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Attualità
Attualità, 10/2021, 15/05/2021, pag. 273

Italia - DDL Zan: a suon di legge confusa

L’uso simbolico del diritto penale e l’accettazione sociale

Emanuele Rossi

Il disegno di legge Zan (così chiamato per il nome del relatore alla Camera, on. Alessandro Zan, del Partito democratico, d’ora in avanti DDL Zan) è stato approvato dalla Camera il 4 novembre 2020. Attualmente è all’esame del Senato, e dal 5 novembre è fermo in Commissione, dove non è ancora iniziato l’esame (DDL S-2005).

 

Il disegno di legge Zan (così chiamato per il nome del relatore alla Camera, on. Alessandro Zan, del Partito democratico, d’ora in avanti DDL Zan) è stato approvato dalla Camera il 4 novembre 2020. Attualmente è all’esame del Senato, e dal 5 novembre è fermo in Commissione, dove non è ancora iniziato l’esame (DDL S-2005).

Il testo prende avvio da 5 proposte di legge, presentate rispettivamente dalle e dagli onorevoli Laura Boldrini (Gruppo misto), Alessandro Zan (PD), Ivan Scalfarotto (PD), Mario Perantoni (5Stelle) e Giusi Bartolozzi (FI). Il titolo indica l’oggetto dell’intervento normativo: «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità».

Dunque le azioni che s’intendono punire consistono nella discriminazione e nella violenza; mentre la qualificazione che rende tali attività punibili sono quelle riferite a cinque ambiti («sesso», «genere», «orientamento sessuale», «identità di genere» e «disabilità»).

Come appare subito evidente, e come si rende necessario volendosi introdurre fattispecie penalmente rilevanti, occorre chiarire il significato attribuito alle espressioni utilizzate, anche perché le stesse risultano tutt’altro che condivise nel linguaggio comune. Infatti l’art. 1 contiene le definizioni dei termini utilizzati:1 ma non di quelli di discriminazione e di violenza, né di disabilità, evidentemente ritenendo che tali termini siano sufficientemente chiari e condivisi nel linguaggio comune.

La prassi d’inserire delle definizioni all’interno di un testo di legge è abbastanza ricorrente, ed è consigliata dalle regole di tecnica legislativa. In particolare la circolare del presidente della Camera dei deputati del 20.4.2001 suggerisce di ricorrere a definizione «allorché i termini utilizzati non siano di uso corrente, non abbiano un significato giuridico già definito in quanto utilizzati in altri atti normativi ovvero siano utilizzati con significato diverso sia da quello corrente sia da quello giuridico». Evidentemente questo vale per le espressioni di cui la legge in questione offre la definizione.

 

Perché e che cosa definire

L’art. 1 contiene pertanto alcune definizioni che, come precisa lo stesso articolo, sono dettate «ai fini della presente legge».

La prima riguarda il sesso, specificando che con esso s’intende «il sesso biologico o anagrafico»; la seconda definisce il genere come «qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso». La terza definizione riguarda l’orientamento sessuale, definito come «attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi»; la quarta, infine, definisce l’identità di genere quale «identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».2

Non è possibile qui esaminare nel dettaglio ciascuna di queste definizioni, che richiederebbero competenze specifiche che chi scrive queste note certamente non possiede: qualcuno ha osservato al riguardo che «si tratta di nozioni conformi a letture mainstream, tutt’altro che esaustive e condivise nel dibattito scientifico»,3 mentre altri ne hanno sottolineato la non difformità rispetto alla giurisprudenza interna e sovranazionale.4 Mi limiterò a svolgere qualche considerazione di carattere generale.

In primo luogo sul valore in sé delle definizioni contenute nell’art. 1. È ben vero che esse sono dettate, come si è detto, «ai fini della presente legge», e quindi hanno valore limitatamente alle previsioni in essa contenute; e tuttavia va ricordato che una volta introdotte in un atto normativo la loro valenza assume valore generale. In altri termini, tali definizioni potranno (e dovranno) essere utilizzate anche nell’interpretazione di altre leggi, favorendone (per lo meno) una presunzione di validità. Quindi, per «sesso» o per «genere» si dovrà intendere ciò che stabilisce questa legge (qualora ovviamente sia approvata), indipendentemente dal contesto nel quale tali espressioni siano utilizzate.

