Rapporto sull’accoglienza degli italiani: fattore sfiducia
Una ricerca Caritas italiana - Il Regno
La fiducia dei migranti, la sfiducia degli italiani. Potremmo anche dire così. A fronte della vitalità, oltre che della necessità, che spinge donne, uomini, intere famiglie all’immigrazione, un crescente sentimento degli italiani di paura e di sfiducia. Paura degli altri o sfiducia in noi stessi? La sfiducia in noi stessi attiene agli elementi di fondo, culturali, economici, istituzionali. In particolare la sfiducia nelle istituzioni, che caratterizza da sempre gli italiani, fa percepire, pure considerando analoghe difficoltà di altre nazioni europee, il fenomeno migratorio come minaccia per noi ingovernabile. Anche a fronte di atteggiamenti di tipo razzistico che si presentano nel nostro paese, lo studio che qui presentiamo mette in luce che l’alternativa è tra nuovi modelli di integrazione da un lato e rifiuto, chiusura totale dall’altro. Nel primo caso l’immigrazione è trasformabile in risorsa, nel secondo rimane un problema. La scelta riguarda l’idea di futuro che il nostro paese immagina per sé e, attraverso di sé, per l’Europa. L’indagine che segue, curata dai proff. Paolo Segatti e Federico Vegetti dell’Università Statale di Milano, e voluta dalla Caritas Italiana e dalla rivista Il Regno, intende porre la questione su basi di conoscenza, al di fuori di ogni strumentalità.
Per moltissimi italiani, gli immigrati che vengono da paesi extra Unione Europea rappresentano più un problema che un’opportunità. I dati dell’Eurobarometro raccolti nell’ottobre 2017 mostrano che il 51,6% degli intervistati era di questa opinione. Una percentuale sostanzialmente simile a quella dei tedeschi dei Länder orientali, dei cittadini di Cipro e della Bulgaria. Inferiore solo a quella di ungheresi, slovacchi, maltesi e greci. In tutti gli altri paesi europei il numero di cittadini con la stessa opinione era di gran lunga inferiore. Questa percezione dal 2017 a oggi è andata con ogni probabilità crescendo.
Le ragioni per le quali chi arriva in Italia da un paese del Sud del mondo rappresenti o sia percepito come un problema possono ovviamente essere molte. Alcune di queste sono forse solo la presa d’atto che gli imponenti flussi degli anni scorsi hanno reso tutto più complicato in un contesto economico ancora molto fragile e con istituzioni che non riescono a governare la post-emergenza e i processi d’integrazione. Ma è evidente che vi sono anche altre ragioni, che hanno a che fare con la percezione del fatto che gli immigrati rappresentino una minaccia non solo economica ma anche di sicurezza. E poi vi possono essere ragioni che riflettono più o meno chiaramente preoccupazioni sull’identità di un paese come l’Italia, che non è mai stato, nel corso della storia recente, un luogo d’immigrazione. In questo rapporto analizzeremo alcune di queste ragioni. In particolare tre.
Valuteremo anzitutto se il numero di persone che nei 28 paesi dell’Unione Europea (UE) considera l’immigrazione da paesi extra-europei più un problema che un’opportunità sia collegabile al livello di conoscenza dell’entità effettiva del fenomeno, oppure alle condizioni economiche del paese, oppure ancora al grado di fiducia in esso. Preliminare a questo esame è una valutazione del grado di conoscenza che gli italiani avevano nel 2017 delle dimensioni del fenomeno migratorio rispetto a quella di altre opinioni pubbliche. Vedremo anche se il livello di conoscenza sia migliorato o peggiorato rispetto a quello di oltre tre lustri fa, nel 2001.
In secondo luogo ci concentreremo sull’Italia, con l’obiettivo d’analizzare attraverso i dati disponibili se e quanto è cambiata la disponibilità all’accoglienza degli italiani dagli anni Novanta in poi. Successivamente esamineremo il mutamento dal 2001 a oggi di tre motivazioni fondamentali della disponibilità ad accogliere gli immigrati: la percezione di minaccia culturale, economica e alla sicurezza. Valuteremo quanto è cambiata nel tempo la diffusione di tali preoccupazioni, e se è cambiato anche l’effetto su di esse di tre determinanti considerevoli: il livello d’istruzione, le credenze ideologiche e il rapporto con la religione, misurato attraverso la frequenza alla celebrazione eucaristica.
L’identità è il tema centrale della terza linea d’approfondimento. Sulla base di un’indagine sperimentale condotta sia in Italia che in Francia nel 2009, esamineremo l’influenza sulla disponibilità ad accogliere immigrati esercitata da tre caratteristiche individuali: le rappresentazioni che italiani e francesi hanno della loro identità nazionale, la tendenza degli uni e degli altri a usare stereotipi per caratterizzare diversi gruppi d’immigrati, e l’opinione su cosa devono fare gli stranieri per essere accettati.
Prima di procedere nell’analisi delle tre aree tematiche, è utile però avere una visione di insieme dell’evoluzione dal 2008 al 2017 della presenza di immigrati in Italia e nel resto dei paesi europei (figura 1).
Secondo Eurostat, il numero di stranieri residenti legalmente in Italia è cresciuto nel periodo osservato da circa il 6 all’8,3% sulla popolazione. Due punti percentuali, dunque. Molto meno della media europea. Pochi in confronto all’aumento di circa 8 punti percentuali verificatosi in Austria. Ma anche meno di quanto sia accaduto in altri paesi europei, quali la Spagna, la Germania, il Belgio e l’Irlanda. Ovviamente il numero di stranieri residenti legalmente include anche un numero, variabile da paese a paese, d’immigrati che provengono da un paese dell’Unione Europea. Al gennaio 2016 solo in Lussemburgo, Belgio, Irlanda, Cipro, Olanda, Malta, Ungheria e Regno Unito il loro numero, sempre calcolato rispetto alla popolazione residente, superava quello degli immigrati provenienti da paesi extra UE. In Italia invece l’8,3% di stranieri residenti in Italia al gennaio 2016 era composto dal 2,3% di provenienti da paesi UE e il 5,8% da paesi extra-UE.
In Germania il 10,5% di stranieri si distribuiva tra il 4,6% di cittadini di paesi UE e il 5,9% di cittadini di paesi extra UE. In Francia il 2,3% d’immigrati rispetto alla popolazione veniva da paesi UE e il 4,3% da paesi extra-UE, per un totale di 6,6%. In Spagna, infine, sempre all’inizio del 2016, il 4,3% d’immigrati era cittadino di un paese UE e il 5,3 di un paese extra UE.
