Una «cosa sono i ministeri o uffici ecclesiali (come il presbiterato o l’episcopato), che la Chiesa contingentemente affida ad alcuni fedeli, mediante il sacramento dell’ordine (imponendo loro le mani), e altra cosa è il sacerdozio, che il Nuovo Testamento riconosce proprio esclusivamente di Gesù risorto, al quale l’insieme dei cristiani (uomini e donne) partecipa per il sacramento del battesimo, senza alcun bisogno di facoltà particolari». Può essere considerato questo il perno della riflessione che qui proponiamo: una rilettura, condotta in libertà, con brillantezza e qualche esplicita annotazione umoristica, della Lettera agli Ebrei, in particolare per considerare criticamente, entro un più ampio ragionamento sul ministero, l’«esclusione programmatica delle donne dal sacerdozio e dalla celebrazione di alcuni segni sacramentali ecclesiali (cresima, eucaristia, remissione dei peccati, unzione degli infermi)». L’autore annota in apertura che si tratta di «riflessioni personali su alcune riforme di dottrina e di linguaggio che mi sembrano scaturire da un’ingenua, ma attenta, lettura del Nuovo Testamento, che rimetto tuttavia interamente al giudizio e all’insegnamento autoritativo della Chiesa, mia madre»; ma è difficile non rilevare, proprio in riferimento alla donna nella Chiesa, la forza delle conclusioni: non c’è altra ordinazione sacerdotale; le donne sono già sacerdoti.
L’11 gennaio è stata resa pubblica dal card. Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa e presidente del Simposio delle conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (SCEAM), una «sintesi delle risposte delle conferenze episcopali africane alla dichiarazione Fiducia supplicans», intitolata Nessuna benedizione per le coppie omosessuali nelle Chiese africane (cf. anche Regno-att. 2,2024,7). La proponiamo in una nostra traduzione dall’inglese (www.cbcgha.org).
Negli ultimi giorni prima che si concludesse il processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato e la compravendita del palazzo di Londra, la domanda ricorrente e inevitabile, a chi nell’arco di quasi due anni e mezzo e oltre 80 udienze aveva potuto seguire il dibattimento in aula, era: «Come finirà?».
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