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Il Regno delle Donne

25 novembre - Vittime di chi si crede dio

Le multiformi violenze contro le donne perpetrate in istituti religiosi, movimenti e“nuove comunità” vengono coperte e minimizzate da silenzi colpevoli e narrazioni distorte. Si radicano in un modello di autorità che non si può più accettare, e che non potrà veramente cambiare senza il contributo attivo di chi ne ha sperimentato il devastante potere.

 

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne fu istituzionalizzata dall’ONU nel 1999 in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise barbaramente il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana. 

Da allora, il tema della violenza sulle donne è stato affrontato in più sedi e da diverse angolature. Se ne parla soprattutto quando le testate giornalistiche riportano qualche femminicidio la cui efferatezza sembra più sconcertante del precedente. Se ne parla, ma non a sufficienza, soprattutto se pensiamo che la parola è uno dei pochi strumenti che le donne hanno per fronteggiare la violenza di cui sono vittime, per dare voce al loro dolore.

La retorica delle mele marce

Ciò è tanto più vero in ambienti ecclesiali che penseremmo esenti da tale piaga. Parlo delle comunità religiose, dei monasteri, degli ambiti di volontariato e di pastorale parrocchiale dove molte donne spendono, a diverso titolo, la loro vita. Abbiamo assistito in questi ultimi decenni alla caduta degli «dei», di fondatori e fondatrici di movimenti o di cosiddette «nuove comunità» che hanno rivelato un lato oscuro e inquietante: l’abuso di molti membri, soprattutto donne, in quella gamma sconcertante che va dall’abuso spirituale, di coscienza, lavorativo e patrimoniale fino a giungere all’abuso fisico e sessuale.

Questo cancro dai mille tentacoli affonda le sue radici in un uso del potere che si spaccia come «servizio» ed è percepito, almeno all’inizio, come sacro, rassicurante e affidabile. Non si tratta di mele marce, né di casi attribuibili al narcisista di turno o allo psicopata affetto da sindrome di personalità multiple, bensì di un sistema ben oliato di gestione sacrale e maschilista dell’autorità che ha reso possibile il dilagare di questo male e ha continuato a coprirlo attraverso strategie ben assodate. Di queste, il silenzio è lo strumento più efficace e aggressivo.

La strategia del silenzio

Non è certamente il silenzio che nasce dalla profondità delle relazioni, espressione della massima intimità, bensì il suo contrario. Si vedano le recenti pubblicazioni, articoli e conferenze che lo hanno messo a fuoco con particolare oculatezza. Tacciono le istituzioni quando non danno risposte chiare ed efficaci per fare fronte agli abusi o quando non sono disposte a mettere in discussione l’impianto teologico, canonico ed ecclesiale funzionale al potere abusante; tacciono i vescovi e i superiori/re quando sono a conoscenza di abusi o di altre sopraffazioni commesse da membri delle loro comunità a scapito delle donne; tacciono gli abusatori/trici che si proclamano vittime di ingiusti attacchi persecutori nei loro confronti. Il successo che molti di loro hanno raggiunto attirando a sé innumerevoli persone è lo scudo ideale per permettersi qualsiasi trasgressione e sentirsi assolti da ogni colpa. 

L’inganno della «vulnerabilità»

Tacciono molte vittime: perché gli abusi non sono solo quelli avvenuti «allora», lo sono anche le conseguenze che continuano a pesare nel presente. Il solo fatto che varie commissioni e studi organizzati in questi ultimi tempi abbiano come fine la tutela dei minori – di cui non ci occupiamo in questa sede – e degli adulti «in situazioni di vulnerabilità», testimonia, spero in buona fede, l’ambiguità e la sottile violenza nascosta nella parola «vulnerabilità».