Come si vede, in Italia la quota d’immigrati non provenienti dall’Unione Europea è solo marginalmente più alta di quella dei paesi a noi più simili. Agli immigrati legalmente residenti andrebbero poi aggiunti anche i «clandestini», ovvero gli irregolari. Ma sono pochi. Secondo le stime della Fondazione Iniziative e studi della multietnicità (ISMU), nel 2017 ammonterebbero a meno dell’1% della popolazione. Un numero che presenta limitate variazioni nel tempo e non si discosta molto da quello degli altri paesi europei (https://bit.ly/2oVkZH6).
Questi dati mostrano con chiarezza che le dimensioni del fenomeno migratorio in Italia e la sua evoluzione nel tempo non sono macroscopicamente diverse da quelle di altri paesi europei. Una realtà dunque ben diversa dalla tendenza di molti media e di alcuni soggetti politici a presentare il caso italiano come un’assoluta anomalia nel quadro europeo. Di recente si è anche osservato che forse, come conseguenza di tale clima, l’opinione pubblica italiana si sia fatta una percezione molto distorta di questa realtà. Ma è veramente così? E poi, se esiste un divario tra realtà e percezione, questo ha un ruolo nel far sì che in Italia una larghissima fetta dell’opinione pubblica veda nell’immigrazione da paesi poveri un problema più che un’opportunità? Oppure ci sono altre ragioni?
Perché gli italiani vedono negli immigrati prevalentemente un problema?
Partiamo dal livello di conoscenza che gli italiani hanno delle dimensioni del fenomeno immigratorio. La figura 2 mette a confronto per ciascuno dei 28 paesi europei lo scostamento della percezione di quanti sono gli immigrati legali rispetto alla realtà. Lo scostamento è stato rilevato nel 2002 (dati OCSE) e nel 2017 (dati Eurostat). Si noti però che la figura presenta due misure diverse di tale scostamento. Nei due pannelli superiori della figura i dati si limitano a mostrare la distanza tra percezione e realtà, indicata dalla lunghezza del tratto che unisce i due punti. Come si vede, nel 2017 l’Italia è il paese nel quale la distanza tra percezione e realtà è più grande, dopo il Portogallo. Tale percezione è inoltre in crescita rispetto al 2002.
Misurare lo scostamento tra percezione e realtà sulla base della semplice distanza tra le due grandezze può essere tuttavia fuorviante, soprattutto se si vuole comparare la posizione di un paese rispetto ad altri e se lo si vuole fare nel tempo. Fuorviante, perché la distanza è una misura assoluta che non dice nulla su quanto lo scostamento tra percezione e realtà sia proporzionale al numero reale d’immigranti. I due pannelli inferiori della figura 2 tengono conto di questa differenza, e mostrano il rapporto di proporzionalità tra percezione e realtà. Il quadro che ne esce è diverso da quello suggerito dalla semplice distanza assoluta.
L’opinione pubblica italiana non è la più miope tra quelle europee. Se rapportata al numero effettivo d’immigrati la distorsione di cui soffrono gli italiani nel 2017 è di gran lunga inferiore a quella di cui soffre l’opinione pubblica di molti paesi dell’Europa dell’Est. È però maggiore di quella di cui soffrono altre opinioni pubbliche occidentali. Ma, ad esempio, non di molto rispetto ai francesi. Inoltre, se comparata a quanto accadeva nel 2002, emerge che la miopia degli italiani non è cresciuta, ma in proporzione ai numeri reali essa è addirittura diminuita. Una sorpresa verrebbe da dire, se pensiamo a quanto il dibattito pubblico di questi ultimi tempi sia stato dominato sia dall’aumento, negli scorsi due anni, dei flussi migratori sia dalla rappresentazione dell’opinione pubblica italiana come abbagliata da una «invasione».
La questione sulla quale invece gli italiani si scostano in misura grossolana dalla realtà riguarda un altro aspetto del fenomeno: la quota d’immigrati irregolari. Abbiamo visto che nel 2017 erano stimati dall’ISMU meno dell’1%. A fronte di questo numero, nell’ottobre 2017 ben il 47% degli italiani era convinto che la maggioranza degli immigrati fosse costituita da illegali. Ci superavano solo i greci (59%). Bisognerebbe approfondire le cause di questo fraintendimento. A noi ne vengono in mente due. Da un lato la decennale campagna di alcune formazioni politiche sui «clandestini», un’entità dai contorni vaghi ma surrettiziamente fatta coincidere con quella d’immigrato. Dall’altro la conseguenza indiretta delle procedure relative al trattamento delle richieste d’asilo, che non riuscendo a governare tutte le fasi del processo finiscono spesso per gettare letteralmente sulla strada persone in attesa del giudizio finale.
A questo punto ci chiediamo quali fattori possono aver contribuito a differenziare le opinioni pubbliche dei paesi europei nel valutare gli immigrati dai paesi poveri più come un problema che come un’opportunità. Ne abbiamo considerati tre tenendo conto di alcune aspettative teoriche. Il primo fattore che abbiamo considerato è lo stato dell’economia nel 2017 nei diversi paesi europei rispetto a quello del 2007. È diffusa la tendenza, nel dibattito pubblico, a spiegare la percezione che gli immigrati rappresentino un problema o la poca disponibilità ad accoglierli in base alle condizioni economiche degli individui o del contesto in cui vivono. Secondo questa linea interpretativa le opinioni sugli immigrati sono influenzate dalla sensazione che questi rappresentino una minaccia economica perché la loro presenza rischia d’aggravare la competizione per risorse già scarse, quali ad esempio il lavoro, la casa e l’accesso al welfare, in particolare per quelli che si trovano in condizioni disagiate.
La letteratura a questo proposito è imponente, anche se più di recente si tende a considerare gli effetti delle motivazioni economiche sull’ostilità verso gli immigrati meno importanti del senso di minaccia culturale. Pochi sono però gli studi che comparano diversi paesi tra loro e nel tempo. Un’importante eccezione è rappresentata dal recente lavoro di Meuleman, Davidov e Billiet (2018) che ha mostrato come l’evoluzione della disponibilità a livello individuale ad accogliere gli immigrati negli scorsi 16 anni sia stata effettivamente influenzata dalla crisi economica, anche se gli effetti sono stati modesti e non durevoli nel tempo.
Seguendo in parte questo stimolo, ci chiediamo se le differenze tra paesi quanto alla percezione dell’immigrazione come problema dipendano da quanto le loro economie hanno recuperato rispetto al 2007. Segnatamente abbiamo considerato la differenza tra il prodotto interno lordo del 2017 e quello del 2007. Come sappiamo, in Italia e in Grecia il livello del PIL del 2017 è ancora inferiore a quello del 2007. Ma anche gli altri paesi, pur avendo recuperato il livello del 2007, mostrano differenze sensibili. L’indicatore usato è stata la differenza tra il PIL nel 2017 e quello del 2007, fatto 100 per entrambi il PIL del 2011 (dati Eurostat).