In secondo luogo, com’è inevitabile nel linguaggio (non solo giuridico), ogni definizione viene formulata mediante termini che richiederebbero a loro volta altre definizioni. Non essendo possibile portare all’infinito questa catena, si danno per acquisiti termini che, rimanendo alle definizioni in questione, andrebbero invece specificati.

Ad esempio, che cosa s’intende per «attrazione sessuale» o per «attrazione affettiva»? Si può escludere che quella di un padre o di una madre verso il figlio o la figlia sia un’«attrazione affettiva»? Personalmente non avrei dubbi a considerarla tale, analogamente a quella di un/a nonno/a nei confronti di un/una nipote, e così via: ed è allora corretto ritenere che tale «attrazione affettiva» sia da considerare, come impone la definizione in esame, espressione dell’«orientamento sessuale» (che normalmente viene riferito alla «scelta del genere del partner nell’ambito della sfera erotico-affettiva»)?5

Inoltre, come considerare «l’identificazione percepita in relazione al genere», che, come affermato dalla Corte costituzionale, deve considerare «gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici» (sentenza n. 221/2015), quando per genere si deve intendere «qualunque manifestazione esteriore»?

E ancora: a chi spetta valutare quale sia l’identificazione percepita, e a quale «manifestazione esteriore» si dovrebbe fare riferimento? Infine – ma si potrebbe continuare – quali sono le «aspettative sociali connesse al sesso»? Si devono intendere quelle condivise dalla maggioranza della società o quelle comunque presenti anche in minoranze? E, in entrambi i casi, come individuarle e a opera di chi?

Ancora. Le definizioni che vengono date dalla legge a un concetto devono (meglio, dovrebbero) essere coerenti con il significato che alla medesima espressione è attribuito da altre leggi o, ancor di più, che sia stato a esso attribuito dalla giurisprudenza costituzionale. A tal riguardo, con riguardo al primo profilo, occorre osservare che l’espressione «genere» è in altre circostanze utilizzata nel nostro ordinamento per riferirsi al «sesso»: così, ad esempio, la legge elettorale per la Camera prevede che nelle liste i candidati siano collocati secondo un ordine alternato di genere (che in questo senso dovrebbe corrispondere al «sesso» del DDL Zan). Così pure in altre circostanze le espressioni «diseguaglianze di genere», «politiche di genere» o «violenza di genere», fanno implicito riferimento al genere femminile; mentre in altre restano indeterminate (ad esempio l’art. 8, § 1, lett. d) del decreto legislativo n. 251/2007).

Con riguardo invece alla giurisprudenza costituzionale, occorre rilevare, ad esempio, che per la Corte (sentenza n. 221/2015) il diritto all’identità di genere costituisce un’espressione del diritto all’identità personale (garantito dall’art. 2 Costituzione e dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDU), e che in alcune circostanze il riferimento all’orientamento sessuale viene riferito al sesso biologico (ad esempio, sentenza n. 221/2019).

 

Propaganda e istigazione

Passando dal piano delle definizioni a quello delle misure che s’intendono introdurre, si può indicare questa sorta d’indice.

In primo luogo vi sono misure che intervengono sul Codice penale. Sono poi previste misure che possiamo ritenere conseguenti – e comunque strettamente correlate – alle prime, relative alle sanzioni accessorie che possono essere inflitte a chi commetta i reati di cui sopra. Con una disposizione apposita viene poi istituita una Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, mentre altre due norme sono dedicate ad ampliare le competenze dell’Ufficio per il contrasto alle discriminazioni istituito presso la Presidenza del consiglio (la prima) e a ridefinire le funzioni dei centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere già previsti dalla legislazione vigente (la seconda). Un’ultima disposizione dà mandato all’ISTAT d’effettuare una rilevazione statistica di cui si dirà.

In sostanza, si può dire che la legge intende intervenire su due piani: quello punitivo-repressivo, mediante un inasprimento del sistema sanzionatorio relativo a comportamenti genericamente riferibili a intenti discriminatori; e quello comunicativo e di monitoraggio, mediante attività di sensibilizzazione, conoscitive e di promozione finalizzate «a superare le condizioni strutturali e sistemiche della discriminazione e della violenza».6

Analizziamo il primo piano. Vengono innanzitutto ampliate le fattispecie penali di cui all’art. 604 bis del Codice penale, il quale al momento punisce (con pene diverse nei vari casi):

  1. a) chiunque propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico;
  2. b) chiunque istiga a commettere o commette violenza, atti di discriminazione o di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
  3. c) chiunque promuove o dirige, ovvero partecipa o presta assistenza a organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

A fronte di tale quadro, il DDL Zan intende allargare le fattispecie criminose. In particolare verrebbero puniti anche coloro che:

  1. a) istigano a commettere o commettono atti di discriminazione, ovvero violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
  2. b) promuovono o dirigono, ovvero partecipano o prestano assistenza a organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza non soltanto (come ora) per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, ma anche per i motivi indicati nella lettera precedente.

