M. Tarchi
Nei cinquantacinque anni di storia dell’Italia repubblicana, il populismo ha lasciato tracce visibili e profonde soprattutto nello stile politico. Non sono mancate le espressioni direttamente politiche presentatesi sotto forma di movimento sociale (si pensi all’Uomo qualunque e alla Lega nord), ma è nella cultura politica e nella cultura dei comportamenti che ha esercitato la propria costante influenza.
Nel proporre questo studio oggi, alla fine di un decennio di trasformazioni politiche incompiute, vogliamo anche offrire l’occasione di un bilancio peculiare, non generale, degli anni novanta su un tema che li ha attraversati quegli anni e che non ci abbandonerà facilmente.
Nel processo di ristrutturazione delle regole istituzionali per giungere a una democrazia di tipo competitivo e governante, più soggetti, di entrambi gli schieramenti, in più passaggi decisivi hanno fatto ricorso alle categorie e al linguaggio populista. Talvolta invocando la mancata corrispondenza tra stato e volontà popolare, talaltra trasformando la critica ai partiti in retorica antipartitocratica, o la richiesta di legalità in linguaggio giustizialista, fino a contrapporre consenso a legittimità, e a invocare la sovranità della pubblica opinione. Se oggi, di fronte al parziale fallimento delle innovazioni istituzionali, il populismo diviene un codice (e forse il principale) comunicativo costante e generalizzato, una parte delle responsabilità va anche attribuita a chi avrebbe dovuto riformare le regole e adeguare il proprio comportamento politico e ha altresì preferito usare le regole contro la volontà manifestata dagli elettori. Da questo punto di vista il populismo rischia di essere l’esito di una cattiva e sconfitta conservazione.
Studio del mese, 15/03/2001, pag. 196