Il secondo fattore considerato è stata la differenza tra percezione e realtà della quota d’immigrati in Italia nel 2017. Diverse ricerche hanno mostrato che il contatto personale con gli immigrati può ridurre l’ostilità verso di loro, anche se il rapporto varia in modo complesso (Kaufman e Goodwin, 2018). Seguendo questa tesi, un buon grado di conoscenza delle dimensioni del fenomeno sia a livello individuale che a livello d’opinione pubblica nel suo complesso potrebbe allora riflettere una più elevata probabilità di rapporti personali con gli immigrati. Quindi si potrebbe pensare che le opinioni pubbliche si differenzino nel valutare gli immigrati come un problema a seconda di quanto è grande lo scostamento tra realtà e percezione. Maggiore lo scostamento, maggiore il numero di coloro che in un paese considerano gli immigrati un problema.
Infine, il terzo fattore che consideriamo ha a che fare con la sicurezza. Ma in un senso particolare. Non il tasso di criminalità degli immigrati da paesi extra-UE. Ma il lato opposto del problema: il senso diffuso d’insicurezza generato dalla poca fiducia verso il proprio stato e le proprie istituzioni. Abbiamo pensato a lungo quale potesse essere una buona misura del senso d’insicurezza. Alla fine abbiamo deciso di usare un atteggiamento antecedente la percezione che il proprio paese e le sue istituzioni siano affidabili, e cioè la percezione che l’opinione pubblica ha di quanto sia estesa la corruzione. In Italia il 94% degli intervistati nel 2017 riteneva che la corruzione fosse molto o abbastanza diffusa, una percentuale non diversa da quella di croati, lettoni, portoghesi, spagnoli, greci e ciprioti.
Tale percezione solo in minima parte ha a che a vedere con il tasso reale di corruzione. Ha invece molto a che vedere con una sindrome culturale di cui sono manifestazione espressioni quali «tutti i politici sono corrotti» ecc. Tale percezione, che riteniamo sia un valido indicatore di questa mentalità diffusa, può essere anche considerata una misura efficace del grado di s/fiducia dei cittadini rispetto alla capacità del proprio paese, e delle sue istituzioni, di saper affrontare situazioni complesse in modo efficiente e al tempo stesso equo. L’aspettativa è che maggiore è il livello percepito di corruzione, maggiore è la percentuale di coloro che ritengono gli immigrati un problema.
Abbiamo stimato con un modello di regressione lineare quali sono gli effetti dei tre fattori citati sulla quota di cittadini che ritiene l’immigrazione un problema. I risultati di questo esercizio mostrano che né lo stato dell’economia nel 2017 rispetto a quello del 2007, né lo scostamento tra la percezione e la realtà del fenomeno migratorio influiscono significativamente sul livello d’opinione dell’immigrazione come problema. Invece, la convinzione che il proprio paese e quindi le sue istituzioni siano gravate dalla corruzione ha un impatto decisivo. Nei paesi dove la stragrande maggioranza degli intervistati ritiene che la corruzione sia un fenomeno diffuso (come l’Italia, la Spagna e il Portogallo), la probabilità di considerare l’immigrazione più un problema che un’opportunità è di 24 punti percentuali superiore rispetto ai paesi dove la corruzione è un fenomeno meno sentito (come la Danimarca o la Finlandia).
Quanto rilevato indica che, pur con tutte le cautele necessarie, le preoccupazioni verso gli immigrati e un’opinione pubblica convinta di vivere in un paese corrotto dalle fondamenta potrebbero essere legate assieme anche a livello individuale. Detto altrimenti, nella percezione che gli immigrati rappresentino un problema ci sta anche la sensazione di vivere in uno stato di cui non ci può fidare, oltre che ovviamente l’esposizione al rischio rappresentato dagli eventuali comportamenti criminali degli stranieri residenti. Va però aggiunto che, per quanto forte, il legame non spiega interamente la convinzione che gli immigrati siano un problema. Per esempio, in Spagna la percentuale di persone secondo le quali la corruzione è molto diffusa è pari a quella italiana, ma il numero di quelli che ritengono che gli immigrati siano un problema è molto più basso.
La disponibilità ad accogliere gli immigrati e le sue motivazioni
L’analisi di come sia cambiata negli ultimi 30 anni la disponibilità ad accogliere gli immigrati da parte degli italiani presenta alcuni ostacoli. Non perché manchino i dati. A far difetto è invece la loro comparabilità, essendo presi da indagini diverse. Di ciò occorre tener conto nel valutare i dati che qui presentiamo.
I dati ai quali facciamo riferimento per misurare l’evoluzione della disponibilità all’accoglienza provengono da tre indagini Eurobarometro (EB) svolte nel 1988, 1991, 1997 e 2000, e da cinque indagini ITANES, svolte nel 2006 e 2013. Tutte le indagini mirano a definire quanti sono gli immigrati che l’intervistato è disposto ad accogliere. Ma il formato delle domande e delle risposte differisce.1 Questi comunque i risultati.
Secondo i dati EB gli italiani che dicevano che gli immigrati erano troppi ammontavano nel 1988 al 36%, nel 1991 (l’anno dell’arrivo degli albanesi) al 66%, nel 1997 al 39% e nel 2000 al 45%. Secondo i dati ITANES, nel 2006 coloro che sceglievano un valore eguale o inferiore al valore mediano erano il 56%, nel 2013 il 59%, nel 2014 il 53%, nel 2015 il 57%, e nel novembre 2017 il 54%.
Nonostante queste stime vadano valutate con grande prudenza, il quadro è abbastanza chiaro. Esiste, e non da oggi, una quota significativa dell’opinione pubblica italiana che è spiccatamente orientata verso una limitazione del numero d’immigrati. Con questo tipo di dati non possiamo valutare se tale preferenza sia sentita oggi con maggiore intensità di quanto lo fosse ieri. È possibile però che anche questo sia avvenuto, visto che oggi più di ieri ci sono forze politiche che galvanizzano i sentimenti anti-immigrati e li rendono parte del loro programma di governo.
Se una larga fetta di italiani non vuole aprire le porte di casa, a cosa dobbiamo questo orientamento? La letteratura è concorde nell’indicare tre motivazioni: il senso di minaccia economica, culturale e relativa alla sicurezza. Come dicevamo poco sopra, la tendenza odierna considera il senso di minaccia culturale la motivazione prevalente alla chiusura verso gli immigranti (Sides e Citrin, 2007; Hainmuller e Hopkins, 2014). I dati ITANES consentono di rilevare quanto erano diffusi tra gli italiani questi tre atteggiamenti in determinati anni. Purtroppo non siamo in grado d’analizzare, per mancanza di dati, quanto le tre motivazioni abbiano influenzato la disponibilità all’accoglienza. Non possiamo dire, cioè, quale delle tre sia la più importante. Possiamo però confrontare la loro diffusione tra gli italiani nel 2001 e nel 2018.