Dal confronto emerge intanto che non verrebbe ampliato l’ambito di applicazione del reato di propaganda, ma solo di quello d’istigazione (a commettere atti di discriminazione) e di compimento di tali atti. In altri termini, e ad esempio, la propaganda di idee fondate sulla discriminazione di sesso o di genere non verrebbe punita, mentre verrebbe sanzionata l’istigazione a commettere atti di discriminazione per gli stessi motivi. Ciò pone l’evidente necessità, rimessa al giudice, di definire se un atto sia configurabile come propaganda (non punibile) ovvero come istigazione (punibile). Tornerò su questo punto.

 

Discriminazione e odio

Un’ulteriore modifica riguarderebbe l’art. 604-ter del medesimo Codice penale, che prevede un’aggravante per i reati «commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità»: anche in questo caso verrebbero aggiunti (e pertanto considerati come aggravanti) gli stessi motivi sopra indicati.

L’ultimo intervento sul Codice penale è operato dall’art. 6 della proposta di legge, e riguarda l’art. 90-quater, relativo alla definizione di «particolare vulnerabilità della persona offesa». Attualmente la disposizione codicistica stabilisce che tale qualifica può desumersi, oltre che dall’età e dallo stato d’infermità o deficienza psichica, dal tipo di reato e dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede.

La disposizione prosegue specificando che per la valutazione della condizione suddetta si tiene conto (anche) se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, oppure se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo anche internazionale, o di tratta degli esseri umani; nonché se si caratterizza per finalità di discriminazione e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato.

Dunque, la finalità di discriminazione (alla cui repressione cui il DDL Zan è ispirato) è già prevista come circostanza che induce a qualificare la particolare vulnerabilità della persona offesa. Tuttavia, la proposta interviene anche su tale disposizione, evidentemente ritenendo che essa non sia sufficiente: e infatti si aggiunge la previsione che per la valutazione della condizione personale si deve tenere conto anche dell’«odio fondato sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

Anche in questo caso spetterà al giudice il compito di distinguere se il fatto è commesso con finalità di discriminazione (per sesso, genere ecc.) o con odio (per le medesime ragioni): sebbene in tal caso il problema è meno rilevante, considerando che entrambe le situazioni sono soggette al medesimo regime giuridico.

 

Quali idee sono

un «concreto pericolo»?

Queste dunque sono le modifiche più rilevanti, e anche più considerate nel dibattito politico e pubblico in generale.

Un primo aspetto da considerare al riguardo concerne l’individuazione delle fattispecie di reato, ricordando che esse – in base alla Costituzione – devono essere tassative e determinate per quanto imposto dal principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione. Se, al riguardo, le circostanze in cui si commetta violenza per i motivi sopra indicati sono sufficientemente definite, più problematica è la fattispecie dell’istigazione.

E ciò non soltanto in sé (ovvero in termini generali), ma anche alla luce di ciò che la stessa legge prevede. Con un’altra disposizione, contenuta nell’art. 4, si stabilisce infatti che «ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Non è facile ricostruire un quadro razionale all’insieme.

Partiamo dalla formulazione dell’art. 4 in sé considerata, che nasconde non poche contraddizioni. In primo luogo essa costituisce un «richiamo» a quanto stabilito in Costituzione, e in particolare all’art. 21 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero»). Che una legge ordinaria richiami un principio costituzionale è frequente, anche se non aggiunge nulla a ciò che è già sancito a livello costituzionale.

La questione, qui, sta tuttavia nel fatto che non tutti i convincimenti o le opinioni espressi sarebbero ammessi: non risultano infatti ammissibili quelle espressioni idonee «a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Tale previsione, occorre rilevare, non determina di per sé l’incostituzionalità della disposizione: vi sono altri casi in cui un’espressione di pensiero può produrre una sanzione penale (ad esempio l’offesa verso una confessione religiosa: art. 403 Codice penale).

