Laudata si’
A tre anni dall’enciclica di Francesco sulla cura della casa comune: le donne pagano il prezzo più alto per i cambiamenti climatici, ma sono anche le principali artefici di un’inversione di tendenza.
Conoscete “Gaia”? O forse avete sentito parlare di “Pacha Mama”?
È il nome che alcuni popoli usano per indicare la Terra: madre o sorella, porta in sé un tocco femminile. A lei, creazione di cui noi siamo parte, papa Francesco ha dedicato tante pagine della sua enciclica Laudato si’. Il 24 maggio ricorrono tre anni da quell’accorato appello a difesa della Terra, che nel testo è nominata ben 77 volte. Rara, invece, è la menzione della donna: l’uomo viene citato quasi duecento volte, la donna appena tre.
Terra e migrazioni
A parte il linguaggio poco inclusivo, l’enciclica è stata e rimane di grande valore. Ci sembra opportuno ridarle voce oggi perché, nei mesi che accompagnano la stesura del “Patto globale per migrazioni sicure, ordinate e regolari”, ha avuto la perspicacia di divulgare il nesso fra cambiamento climatico e migrazioni.
Al n. 25 il papa così si esprime: «I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità… È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa».
Il nesso fra sofferenza della Terra e migrazioni umane ha una sottolineatura di genere.
Profughe da terre difficili
A cominciare dagli anni Settanta, quando si parlava poco di clima a rischio, un certo Norman Myers raccoglieva dati su desertificazione e alterazioni climatiche. Nel 1995 pubblicava Esodo ambientale: popoli in fuga da terre difficili, dove precisava che nel 1994 erano stati censiti almeno 25 milioni di profughi ambientali, dei quali «probabilmente la metà nell’Africa subsahariana», in prevalenza donne, bambini e bambine. In Asia era in grave sofferenza il Bangladesh, da cui partivano cospicue ondate migratorie.
Una siccità insidiosa e progressiva, che non urla come un uragano o uno tsunami, non attira l’attenzione dei media e le sue vittime solitamente sfuggono alle statistiche dei disastri naturali.
Comunque da allora i migranti ambientali sono più che raddoppiati, perché spostarsi è diventata una delle principali modalità di adattamento alle alterazioni climatiche: in passato davano tempo alla popolazione di raggiungere un nuovo equilibrio nel proprio habitat, ma negli ultimi 150 anni il loro ritmo è divenuto talmente vorticoso da imporre la fuga a milioni di persone.
Il Lago Ciad, nell’Africa Subsahariana, si è ridotto a una pozzanghera, e in Asia l’immenso Lago Aral, chiamato un tempo “mare” per la sua vastità, è quasi scomparso.
Vittime, ma non solo
In Africa, nelle aree rurali, le ragazze sono le più colpite dagli effetti della siccità: ogni giorno raggiungono a piedi fiumi e pozzi per provvedere acqua alla famiglia. Marirosa Iannelli, del progetto Watergrabbing, ne evidenzia le conseguenze: basso rendimento scolastico e precoce abbandono degli studi.
Anche il fabbisogno di cibo è soddisfatto in prevalenza dalle donne e a certe latitudini, in società marcatamente patriarcali, il clima impazzito erode anzitutto la loro sicurezza e salute. Quando la terra fertile o la sorgente si allontanano dal villaggio, essere aggredite e violentate per strada diventa un rischio maggiore.
Eppure le donne sono le principali artefici di un’inversione di tendenza, perché curano la Terra in modo encomiabile. Grammenos Mastrojeni, precursore in Italia del legame fra squilibrio ambientale e instabilità sociale, le loda senza riserve e riconosce che i programmi internazionali di recupero del suolo fanno principalmente affidamento sulle donne. La difesa delle mangrovie, dall’Asia, all’Africa, alle Americhe, ne coinvolge migliaia, anche attraverso programmi di microcredito, e molte altre partecipano attivamente a contrastare la desertificazione nei Paesi tropicali dell’Africa.
Con più voce in capitolo
Per mitigare gli effetti del cambiamento climatico la storica Conferenza internazionale sul cambiamento climatico, svoltasi a Parigi nel 2015 e nota come Cop21, prospetta investimenti per mettere in sicurezza il suolo e garantire alle popolazioni più minacciate di rimanere sulle proprie terre.
Spesso alle donne viene affidata la fase operativa di interventi pensati e proposti ad altri livelli, ma dal novembre 2017 qualcosa sta cambiando. La Women and Gender Constituency, che dal 2009 esprime a livello internazionale la voce di donne di vari Paesi, ha promosso il Piano d’Azione per l’inclusione di Genere. Approvato lo scorso novembre durante la Cop23, il piano garantisce la presenza delle donne nella Convenzione ONU sul cambiamento climatico (Unfccc) e ai tavoli di lavoro che a livello locale propongono e gestiscono gli interventi di adattamento.
Chissà se, grazie alla solerte cura delle donne, “Gaia” non possa riprendersi dal grave malessere che l’umanità inquinante le ha inflitto. E allora milioni di profughi e profughe ambientali, che oggi «portano il peso della propria vita senza alcuna tutela», potranno tirare un sospiro di sollievo e tornare a gustare i frutti della propria Terra.