La figura 3 mostra tre elementi importanti. Innanzitutto, la percentuale d’intervistati che percepiscono l’immigrazione come una minaccia (piuttosto che come un’opportunità) di natura culturale è meno del 40%. Inoltre, questa percentuale è in parte diminuita rispetto al 2001.2 Invece, gli italiani che vedono negli immigrati una minaccia economica sono in crescita. Nel 2018 circa il 55% degli intervistati percepisce l’impatto dell’immigrazione sull’economia italiana come negativo, un aumento di dieci punti percentuali rispetto al 2001.3 Infine, è chiaro che i timori più diffusi tra gli italiani riguardano la sicurezza.4 Nel 2018 come nel 2001, il 60% degli intervistati esprime questo tipo di preoccupazioni.
Vi sono due osservazioni da fare su questi dati. La prima è che tra il 2001 e il 2018 sono accaduti eventi che hanno drammaticamente cambiato la percezione del mondo in cui viviamo. L’attentato alle Torri gemelle, il terrorismo islamista, la fine delle primavere arabe e l’affermazione dell’ISIS potrebbero aver contribuito a rendere più diffuso il senso di minaccia culturale. Ciononostante, esso non appare oggi maggiormente esteso rispetto a ieri, mentre sono cresciuti gli altri due. La seconda osservazione è più di metodo. Il livello al quale il senso di minaccia è diffuso dice poco sulla forza che tale preoccupazione potrebbe avere nell’influenzare la disponibilità all’accoglienza. Purtroppo non possiamo valutare, per assenza di dati, quanto grande sia l’effetto del senso di minaccia. Possiamo però dare una risposta alla domanda su quali caratteristiche individuali sono associabili alle tre motivazioni. Ne abbiamo considerate tre: religione, politica e livello d’istruzione.
Religione, politica, istruzione: le variabili soggettive
Una religione, come Hervieu Léger ha più volte mostrato, è un insieme di valori, credenze, pratiche, tradizioni, memorie e sentimenti estetici. Uno dei valori fondamentali del cristianesimo è l’universalismo. Quindi dovremmo attenderci che tra coloro per cui la religione è importante, il senso di minaccia di qualsiasi tipo verso gli stranieri dovrebbe essere inferiore. D’altro canto, poiché la religione è anche condivisione di una peculiare tradizione culturale, è pensabile che per alcune persone con specifici orientamenti religiosi gli immigrati siano invece una minaccia, soprattutto culturale. Abbiamo misurato l’orientamento religioso sulla base della frequenza alla celebrazione eucaristica distinta in tre livelli, frequenza una volta alla settimana o meno, frequenza da una volta al mese a qualche volta all’anno, mai.
La figura 4 mostra che coloro che non si recano mai in chiesa sono anche quelli che, tra gli intervistati, hanno la minore propensione a percepire l’immigrazione come una minaccia. All’opposto, coloro che frequentano la chiesa sporadicamente sono il gruppo che maggiormente percepisce gli immigrati come una minaccia. Queste differenze sono presenti sia che la minaccia sia di natura economica, sia culturale, sia della sicurezza. I cattolici praticanti si trovano più o meno nel mezzo tra questi due gruppi, visibilmente più vicini ai praticanti occasionali per quanto riguarda la percezione di minaccia culturale e della sicurezza, e più simili ai non praticanti per quanto riguarda la minaccia economica. Le differenze tra gruppi rimangono simili tra il 2001 e il 2018.
L’orientamento politico-ideologico degli individui è stato osservato chiedendo agli intervistati dove si collocherebbero su una scala ordinale che va da sinistra a destra. L’auto-collocazione ideologica viene generalmente interpretata in due modi. Da una parte, essa riassume e sintetizza un insieme di valori politici non transeunti che caratterizzano una politica «di destra» o «di sinistra» (Bobbio, 1994). Da questo punto di vista, ad esempio, poiché la sinistra valorizza l’ideale dell’eguaglianza tra gli uomini, ci si dovrebbe attendere che chi sta a sinistra sia anche meno timoroso degli immigrati. Sinistra, centro e destra hanno tuttavia un secondo significato, in quanto si riferiscono a forze politiche specifiche che usano questa rappresentazione dello spazio politico per autodefinirsi. In questi termini, dirsi di sinistra o di destra non esprime solo i valori professati, ma anche una preferenza per uno specifico partito o gruppo di partiti. Tuttavia, anche secondo questa interpretazione, gli individui che si collocano a sinistra dovrebbero essere meno propensi a percepire l’immigrazione come una minaccia di quanto lo siano gli elettori che stanno a destra. Infatti i partiti di sinistra in Italia hanno sempre avuto una posizione generalmente più aperta verso l’immigrazione rispetto alla destra.
Queste differenze sono state particolarmente enfatizzate dalla campagna elettorale del 2018, con almeno due partiti nella coalizione di centro-destra (Lega e Fratelli d’Italia) che hanno assunto posizioni di forte allarme nei confronti dell’immigrazione, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza. I tre pannelli centrali della figura 4 confermano entrambe queste aspettative. Le differenze tra gruppi sono molto ampie, indice questo di un forte potere esplicativo della variabile «ideologia» sulla percezione di minaccia nelle tre dimensioni considerate. Nel 2001, gli intervistati di destra tendevano a percepire l’immigrazione come una minaccia per almeno 20 punti percentuali in più rispetto agli intervistati di sinistra (quasi 30 nel caso della minaccia alla sicurezza). Nel 2018, questa differenza si è notevolmente allargata: mentre gli intervistati di sinistra che percepiscono l’immigrazione come una minaccia alla sicurezza sono ora circa il 35%, tra quelli di destra questa cifra sale all’80%. Questo divario è leggermente inferiore per le altre due dimensioni, ma comunque nettamente superiore al 2001. In altre parole, gli ultimi diciassette anni hanno visto una polarizzazione tra gruppi ideologici sul tema immigrazione, che si riflette in un’accresciuta differenza nella percezione di minaccia.
La terza caratteristica è il grado d’istruzione, misurato con il titolo di studio. Il livello d’istruzione può dire molte cose di una persona, non solo la sua collocazione sociale ed economica, ma anche una certa predisposizione alla consapevolezza del carattere complesso della realtà irriducibile a stereotipi, o un orientamento meno incline al rispetto rigido delle tradizioni. Essere più o meno istruiti è dunque una variabile che cattura diversi aspetti della personalità, e ne fa una caratteristica che influenza in modo deciso le opinioni sugli immigrati.
