Sudafrica - Migranti: un nuovo apartheid
In Sudafrica, come ondate, i pogrom anti immigrati tornano costantemente con il loro carico di morte e distruzione. Le ultime violenze si sono registrate in settembre. Decine di immigrati sono stati selvaggiamente picchiati, le loro attività sono andate distrutte, i loro pochi averi rubati o dispersi. Le città più colpite sono state Johannesburg e Durban, ma anche Città del Capo non è rimasta immune.
In Sudafrica, come ondate, i pogrom anti immigrati tornano costantemente con il loro carico di morte e distruzione. Le ultime violenze si sono registrate in settembre. Decine di immigrati sono stati selvaggiamente picchiati, le loro attività sono andate distrutte, i loro pochi averi rubati o dispersi. Le città più colpite sono state Johannesburg e Durban, ma anche Città del Capo non è rimasta immune.
«Dopo gli attacchi dei primi giorni di settembre che hanno causato decine di morti – spiega Pablo Velasquez, religioso scalabriniano che lavora nelle periferie di Johannesburg – in città è tornata la calma, ma c’è ancora tanta paura. Ho trascorso qualche periodo in un campo profughi irregolare dove vivono zimbabweani, mozambicani, somali, etiopi, nigeriani, ghanesi, congolesi. Qui ho toccato con mano il terrore. La gente non si fida a lasciare l’area e ad andare in città per vendere le proprie povere merci. Temono di essere maltrattati, picchiati, che le loro cose siano distrutte».
La xenofobia sembra una contraddizione nella «Nazione arcobaleno», un paese che è stato capace di liberarsi da decenni di regime di segregazione razziale. Ma forse le radici dell’odio etnico si trovano ancora nell’apartheid. «Vent’anni di democrazia – continua padre Pablo – non hanno risolto i problemi del paese. La differenza tra i ricchi, la maggior parte dei quali bianchi, e i poveri è enorme. La disoccupazione è altissima (ufficialmente è al 30%, ma probabilmente è più elevata, ndr). In molte zone rurali mancano i servizi di base: acqua, elettricità, linee telefoniche, gas, strade, scuole. Il problema della casa è molto sentito. Tutto ciò provoca forti tensioni».
Molti sudafricani si spostano infatti dalla campagna alle township (le baraccopoli) delle grandi città. Qui incontrano gli immigrati, altrettanto poveri. «In molti sudafricani neri – osserva padre Filippo Ferraro, anch’egli scalabriniano che lavora a Città del Capo – è ancora vivo il senso d’inferiorità imposto per decenni dal regime di segregazione dei bianchi boeri. Il fatto di essere stati sempre trattati come cittadini di serie B fa sì che la loro frustrazione si riversi sugli immigrati che oggi sono gli ultimi degli ultimi. Molti sudafricani vedono nei nuovi arrivati un nuovo nemico da combattere che potrebbe sottrarre loro le poche risorse a disposizione. Così scattano violenti pogrom che distruggono le attività dei migranti e, in alcuni casi, arrivano a uccidere gli stranieri».
Afrofobia
Così in Sudafrica si è diffusa una sorta di «afrofobia» che colpisce gli africani che vengono da più lontano: congolesi, eritrei, maliani, nigeriani, somali. Meno colpiti i vicini malawiani, mozambicani, zimbabweani. Forse perché conoscono meglio l’ambiente del Sudafrica e s’integrano meglio.
Di fronte a questo fenomeno, la politica ha un atteggiamento perlomeno ambiguo. «Combattere le disuguaglianze – continua padre Filippo – è un compito complesso. Non ci sono ricette semplici. La stagnazione poi non aiuta lo sviluppo e la crescita economica e sociale. In questa situazione i politici prendono tempo. Rimandano le soluzioni. Alcuni addirittura soffiano sul fuoco, sapendo di trovare facili consensi tra le fasce povere della gente e tra i disoccupati».
A ciò si aggiunge una corruzione ormai diffusa non solo nella classe politica, ma anche tra i funzionari dell’amministrazione pubblica. «La corruzione – osserva padre Filippo – è una piaga che infetta tutto il corpo della nazione. Politici e funzionari corrotti rendono instabile il paese, indebolendo l’economia e accrescendo ancora di più la disoccupazione e la povertà».
In questo contesto, la Chiesa cattolica, pur minoritaria in Sudafrica (10% della popolazione), negli ultimi anni ha levato la sua voce contro gli atti di violenza xenofoba. Mons. Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg, ha paragonato la xenofobia al nazismo. In numerosi documenti, i vescovi hanno appoggiato le istanze a favore dei migranti e di una politica più aperta nei confronti dei rifugiati.
Tra le prese di posizione più dure dei presuli c’è quella che vuole opporsi alla riforma della legge sui rifugiati. Questa normativa, che è stata approvata subito dopo la fine dell’apartheid, è molto liberale e permette ai migranti che attendono il riconoscimento dell’asilo di essere liberi di muoversi nel paese, di lavorare e di studiare.
«La nuova legge – spiega padre Filippo – intende creare centri di detenzione in cui ammassare i richiedenti asilo. Sebbene sia previsto che lo status di rifugiato debba essere riconosciuto entro 8 mesi, i migranti aspettano anche 9 anni prima di avere una risposta. Ciò significa che si verrebbero a creare veri e propri campi di concentramento. Una cosa assurda. Anche perché la società sudafricana ha bisogno dei migranti: lavorano in settori in cui i sudafricani sono esclusi, creano imprese e offrono lavoro. Il loro dinamismo è essenziale».
Enrico Casale