Il problema è però costituito dalla esatta determinazione della fattispecie: in sostanza, come può stabilirsi se una manifestazione del proprio pensiero è idonea a determinare il concreto pericolo? Il riferimento alla concretezza sembrerebbe presupporre che quella espressione abbia prodotto effettivamente un pericolo (altrimenti si tratterebbe di pericolo astratto): il che sembra significare che il giudice debba correlare l’effettivo e concreto realizzarsi del pericolo all’espressione da altri utilizzata, e stabilire in secondo luogo che quest’ultima era effettivamente idonea alla realizzazione del pericolo. Una situazione certamente non facile.

In secondo luogo, e sempre rimanendo nell’ambito della disposizione contenuta nell’art. 4, merita sottolineare il riferimento alle condotte. Queste, infatti, per non essere punibili, devono sottostare a due condizioni: la prima, che siano inidonee a determinare il concreto pericolo; la seconda, che siano anche legittime. Qui la contraddizione della formulazione appare ictu oculi: se sono legittime, significa che sono consentite e quindi non devono essere punite; se sono vietate, significa che non sono legittime.7

E ancora: le condotte legittime sono ammissibili se «riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte». Scrive un autorevolissimo penalista al riguardo: «Ma di che si va straparlando? Mentre la libertà delle scelte non è chiaro che ci stia a fare, per il pluralismo delle idee va ricordato che lo sguardo della Costituzione non è circoscritto entro i limiti “politicamente corretti”; spazia oltre e assicura anche la libertà di esprimere idee personalissime ed esclusive, che spesso sono anche le migliori».8

Quanto infine alla connessione tra l’art. 4 e gli articoli precedenti, si è detto che viene punita l’istigazione a commettere atti di discriminazione: ma se tale istigazione è conseguenza dell’espressione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, la stessa non è punibile, a meno che gli stessi convincimenti od opinioni non siano idonei a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.9

 

Scopi promozionali

Mi pare che, in questo modo, si crei una sorta di labirinto nel quale dovrà muoversi il giudice chiamato a risolvere casi concreti: con qualche dubbio, di conseguenza, sulla tassatività e determinatezza – lo si ripete, costituzionalmente necessarie – della fattispecie incriminatoria.10

Meno problematiche, almeno dal punto di vista giuridico, risultano le altre previsioni contenute nella proposta di legge. L’art. 5 stabilisce che per i reati di cui ai commi precedenti si possono applicare, da parte del giudice, le sanzioni accessorie attualmente previste dalla legge 9.10.1967, n. 962, intitolata «Prevenzione e repressione del delitto di genocidio» (sic!). Tali sanzioni consistono, ad esempio, nell’obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità, nella sospensione della patente di guida e del passaporto, nel divieto di partecipare ad attività di propaganda elettorale.

Nello specificare i possibili destinatari di dette attività di utilità sociale, la proposta aggiunge a quelli attualmente indicati (persone handicappate, tossicodipendenti, anziani e stranieri) anche le «associazioni di tutela delle vittime dei reati» previsti dalla legge stessa (ovvero delle vittime dei reati di istigazione ecc.). In sostanza, s’intende valorizzare la finalità rieducativa della pena, indicando al giudice l’opportunità di obbligare il condannato a svolgere un’attività a vantaggio delle organizzazioni che si occupano di tutelare le vittime del proprio reato.

L’art. 7 prevede l’istituzione della «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», con lo scopo di «promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere». In tale Giornata dovranno essere organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile», anche da parte delle scuole (ma nel rispetto del piano triennale dell’offerta formativa e del patto educativo di corresponsabilità) e delle altre amministrazioni pubbliche.

La data prescelta dal DDL Zan (il 17 maggio) coincide con la Giornata che si celebra a livello mondiale (riconosciuta anche dall’UE e dall’ONU). Aspetto da sottolineare è che la finalità di tale Giornata interpreta estensivamente l’ambito di cui al titolo della legge, essendo diretta, come si è detto, non a reprimere quanto evidentemente a prevenire la discriminazione mediante la diffusione della conoscenza delle forme di «identità di genere» indicate.