I tre pannelli di destra della figura 4 mostrano le differenze nella percezione della minaccia a seconda dei diversi livelli d’istruzione: scuola dell’obbligo o inferiore, scuole superiori e università. Il primo elemento che salta all’occhio è che le differenze tra gruppi sono molto più marcate rispetto alla pratica religiosa – e anche dell’ideologia – soprattutto nel 2001. In sostanza, il grado d’istruzione influenza efficacemente la propensione ad accogliere o meno gli immigrati, e i più preoccupati sono i meno istruiti, come del resto mostrano tutti gli studi in materia. Per esempio, la differenza nella propensione a percepire l’immigrazione come una minaccia tra intervistati che hanno finito la scuola dell’obbligo e coloro che hanno finito l’università è di 30 punti percentuali. Nella maggior parte dei casi le differenze tra gruppi rimangono simili nel tempo, con l’eccezione della dimensione culturale. In questo caso gli intervistati in possesso di un’istruzione media superiore (diploma) tendono a percepire l’immigrazione come una minaccia maggiormente nel 2018 rispetto al 2001. Di conseguenza tendono ad assomigliare agli intervistati in possesso dell’istruzione obbligatoria. Per quanto riguarda la percezione di minaccia alla sicurezza, è interessante notare come essa aumenta tra il 2001 e il 2018 tra intervistati in possesso di un diploma e di una laurea, ma rimane essenzialmente invariata, con una leggera diminuzione, tra intervistati che si sono fermati alla scuola dell’obbligo.
Religione, politica, istruzione: le interazioni
Abbiamo parlato finora di tre tratti soggettivi che sono risultati, presi singolarmente, associati alla percezione di minaccia. Un ulteriore esercizio analitico consiste nell’osservare se e come gli effetti diversi dell’istruzione persistono all’interno dei segmenti ideologici e dei livelli di pratica religiosa o se, al contrario, i loro effetti tendono a uniformarsi con questi ultimi. In altre parole, in un elettore di sinistra o in un praticante regolare, nel determinare le sue preoccupazioni verso gli immigrati, prevalgono gli orientamenti valoriali sottostanti o invece il suo titolo di studio quale indicatore socio-cognitivo?
La figura 5 mostra due elementi degni di nota. Innanzitutto, nel 2018 rispetto al 2001 è aumentata la distanza tra sinistra e destra in relazione alle tre percezioni di minaccia. Lo stesso accade per la distanza tra sinistra e centro. Il che conferma quello che si era visto nella precedente figura 4, con un’informazione in più: la polarizzazione sul tema dell’immigrazione si manifesta anche all’interno di ogni livello d’istruzione.
Il secondo elemento che la figura 5 indica con chiarezza è che, in entrambi gli anni, le differenze tra più istruiti e meno istruiti quanto alle percezioni di minaccia tendono a essere maggiori tra quelli che si collocano a sinistra che tra coloro che si collocano a destra. Per fare un esempio, tra gli intervistati di sinistra, il 56% di quelli in possesso dell’istruzione obbligatoria vede l’immigrazione come una minaccia alla sicurezza, ma nel caso dei laureati questo numero scende a 18% (38 punti percentuali). Tra gli intervistati di destra questa differenza è invece di 20 punti percentuali, con il 58% dei laureati che percepiscono una minaccia alla sicurezza contro il 78% di coloro che hanno finito la scuola dell’obbligo. Per quanto riguarda la minaccia culturale ed economica, le differenze sono inferiori, ma la variazione per titolo di studio tra gli intervistati di sinistra rimane sempre superiore alla variazione tra quelli di destra. Il fenomeno si manifesta più marcatamente nel 2001, dove ad esempio gli elettori di bassa istruzione di sinistra sono più propensi di quelli più istruiti di destra a percepire l’immigrazione come una minaccia economica e culturale. Ma anche nel 2018 le opinioni sulle tre minacce divergono di più tra elettori con alta e bassa istruzione di sinistra che tra elettori di destra.
In breve, dal confronto complessivo tra il 2001 e il 2018 emerge che il peso politico-ideologico nel 2018 è probabilmente cresciuto rispetto a quello che aveva nel 2001. Ma gli effetti dell’istruzione rimangono comunque visibili e vanno nella direzione attesa da Sniderman e i suoi collaboratori nel 2000. Ci sono elettori d’istruzione modesta che si dichiarano di sinistra perché votano partiti di sinistra, ma su alcuni temi la pensano non molto diversamente dagli elettori di destra. Ciò rende i partiti di sinistra più vulnerabili di quelli di destra, in particolare se si coagulano le condizioni per uno shock politico, come la crisi dei migranti che dal 2015 ha reso l’immigrazione un tema centrale del dibatto politico nazionale e internazionale. Si noti tuttavia che la figura 5 mette a confronto due istantanee statiche degli orientamenti di vari segmenti dell’opinione pubblica italiana. Nulla dice su come sono cambiati gli elettori che si collocano nei tre segmenti ideologici. Alcuni di loro non sono più tra di noi, e altri che oggi lo sono non erano ancora diventati elettori nel 2001. Altri ancora hanno forse cambiato idea. Tra costoro è probabile che molti siano quelli con livelli modesti d’istruzione, visto che l’instabilità di voto e d’opinione è maggiore proprio in questo gruppo. Pur con questi limiti, tuttavia, l’immagine mostra che la vulnerabilità della sinistra italiana sul tema immigrazione ha radici più antiche dei recenti sviluppi elettorali, radici che erano già ben visibili nei primi anni 2000.
Se sostituiamo l’orientamento religioso a quello politico-ideologico, il quadro è diverso. Come mostra la figura 6, le differenze tra livelli di pratica religiosa sono limitate, se non del tutto nulle, sia nel 2001 che nel 2018. Qui l’eterogeneità tra diversi gradi d’istruzione è decisamente superiore a quella tra livelli di pratica religiosa.
Disponibilità all’accoglienza, integrazione ed esclusione
Da quando gli immigrati sono arrivati in numeri significativi nel nostro paese, una parte rilevante di italiani sembra ritenere che ce ne siano sempre troppi. Come abbiamo visto, è un’opinione che si associa a motivazioni diverse, e queste sono più diffuse in alcune fasce della popolazione che in altre. Non è chiaro invece quale idea hanno gli italiani delle condizioni in base alle quali gli immigrati potrebbero divenire parte della nostra società. Preferire che ce ne siano pochi a ben vedere è compatibile con due visioni diverse di tali condizioni. Da un lato, un atteggiamento di chiusura potrebbe fare seguito a un ragionamento secondo il quale non c’è posto in Italia per una persona di altra cultura, religione e lingua. D’altra parte, lo stesso atteggiamento potrebbe scaturire da un ragionamento secondo il quale gli immigrati devono meritarsi il diritto d’essere accolti, dimostrando di volersi integrare. Entrambe le visioni muovono da una constatazione ovvia in un mondo fatto di stati-nazione definiti da confini precisi: gli immigrati sono degli ospiti. Entrambe le visioni condividono dunque il principio che in un mondo siffatto non vi è un obbligo morale all’accoglienza incondizionata.
