«Come io vi ho amato». Meno, non basta più
La pandemia ci toglie le parole, fa saltare i criteri con cui di solito parliamo del mondo e infrange l’illusione di avere la realtà sotto controllo. A noi, che siamo così vulnerabili, resta però la possibilità di essere responsabili della speranza e di ricominciare, personalmente e politicamente, dal comandamento dell’amore.
Sono un professore, lavoro con le parole. So come si può riempire di parole ogni spazio e ogni tempo, come si cattura l’attenzione di un uditorio con una parola divertente o con una commovente, come cavarsela elegantemente quando non si hanno le risposte a tutte le domande. L’ho imparato: sono i segreti del mestiere.
Eppure ora non ho più parole. Perché le parole di cui disponevo non bastano a dire ciò a cui sto assistendo e che stiamo vivendo: non mi bastano e anzi mi disturbano. Vorrei scappare da tutto questo e non so dove andare, perché siamo tutti sulla stessa barca: il vicino della porta accanto e il lontano che abita nell’altro emisfero.
L’unica parola che mi è rimasta è “perché”. Perché tutto questo? Perché in queste proporzioni? A questa domanda non ho risposta, e questa volta non riesco a cavarmela elegantemente.
A chi chiedere conto?
Ai miei studenti spiego che un’azione non è un semplice fatto, perché suppone un agente libero e responsabile: qualcuno a cui potrò chiedere conto del suo agire, potrò chiedere di giustificarlo, di renderlo giusto ai miei occhi.
Ma oggi non c’è nessuno a cui possiamo chiedere conto di quanto ci accade. Tutti i tentativi di trovare un responsabile – qualcuno che possa rispondere di ciò che ci sta accadendo – appaiono vani. Il virus non è neppure un essere vivente. Uccide e distrugge senza neanche la motivazione – discutibile ma comprensibile – di dover assicurare la propria sussistenza: mors tua vita mea.
Ci abbiamo provato a cercare dei responsabili: l’inquinamento, certe presunte pratiche zootecniche, le menzogne governative cinesi, la disorganizzazione del nostro Paese, i tagli alla sanità, fino ad arrivare ai runner. A un certo punto sembravano loro – i runner – le cause della catastrofe: se tu corri mentre la gente muore devi essere tu il colpevole. Lo confesso: fino a che è stato possibile, ero uno di loro. Correvo per vivere e lo facevo senza mettere a rischio la vita di nessuno: so dunque che non è lì che va cercato il responsabile. Ci siamo incattiviti gli uni contro gli altri nella disperata ricerca di un responsabile: troviamolo e il problema sarà risolto.
Il dramma è questo: il responsabile questa volta non c’è, non c’è chi possa rispondere di tutto questo. Alcune scelte – sbagliate o tardive – possono aver aggravato la situazione o non limitato sufficientemente i danni, ma un vero responsabile a cui chiedere conto di tutta questa morte e distruzione non c’è. E in assenza di risposte anche le parole vengono meno. Eppure abbiamo bisogno di parole almeno quanto abbiamo bisogno di quell’aria che il virus toglie a coloro che colpisce.
Non è vero che “andrà tutto bene”
La cura questa volta avrà inevitabilmente effetti collaterali pesantissimi: stiamo salvando vite mettendone a rischio altre. La scelta tra pandemia e carestia è un dilemma indecidibile, come lo è ogni scelta tra chi vive e chi muore. Al momento vige il principio di concentrarsi sul pericolo maggiormente imminente, ma non è un argomento che sarà valido ancora a lungo: presto la fame e la solitudine potrebbero uccidere quanto il virus. Non sappiamo che cosa dire: tutto appare incerto.
Tutto andrà bene, ci siamo ripetuti come un mantra. Ma ora sappiamo che non tutto andrà bene, perlomeno non per tutti. Il costo umano di questa vicenda sarà altissimo per molti, ma per alcuni ancora di più. Anche qui è venuta meno la parola a cui ci eravamo aggrappati – “tutto andrà bene” – portata via da una colonna di camion militari carichi di bare.
Che cosa potrà restituirci la parola in questo vuoto di risposte? In questa condizione in cui ci sembra che qualsiasi cosa facciamo la sbagliamo o comunque non sarà risolutiva? In questa strage continua di illusioni per cui ogni giorno è sempre più evidente che non tutto, alla fine, sarà andato bene?
La speranza di cui siamo responsabili
Oggi più che mai ci appare chiaro che la speranza non è una passione e neppure un sentimento. È l’esito di una decisione: di una scelta. Oggi possiamo scegliere la speranza. Rispetto a ciò che stiamo vivendo siamo più vulnerabili che responsabili: ci sono più cose fuori dal nostro controllo che in nostro controllo. E tuttavia di una cosa siamo responsabili: della nostra speranza.
La speranza non è l’illusione che il male non ci colpirà: l’illusione di non essere vulnerabili. È la fiducia nel fatto che questo immenso non senso può avere un senso: potremo tornare ad avere parole. Ma di questo senso e di queste parole saremo noi i responsabili.
Tutto questo avrà un senso se non manderemo sprecato il tempo, estremo, dell’isolamento e della quarantena.
Avrà senso se lo impiegheremo per lavorare su di noi, ora che le condizioni ci impongono di fare i conti con la realtà di noi stessi senza nessun filtro sociale: la manager, l’operaia, il bidello e il modello sono egualmente soli davanti a sé stessi.
Avrà senso se lo impiegheremo per lavorare sulle nostre relazioni umane, ora che quelle sociali si sono diradate.
Avrà senso se, ciascuno per quello che può, contribuiremo a sognare e progettare un mondo diverso: una politica diversa, un’economia diversa, un’Europa diversa, finanche un’etica diversa.
Un’etica che dovrà essere all’altezza di quegli esseri insuperabilmente vulnerabili e responsabili che il virus ci ha fatto riscoprire di essere. Un’etica per esseri che non hanno tutto in loro controllo, ma che quello che di buono possono fare, lo devono fare: ben oltre ciò che i diritti di un terzo o i dettami di una norma possono esigere.
Quello che fino a ieri consideravamo supererogatorio – buono ma non esigibile – è oggi diventato ai nostri occhi dovere quotidiano: risposta necessaria all’appello dei più vulnerabili e condizione stessa per vivere da umani. Il comandamento dell’amore – il supererogatorio per eccellenza: ciò che nessuno può esigere da te – da sempre considerato valido solo per i credenti, si è oggi imposto quale centro vivo dell’etica: sine amore non possumus.
Il lieto fine non sarà forse quello che ci eravamo immaginati mentre ci ripetevamo che tutto andrà bene: siamo vulnerabili. Ma un altro lieto fine è ancora possibile ed è nelle nostre possibilità: di questo siamo responsabili.