L’art. 8 intende intervenire su un decreto legislativo (9.7.2003, n. 215) che costituisce attuazione di una direttiva comunitaria (2000/43/CE) relativa alla parità di trattamento tra le persone, indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, al fine d’allargare le competenze dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. Un Ufficio che già oggi si qualifica – nel proprio sito istituzionale – quale «deputato dallo stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone, indipendentemente dalla origine etnica o razziale, dalla loro età, dal loro credo religioso, dal loro orientamento sessuale, dalla loro identità di genere o dal fatto di essere persone con disabilità». La disposizione del DDL Zan demanda a tale Ufficio il compito di elaborare ogni tre anni una «strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere».

Infine, l’art. 10 attribuisce all’ISTAT (sentito l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, che peraltro già oggi fornisce dati annuali all’OSCE) lo svolgimento di una rilevazione statistica con cadenza almeno triennale nella quale misurare «le opinioni, le discriminazioni e la violenza subite e le caratteristiche dei soggetti più esposti al rischio»: relativamente a quale tipo di discriminazioni tale indagine debba realizzarsi non è specificato in modo diretto, ma può ricavarsi dall’indicazione che tale rilevazione è finalizzata «alla progettazione e realizzazione di politiche per il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

Questo, dunque il contenuto della proposta di legge in questione. Mi sia consentita, in conclusione, una considerazione personale. A me pare che il cuore della proposta di legge in questione sia costituito certamente dalle norme incriminatrici, cui s’aggiungono le disposizioni di promozione culturale avverso atteggiamenti discriminatori. Con riguardo a tale obiettivo prioritario, il quadro che sembra emergere induce a ritenere che esso sia formulato in modo talmente incerto e confuso, anche a causa dell’intersezione con diritti fondamentali che devono essere garantiti, da impedire la realizzazione di un’efficace repressione penale.

In altri termini, credo che ben difficilmente – e forse soltanto in casi estremi – sulla base delle norme incriminatrici introdotte dalla legge si arriverà a formulare sentenze di condanna. Ma sono anche convinto che questa non sia l’intenzione principale del legislatore: il quale utilizza lo strumento penale per favorire il diffondersi di una cultura di non discriminazione, o meglio d’accettazione sociale di certi comportamenti e situazioni. Anche da parte di chi considera opportuno un intervento legislativo quale quello del DDL Zan si sottolinea infatti che «la norma giuridica, attraverso la sua portata simbolica, agisce sulla coscienza collettiva, così che il comportamento diventa non solo illegale, ma anche socialmente condannato».11

Indipendentemente da ogni valutazione circa il fine che si vuole così realizzare, è dunque soprattutto il mezzo che suscita perplessità, come avviene ogni qualvolta «l’entità dell’offesa è largamente superata dall’allarme sociale che essa suscita e dunque si deve rinvenire una risposta a questo allarme sociale per placarlo attraverso l’uso strumentale del diritto penale».12

 

Mirare – in fondo –

alla risonanza mediatica

Ma se anche fosse vera questa mia (personale) previsione, questo non significa che l’apparato giudiziario non verrà interessato dalla riforma. È infatti altamente probabile che, almeno nella prima fase di attuazione della legge, vi saranno segnalazioni di fatti o denunce che porteranno ad avviare l’azione penale: immagino che, in particolare, le associazioni di tutela delle vittime si faranno in tal senso parte attiva – dopo aver spinto fortemente per l’approvazione della legge – a far sì che essa non resti senza conseguenze effettive. E anche se quelle denunce potrebbero non condurre – al termine del processo – a una condanna per l’indagato, tuttavia l’effetto mediatico che si sarà prodotto potrà consentire di raggiungere quell’obiettivo di condanna sociale di cui si è detto.

Un effetto, sia ben chiaro, né unico né nuovo nell’ordinamento giuridico, tanto che da parte dei giuristi penalisti si è da tempo denunciato l’«uso c.d. simbolico-espressivo del diritto penale, ove, cioè, [questo] ramo del diritto perde la sua qualifica tipica di conservazione dei beni giuridici, per assumere quella, ben più rischiosa, perché foriera di espansione incontrollata, c.d. promozionale, nel senso di “esortare caldamente” i cittadini ad osservare la norma penale».13

Il DDL Zan, in questo senso, è davvero simbolico.

 

Emanuele Rossi

 

 

 

1 Tali definizioni non comparivano nella versione originaria del progetto di legge, e sono state sollecitate da parte del Comitato per la legislazione proprio in considerazione delle fattispecie penali che s’intendono introdurre: cf. il parere reso in data 23.7.2020.