Le due visioni divergono però su un aspetto importante. In base alla prima visione, la distanza tra noi e gli immigrati è così grande da renderli non integrabili. Non potranno mai condividere nulla della nostra identità, qualsiasi cosa volessero fare per restare da noi. Questa è la posizione del governo ungherese guidato da Viktor Orbán, che nel giugno 2018 ha approvato una legge che rende passibile di sanzioni chiunque assista gli immigrati e ne promuova l’integrazione: gli immigrati sono e saranno sempre ospiti, che prima o poi dovranno andarsene anche se manifestassero la volontà di diventare ungheresi. Come non manca di ripetere spesso il primo ministro ungherese, «l’Ungheria non è un paese d’immigrazione». Per la seconda visione, la distanza tra noi e gli immigrati può essere ridotta: un immigrato è certamente un ospite, ma se vuole integrarsi può rimanere e diventare come noi. Ma deve però dimostrare di «meritarselo», mandando i figli nelle nostre scuole, imparando la lingua e condividendo il nostro modo di vivere, le norme scritte e quelle non scritte che regolano la nostra convivenza.
Aspettarsi che l’opinione pubblica nel suo complesso colga la differenza tra una posizione esclusivista e una assimilazionista è decisamente pretendere troppo. Ma è possibile valutare come alcuni orientamenti individuali possano far propendere una persona più verso l’una o verso l’altra visione. Per esempio, è probabile che una persona, se vittima di pregiudizi etnici, non sia disponibile ad accogliere un immigrato anche quando costui dimostra di volersi integrare. Parimenti una persona che qualifichi l’essere italiano sulla base dell’appartenenza alla religione cattolica romana e della discendenza da genitori entrambi italiani definisce i confini della propria identità nazionale in modo tale da renderli quasi invalicabili. Entrambi questi orientamenti più o meno confusamente riflettono però un’idea della nostra società di tipo esclusivista. Viceversa, la posizione di chi ritiene che dovremmo accettare chi vuole integrarsi, non importa quale sia la sua fede, cultura o lingua, riflette l’idea che diventare simili è possibile, anche se il cammino e le fatiche maggiori stanno sulle spalle degli ospiti e non di chi li ospita.
Nel 2009 è stata realizzata un’indagine comparata tra Italia e Francia proprio con l’obiettivo d’analizzare gli effetti di questi tre orientamenti sulla disponibilità ad accogliere gli immigrati.5 Per misurare le rappresentazioni della propria identità nazionale, il gruppo di ricerca si è avvalso di una serie di stimoli che chiedevano agli intervistati di dire quanto fossero d’accordo con una definizione di italiano o francese tipico. Le risposte sono risultate correlate tra loro. Il che indica che i diversi significati attribuiti all’identità nazionale riflettono un atteggiamento comune che potremmo qualificare come una rappresentazione dell’identità nazionale di tipo etno-culturale.6 Su questa base si è costruito un indice prendendo la media, per ogni individuo, del valore di risposta dato ai vari indicatori.7 La percentuale di coloro che si rappresentano l’identità nazionale in senso spiccatamente etno-culturale, ovvero coloro che hanno un valore superiore o uguale al 75° percentile della distribuzione, è 15% in Francia e 38% in Italia. In altre parole, nel 2009 gli italiani erano molto più propensi dei francesi a dare all’identità nazionale una forte connotazione etno-culturale.
Per analizzare i pregiudizi etnici si è osservata la propensione a generalizzare l’uso di stereotipi negativi per categorizzare persone diverse da noi. Si è chiesto all’intervistato se condivideva una serie di giudizi negativi su tre gruppi di immigrati (in Francia due) e sugli ebrei.8 Il grado d’accordo su questo o quello stereotipo variava sia in Francia sia in Italia a seconda dell’identità dell’immigrato e anche a seconda della negatività dello stereotipo. Abbiamo considerato vittima di pregiudizi etnici coloro che concordavano su tutti gli stereotipi indifferentemente da chi fosse il bersaglio. Come hanno dimostrato Sniderman e colleghi (2000), in molte occasioni chi è influenzato da pregiudizi etnici tende a generalizzare l’uso di stereotipi per descrivere tutti quelli che ritiene diversi da sé. La conferma di ciò è stata che la propensione a esprimere giudizi stereotipizzati sugli immigrati era associata anche all’espressione di pregiudizi verso gli ebrei. Anche in questo caso, per semplificare l’analisi si è creato un indice osservando per ogni individuo la media tra tutte le risposte agli stimoli riguardanti i gruppi d’immigrati e gli ebrei.9 Si sono inoltre distinti due gruppi a seconda che la loro propensione a stereotipizzare fosse sotto il 25° e sopra il 75° percentile della distribuzione. Coloro che hanno una spiccata probabilità ad avere pregiudizi verso gli immigrati sono il 16% del campione in Francia e il 33% in Italia.
Si noti inoltre che, in Italia, sia la tendenza ad avere pregiudizi etnici che quella a immaginarsi la nazione in senso etno-culturale è solo marginalmente un po’ più diffusa a destra. Il che vuole dire che anche tra gli elettori che si collocano sinistra ce ne sono non pochi vittime di pregiudizi etnici e che attribuiscono all’identità nazionale un significato spiccatamente etno-culturale.
La figura 7 mostra che in entrambi i paesi – ma più in Francia – la disponibilità ad accogliere l’immigrato varia tra chi non si rappresenta in senso etno-culturale la propria identità nazionale (intervistati con un valore dell’indice inferiore o uguale al 25° percentile) e chi invece se la rappresenta in modo spiccato (coloro con un valore superiore o uguale al 75° percentile). Lo stesso accade tra chi non è vittima di pregiudizi etnici e chi lo è. Ma in che senso sia le identità etno-culturali sia il pregiudizio etnico, antecedente cognitivo del razzismo, definiscono dei confini tra noi e gli stranieri così invalicabili da rendere impossibile l’integrazione?
Per rispondere a questa domanda i ricercatori si sono avvalsi di un disegno sperimentale inserito nella stessa indagine. Dal campione complessivo sono stati estratti casualmente quattro sotto-campioni di intervistati. A ognuno di questi è stata raccontata un’unica storia che variava a seconda dell’identità dell’immigrato (marocchino o romeno) e a seconda della volontà d’integrazione dell’immigrato. In uno scenario, l’immigrato vuole integrarsi imparando la lingua, adottando le consuetudini del paese ospitante, e scegliendo di vivere in un contesto non fatto solo di suoi connazionali. In un altro scenario, l’immigrato non era interessato a imparare la lingua e ad adottare le abitudini locali, e preferiva vivere in quartieri popolati da cittadini del suo paese d’origine. Alla fine a tutti gli intervistati, indifferentemente da chi era l’immigrato di cui si parlava e dalla sua volontà d’integrarsi o meno, veniva chiesto se riteneva fosse possibile accogliere un immigrato con i profili descritti. I risultati hanno mostrato che le identità degli immigrati non facevano alcuna differenza. Mentre la faceva se l’immigrato veniva descritto disponibile o meno a integrarsi.
