la pazienza di leggere i discorsi scritti nelle ultime settimane da molti che stanno a stretto contatto con questo vertice di piramide capovolta, non si fa grande fatica a riconoscere questa condizione paradossale di solitudine raddoppiata: dalla chiusura civile che reduplica la chiusura ecclesiale.

Le porte chiuse, dunque, aprono un doppio compito, meravigliosamente complicato: a chi in chiesa ci può stare, di starci diversamente. A chi in chiesa non ci può stare, di saper essere Chiesa altrove e diversamente.

A entrambe queste categorie di soggetti non guasta il ritorno a una delle fonti decisive del sapere eucaristico comune. L’uso dei termini più adeguati è spesso il primo segno di uno stile ecclesiale e di un metodo idoneo. Il testo normativo ufficiale, nel descrivere la esperienza di «celebrazione eucaristica» non usa mai il termine «messa senza popolo». La griglia che viene usata dall’Ordinamento generale del messale romano (OGMR, III edizione), per parlare delle diverse forme di celebrazione eucaristica, dice: «messa con il popolo», «messa concelebrata», «messa cui partecipa un solo ministro».

Ciò accade perché l’OGMR sa che non si può celebrare «privatamente», neppure se sei il papa. La messa è, antropologicamente ed ecclesialmente, un fenomeno plurale. Umanamente non inizia mai dal singolo, ma da una comunità. Questa è la medesima sapienza che rimane scritta anche nella legge canonica, quando al can. 906 afferma: «Il sacerdote non celebri il sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per giusta e ragionevole causa».

In cima sta il «celebrare comune» e il «caso di necessità» è una dolorosa e pesante eccezione. La sapienza teologica sta nel percepire e comunicare queste differenze, sottili come un capello, ma decisive.

La logica inclusiva

La piena comprensione di un necessario stile liturgico e pastorale si può leggere nei numeri 91-96 dell’OGMR. Il primo numero dichiara: «91. La celebrazione eucaristica è azione di Cristo e della Chiesa, cioè del popolo santo riunito e ordinato sotto la guida del vescovo. Perciò essa appartiene all’intero corpo della Chiesa, lo manifesta e lo implica; i suoi singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, dei compiti e dell’attiva partecipazione. In questo modo il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato”, manifesta il proprio coerente e gerarchico ordine. Tutti perciò, sia ministri ordinati sia fedeli laici, esercitando il loro ministero o ufficio, compiano solo e tutto ciò che è di loro competenza».

Dire che la messa «appartiene all’intero corpo della Chiesa» è la visione di fondo nella quale non vi è concorrenza tra soggetti, cosa che capovolgerebbe il senso stesso della eucaristia. Ognuno è soggetto. La logica non è mai quella che distingue tra autonomo/dipendente. Si farebbe un errore nell’uso delle categorie. È come se si accettasse la logica del giochino della torre, classico e perverso: nella messa, chi butti giù dalla torre? Il prete o la assemblea?

La stessa logica inclusiva si legge nel passo dedicato al presbitero (OGMR 93), in cui la autorità di presidenza è correlata al servizio a Dio e al popolo, senza usare categorie di oggettivo/soggettivo. Tale servizio non può essere scisso, nel senso che come non si può servire il popolo senza servire Dio, così non si può servire Dio senza servire il popolo: l’«offerta del sacrificio» sta nel «presiedere il popolo radunato».

Ciò si riverbera anche nella ricca e articolata lettura del «ministero della assemblea». Qui sarebbe assai opportuno recuperare, da parte di tutti i fedeli e ministri ecclesiali, la forza di questi testi, senza lasciarsi distrarre da documenti gravemente fuorvianti che hanno avuto la sfrontatezza d’invitare alla «cautela» nell’uso della categoria di «assemblea celebrante».

Dare respiro ecclesiale

Talora, in modo improvvido, queste logiche apologetiche di «lotta agli abusi», impediscono di ragionare con tenerezza sulle dinamiche ecclesiali. Il vescovo e il presbitero, dovrebbe sempre essere chiaro, «presiedono un’assemblea che celebra». L’atto del celebrare è costitutivamente plurale.

Per questo OGMR 95-96 ricorda: «95. I fedeli nella celebrazione della messa formano la gente santa, il popolo che Dio si è acquistato e il sacerdozio regale, per rendere grazie a Dio, per offrire la vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote ma anche insieme con lui, e per imparare a offrire se stessi. Procurino quindi di manifestare tutto ciò con un profondo senso religioso e con la carità verso i fratelli che partecipano alla stessa celebrazione. Evitino perciò ogni forma di individualismo e di divisione, tenendo presente che hanno un unico Padre nei cieli, e perciò tutti sono tra loro fratelli. 

96. Formino invece un solo corpo, sia nell’ascoltare la parola di Dio, sia nel prendere parte alle preghiere e al canto, sia specialmente nella comune offerta del sacrificio e nella comune partecipazione alla mensa del Signore. Questa unità appare molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme».

Qui è evidente  e toccante il «respiro ecclesiale» di questa ariosa presentazione dell’esperienza eucaristica. In questo orizzonte di «comune offerta del sacrificio e di comune partecipazione alla mensa del Signore», con la comunione nella parola e nel sacramento, prende  forma l’esperienza della Chiesa, che non si lascia chiudere in una pratica da funzionari assediati, che tradirebbe non solo il munus episcopale, ma il senso stesso del ministero ordinato.

Non scendere sotto il tono dell’OGMR – per far fronte alla sfida di un tempo così sorprendente e così spiazzante – a me pare l’unico modo per accedere davvero sia a un minimo sindacale di tenerezza ecclesiale, sia a un minimo episcopale di competenza eucaristica.

 

Andrea Grillo

 

Tipo Articolo
Tema Pastorale - Liturgia - Catechesi
Area
Nazioni

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