2 Sulla nozione d’«identità di genere» sono state sollevate delle perplessità da parte di alcune esponenti del movimento femminista, che hanno avanzato la preoccupazione che essa possa annullare il dato biologico e condurre a un appiattimento della differenza tra i sessi.

3 G. Dodaro, «La problematica criminalizzazione degli “atti di discriminazione” non violenti nei delitti contro l’eguaglianza», in Giustizia insieme, 10.11.2020, https://bit.ly/3fed5Cq.

4 Cf. V.A. Schillaci, «A metà del guado: la proposta di legge Zan, tra riconoscimento e solidarietà», in Giustizia insieme, 10.11.2020, https://bit.ly/3fed5Cq

5 E. Crivelli, La tutela dell’orientamento sessuale nella giurisprudenza interna ed europea, ESI, Napoli 2011, 6ss.

6 Schillaci, cit.

7 Secondo F. Vari, «l’uso dell’aggettivo “legittime” dà l’idea di un cane che si morde la coda: non si applicano i divieti a ciò che la legge non vieta», intervistato da Avvenire, 25.6.2020, https://bit.ly/3bliqqF.

8 T. Padovani, «DDL Zan e omofobia: un vasto campo seminato con mine da disinnescare», in Guida al diritto, (2020) 48, 5 dicembre, https://bit.ly/3uJeGqp.

9 Scrive ancora Padovani: «Tenendo presente che le innovazioni del DDL non coinvolgono la fattispecie della propaganda, il locutore di idee e l’autore di comportamenti legittimi devono badare a quel che dicono e fanno, e in particolare alle conseguenze sul comportamento di altri (perché se si tratta degli stessi soggetti agenti si tratterebbe di condotta legittima). Esemplificando: se un sacerdote legge dal pulpito ciò che il Catechismo della Chiesa cattolica ancor oggi afferma a proposito delle pratiche omosessuali, e ricorda che si tratta di uno dei quattro peccati che “gridano verso il Cielo”, dovrà forse assumersi il rischio che talune delle sue pecorelle, udito il sermone, si trasformino in belve e organizzino un pogrom in un circolo omosessuale?»: «DDL Zan e omofobia», cit.

Un’altra esemplificazione è proposta, sul lato opposto, da S. Alliva, «DDL Zan, smontiamo le bufale della destra una per una», in L’Espresso 3.5.2021, https://bit.ly/2SzG7on. A suo avviso «il giudice potrà applicare l’aggravante Zan a un’associazione che pubblicando le foto di un’attività gay invita i suoi seguaci a linciarlo [probabilmente tale reato sarebbe aggravato anche senza la legge Zan, ndr], ma non a un cittadino che potrà ancora liberamente dire “le persone omosessuali sono malate”, l’“utero in affitto è un abominio”, e così via». Sull’ultima frase riportata, mi limito a ricordare che secondo la Corte costituzionale la maternità surrogata costituisce una pratica «che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (Sentenza n. 272/2017).

10 Secondo G.M. Flick, nella proposta di legge «c’è anche il rischio di mettere in pericolo la “tipicità”, ossia l’individuazione precisa, della norma», con «il rischio ulteriore di arrivare, attraverso troppi concetti, a una dilatazione dell’ambito di interpretazione del giudice. Con la conseguenza, io temo, di creare un pericoloso divario fra le giuste intenzioni e gli effetti originati dalle formulazioni della norma e dalle sue definizioni»: intervista in Avvenire del 11.5.2021, https://bit.ly/3bo9yQO. Secondo altri, invece, il perimetro d’applicazione della fattispecie penale è individuato «in modo sufficientemente tassativo»: Schillaci, cit.

11 G. M. Locati, F. R. Guarnieri, «Discriminazione, orientamento sessuale e identità di genere: riflessioni a margine della proposta di legge Zan», in Questione giustizia, 28.7.2020, https://bit.ly/3wdD04j.

12 T. Padovani, Diritto penale del nemico, Pisa University Press, Pisa 2014, 12.

13 A. Manna, «Alcuni recenti esempi di legislazione penale compulsiva e di ricorrenti tentazioni circa l’utilizzazione di un diritto penale simbolico», in Archivio penale, 72(2016) 2, maggio-agosto. Cf. anche C. Bonini, La funzione simbolica nel diritto penale del bene giuridico, ESI – Università di Trento, Napoli – Trento 2018.

Tipo Articolo
Tema Cultura e società Politica
Area EUROPA
Nazioni

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