Come si vede dal pannello in alto della figura 8, la disponibilità ad accogliere aumenta sia in Italia che in Francia quando l’immigrato viene descritto animato dalla volontà d’integrarsi. L’effetto è sensibile. Il che indica che per un certo numero di italiani e francesi l’immigrato non è accettato incondizionatamente. Deve dimostrare di volersi integrare. Ma se lo fa può diventare simile a noi. Ovviamente lo studio non approfondisce quanto del bagaglio culturale italiano deve accettare per essere accolto. Dimostra solo che l’integrazione è possibile ad alcune condizioni.
I due pannelli inferiori della figura 8 e della figura 9 raccontano invece una storia molto diversa. Sia in Italia che in Francia le persone che si rappresentano in modo spiccato la propria identità in senso etno-culturale non sono disponibili ad accogliere l’immigrato anche se egli viene descritto come una persona che vuole integrarsi. Lo stesso accade per quelli che tendono ad avere pregiudizi etnici. Per esempio, tra gli intervistati con una bassa tendenza a stereotipizzare, la propensione all’accoglienza passa dal 45% quando l’immigrato è disposto a integrarsi al 27% quando non è disposto a integrarsi. Al contrario, tra coloro con un’alta tendenza a stereotipizzare questo valore va da 26% a 13%.
In altre parole, per coloro che hanno un’alta tendenza a stereotipizzare, la propensione all’accoglienza quando l’immigrato vuole integrarsi è inferiore di quella che hanno gli intervistati con bassa tendenza a stereotipare quando l’immigrato non vuole integrarsi. Lo stesso accade per chi ha una forte identità etno-culturale: qui i valori calano da 46% a 24%, a seconda che l’immigrato voglia integrarsi o meno, per coloro che hanno un’identità etno-culturale debole, e da 27% a 19% per coloro che hanno un’identità etno-culturale forte. Persone con tali atteggiamenti, così come coloro che tendono a stereotipizzare, immaginano che tra loro e gli stranieri ci sia una distanza così grande da non poter essere colmata, qualunque cosa questi ultimi possano fare.
Le posizioni di queste persone riflettono dunque una visione esclusivista del loro gruppo. Forse quando dicono che gli immigrati sono troppi, in realtà intendono dire che non ne vogliono proprio nessuno. Viceversa, molti di coloro che stereotipizzano poco o non hanno un’immagine etno-culturale della propria identità nazionale sono disponibili ad accettare l’altro se dimostra di volersi integrare. Costoro hanno una visione assimilativa. Entrambe le visioni, lo ripetiamo, condividono l’assunto che ci sono confini tra noi e loro, e gli immigrati sono ospiti. Ma differiscono quanto al grado di permeabilità dei confini.
Va da sé che ci sono anche italiani la cui disponibilità ad accogliere gli immigrati appariva nel 2009 incondizionata. Diciamo appariva perché bisognerebbe sapere più di preciso se tale disponibilità fosse incondizionata in modo assoluto o fosse in realtà condizionata.
Effetto sfiducia
La prevalenza di una visione esclusivista, di chiusura o di una visione assimilazionista, di integrazione, prende avvio da due visioni opposte del paese, del suo ruolo internazionale, del suo futuro e del suo passato, in termini di valori e di sviluppo.
La seconda prospettiva mette capo a modelli diversi, quantitativi e qualitativi. Quanto grande debba essere, ad esempio, il bagaglio culturale che chiediamo agli immigrati di condividere, anche quando potessero diventare più agevolmente cittadini, dipende in ultima analisi dal tono e dai contenuti del dibattito pubblico e della visione politica che si ha del paese.
L’analisi della situazione può solo limitarsi a osservare che confondere queste visioni significa equiparare paure, richieste più o meno fondate di sicurezza e domande di accoglienza condizionata a forme di razzismo e a modi di intendere la nostra identità nazionale in forma negativa, in nome dei quali non c’è posto alcuno per alcun immigrato, qualsiasi cosa voglia fare per integrarsi. Questa confusione di piani e di sentimenti, quello politico e la percezione della vita reale dei cittadini, rischia di consegnare al fronte del rifiuto la maggioranza della popolazione. Il che, oltre a non essere un contributo all’urgente discussione su quale integrazione vogliamo e possiamo realizzare, si configura come un regalo a chi consapevolmente o inconsapevolmente aspira a una nazione culturalmente e religiosamente «omogenea», e magari anche «etnicamente pura».
L’immigrazione per moltissimi italiani rappresenta oggi un problema più che un’opportunità. Non sono i soli in Europa a pensarla in questo modo, ovviamente. Ma nel 2017 in Italia questa opinione era molto più diffusa che negli altri paesi europei. Ci superavano solo alcuni paesi, nonostante che in Italia il numero di immigrati residenti legali dai paesi extra-UE e il numero di irregolari non sia maggiore di quello presente in altri paesi né il loro numero sia cresciuto in misura esponenziale dal 2008 al 2018. Dopo di che occorre stabilire in che senso l’immigrazione è un problema. Le risposte che questo rapporto è in grado di dare sono in sostanza di tre tipi.
La diffusione, in un paese, dell’opinione che l’immigrazione sia un problema più che un’opportunità non appare correlata né con il suo stato dell’economia, né con l’accuratezza della conoscenza del fenomeno da parte della sua opinione pubblica. Appare invece associata in modo significativo con la percezione di quanto estesa sia nel proprio paese la corruzione. Un giudizio, questo, che poco ha a che vedere con il tasso di corruzione vero, ma che ha invece molto a che vedere con la fiducia verso il proprio paese. Vi è qui un giudizio circa la fragilità delle nostre istituzioni e la sfiducia che il fenomeno migratorio possa essere governato.
Non è solo questione di informazione, che certamente ha alzato il livello di allarme. La concentrazione spazio-temporale, la percezione in alcune aree del paese stesso delle conseguenze negative del fenomeno ne hanno certamente radicalizzato la percezione. Se questo risultato venisse confermato da ulteriori analisi si potrebbe pensare che l’immigrazione rappresenta un problema perché si ha poca fiducia che le proprie istituzioni siano in grado di affrontare problemi complessi, quali quelli posti dall’immigrazione. È piuttosto facile passare dalla percezione che un fenomeno non sia stato adeguatamente governato al giudizio che quel fenomeno non sia governabile. Il difetto di fiducia nelle proprie istituzioni non è solo degli italiani, ma da noi il fenomeno è storicamente più rilevante e sin qui irrisolto.