È vero: ci sono stati abusi compiuti su persone con handicap fisici e psichici rilevanti; tuttavia, quando questo attributo di vulnerabilità viene esteso in generale alle donne e specialmente alle consacrate che hanno sofferto un abuso, lo stiamo in altro modo perpetuando. Quasi a dire che lui, l’abusatore non è vulnerabile e che poi «approfitta» di donne che, per ragioni di cultura, di condizione psicologica o altro, sono invece «vulnerabili». Detto in parole povere: se non fossero state così, non avrebbero mai permesso l’abuso. Chi ha conosciuto donne consacrate vittime di abusi non si è trovato di fronte persone poco istruite, ingenue, seduttrici o psichicamente deboli, bensì donne che in nome di un alto ideale di radicalità evangelica avevano creduto di consegnare tutta la loro vita al Signore attraverso la mediazione di diverse autorità, da quelle del fondatore/trice, della superiora/e, del confessore o direttore spirituale, i quali hanno preteso, in un determinato momento, di fare le veci di Dio. Le «eresie» non sono pericolose per la parte di menzogna che contengono ma per ciò che esibiscono di vero.

Il potere abusante si nasconde spesso dietro la maschera di «santi in vita» la cui «spiritualità unica» parrebbe incarnare lo Spirito medesimo. Ed è, tra tanti altri, l’aspetto più subodolo e persuasivo poiché veste gli abiti della «radicalità» e della «novità che salva la Chiesa» facendo leva, da una posizione di dominio, sul sacrosanto desiderio di chi persegue aspirazioni così grandi.

Il nodo dell’autorità

Se non si ridefinisce il senso e lo scopo di ogni autorità dentro alla Chiesa e dell’obbedienza che le è dovuta, qualsiasi azione susseguente, sebbene animata da buoni propositi di prevenzione e tutela, è destinata a fallire e a rendere la violenza sulle donne ancora più insidiosa. Tale ridefinizione non può essere fatta da chi in modi diversi ha permesso il dilagare degli abusi. È essenziale l’apporto delle donne e delle vittime. Esse non sono le destinatarie dell’azione della Chiesa, esse sono la Chiesa. Grazie a loro è auspicabile che la Chiesa tutta abbia l’estrema onestà di guardare in faccia la propria vulnerabilità e intraprenda una profonda conversione alla luce dell’evangelo.

 

Commenti

  • 02/12/2023 sandyc.nda

    Grazie infinite alla sorella per le parole chiare e vere... Che ci chiedono uno sforzo generoso e non posticipabile di collaborazione per un'educazione globale dei giovani, e dell'uomo in generale, come dei futuri sacerdoti... Ma i luoghi d'educazione non sono solo le scuole, e seminari,.. Quanto danno stanno continuando a fare i media, con i film violenti, i videogiochi violenti ecc... I discorsi politici e in televisione aggressivi, linguaggi ricchi di parole povere.... Uomini e donne di fede, cristiani innanzitutto e delle altre religioni ora viventi con noi, siamo tutti e tutte responsabili e il Signore Dio misericordioso ci chiede conto :"o uomo, o donna, dove è tuo fratello, tua sorella?. Solo se il mio" grembo-cuore" si preoccupa per ogni altro, perché fratello è sorella, allora divento testimone di questo Dio amore incarnato in Gesù Cristo, che si è fatto vicino, facendosi veramente umano.... Mentre noi purtroppo spesso non facciamo che disumanizzarci!

  • 29/11/2023 Federica Spinozzi

    Grazie! Grazie per la profondità dello scritto e la lucidità dei pensieri. Il silenzio omertoso diffuso e "sacralizzato" continua a insinuarsi nella Chiesa maschilista e gerarchica dove domina l'abuso il potere. Possiamo sperare in un rinnovamento guidato da preti, vescovi, religiosi, i quali, anche con le migliori intenzioni, inconsciamente si sentono "giudicati"? Se gli istituti religiosi, le comunità monastiche sono talvolta realtà abusanti, non sarà giunto il tempo di ripensare la natura degli stessi? In nome della Tradizione cristiana quanti "morti" dobbiamo ancora sacrificare?

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