La preferenza degli italiani, fin dagli anni Novanta, rimane favorevole all’accoglienza di un numero ridotto di migranti. Difficile dire quanto questa disposizione si sia ultimamente radicalizzata negativamente, facendone il criterio centrale di valutazione delle sue scelte politiche. Sospettiamo che per una minoranza questo sia effettivamente avvenuto negli ultimissimi anni. L’analisi delle motivazioni di questa preferenza per meno immigrati mostra che indipendentemente dalla loro natura esse variano per il livello di istruzione (i meno istruiti si sentono più minacciati dei più istruiti), secondo l’ideologia politica (meno minacciati quelli di sinistra di quelli di destra). Variano anche per la pratica religiosa, ma in questo caso le variazioni sono minori di quelle introdotte dagli altri due fattori.
Il confronto tra il 2001 e il 2018 mostra una crescita della polarizzazione ideologica e una stabilità degli effetti dell’istruzione. Esaminando più in dettaglio come gli effetti dell’istruzione si combinino con quelli dell’ideologia e della pratica religiosa, è emerso che sia nel 2001 che nel 2018 i meno istruiti di sinistra si sentono sensibilmente più minacciati dagli immigrati dei più istruiti con lo stesso orientamento. Mentre questa differenza, pur presente anche a destra, si manifesta in dimensioni ridotte. Il che fa pensare che la sinistra, sul tema dell’immigrazione, sia più vulnerabile, giacché la parte meno istruita dell’elettorato dei suoi soggetti politici si trova a essere meno distante dalle posizioni di quelli di destra. Si noti che questo effetto era presente ancor più nel 2001. Una minor distanza o maggiore vicinanza che possiamo immaginare elettoralmente aggregabile.
Per quanto riguarda gli orientamenti religiosi non emerge un fenomeno analogo a quello politico-ideologico, anche se è chiaro che i praticanti saltuari e quelli regolari si sentono più minacciati dagli immigrati di chi non va mai in chiesa.
Preferire pochi immigrati è compatibile con atteggiamenti diversi verso gli immigrati stessi. Meglio pochi perché gli immigrati non sono integrabili in nessun modo. Ma anche, meglio pochi perché va valutata bene la loro volontà di integrarsi. Grazie a un’indagine del 2009 condotta in Italia e in Francia è emerso che solo tra chi si rappresenta la propria identità nazionale in senso etno-culturale e la minoranza che manifesta spiccati pregiudizi verso gli immigrati la disponibilità ad accogliere gli immigrati cala anche quando l’immigrato sembra voglia integrarsi. Per gli altri l’accoglienza è condizionata dalla disponibilità dell’immigrato a integrarsi. Gli atteggiamenti xenofobi sono dunque diffusi in una minoranza di italiani. Ma la maggioranza degli italiani non è per un’accoglienza incondizionata.
Paolo Segatti
Federico Vegetti
1 L’indagine EB 1988 ha chiesto agli italiani quali fossero i loro sentimenti di fronte al numero d’immigrati di nazionalità diversa da quella dei paesi europei. L’intervistato poteva scegliere se gli immigrati erano troppi, molti ma non troppi, o pochi. Nelle indagini EB del 1991, 1997 e 2000 veniva chiesto se parlando in generale delle minoranze in termini di nazionalità, razza o cultura ce n’erano troppe, molte ma non troppe, o poche. Nelle indagini ITANES, invece, l’intervistato poteva scegliere un valore da 1 (gli immigrati sono troppi) a 7 (possiamo accoglierne ancora). Per armonizzare i dati ITANES con quelli dell’EB si è calcolato quanti intervistati hanno scelto un valore pari o inferiore al valore mediano della distribuzione (un valore che nelle indagini ITANES varia da 2 a 3).
2 Nei due sondaggi, questo atteggiamento è stato misurato chiedendo agli intervistati il loro grado di accordo con l’affermazione «Gli immigrati sono dannosi per la cultura italiana» nel 2018 e «Gli immigrati sono un pericolo per la nostra cultura e per la nostra identità» nel 2001. Il grafico mostra la percentuale di intervistati che hanno risposto «Molto d’accordo» o «Abbastanza d’accordo» nei due anni.
3 Notare tuttavia che il formato della domanda non è identico tra i due anni. Nel 2001, il testo di stimolo è «Gli immigrati costituiscono una minaccia per l’occupazione», mentre nel 2018 è «Gli immigrati sono un bene per l’economia italiana». C’è dunque una differenza sia di contenuto (nel 2001 la domanda riguarda un aspetto molto più specifico dell’economia che nel 2018) che di direzione dello stimolo (nel 2001 lo stimolo è negativo e nel 2018 positivo).
4 I testi di stimolo delle domande sono «Gli immigrati aumentano la criminalità in Italia» nel 2018 e «Gli immigrati costituiscono una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone» nel 2001.
5 Lo studio era diretto da Richard Hermann (Ohio State University), Pierangelo Isernia (Università di Siena) e Paolo Segatti (Università degli studi di Miano).
6 Il testo della domanda in Italia è «Per essere dei veri italiani, secondo lei quanto è importante...». I quattro stimoli sono «parlare italiano», «essere cattolico», «condividere le tradizioni culturali degli italiani» ed «essere nato da almeno un genitore italiano». Gli intervistati potevano rispondere utilizzando una scala a quattro punti che va da «Per niente importante» a «Molto importante».
7 Osservando l’«Alfa» di Cronbach, un noto indicatore di attendibilità degli indici statistici, le quattro variabili risultano ben coerenti tra di loro (0.75 in Italia, 0.74 in Francia).
8 Le tre nazionalità per cui si è misurato il livello di pregiudizio sono cinese, marocchina e romena in Italia, mentre solo cinesi e romeni in Francia. Le domande erano formulate chiedendo agli intervistati il grado di accordo con le seguenti affermazioni: «Ci si può fidare dei [nazionalità]», «I [nazionalità] sono egoisti», «I [nazionalità] sono invadenti», e «I [nazionalità] non rispettano la legge». Per osservare gli stereotipi sugli ebrei abbiamo utilizzato i seguenti stimoli: «Gli ebrei hanno più potere degli altri» e «Gli ebrei non si curano di chi non è ebreo».
9 L’«Alfa» di Cronbach per l’indice composto con i quattro indicatori di pregiudizi contro il gruppo immigrato e i due indicatori di pregiudizi contro gli ebrei è 0.79 in Italia e 0.71 in Francia, valori che suggeriscono che l’indice ha una buona attendibilità.
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