Italia - Dopo il COVID-19: la Chiesa di dopo
Quanto manca di questa notte oscura del mondo? Sentinelle ignare. Non lo sappiamo. Né conosciamo il mondo che sarà. I condizionamenti e le conseguenze di quello che è accaduto e accade. Tutto è stato rimesso radicalmente in discussione dalla pandemia e dalla sua incognita quotidiana: la morte e la vita, Dio e il dolore, la tecnica e la scienza, il significato della storia, lo sviluppo economico e l’etica sociale, il valore e la validità delle democrazie. Una sincope storica.
Quanto manca di questa notte oscura del mondo? Sentinelle ignare. Non lo sappiamo. Né conosciamo il mondo che sarà. I condizionamenti e le conseguenze di quello che è accaduto e accade. Tutto è stato rimesso radicalmente in discussione dalla pandemia e dalla sua incognita quotidiana: la morte e la vita, Dio e il dolore, la tecnica e la scienza, il significato della storia, lo sviluppo economico e l’etica sociale, il valore e la validità delle democrazie. Una sincope storica.
E ci siamo accorti che in tanti, soprattutto quanti erano ai vertici di una qualche responsabilità, non erano preparati. Per dimenticanza dei fondamentali o ignavia. Senza più sintassi narrative. Non solo il governo e le sue strutture amministrative. Non solo il sistema sanitario o il mondo della comunicazione. Anche la Chiesa e in generale le confessioni religiose.
Eppure, come sempre di fronte al dramma, il riscatto avviene attraverso il sacrificio di alcuni. Il sacrificio di alcuni ha riscattato molti. Medici, infermieri, volontari, preti sono morti a decine. Il papa – unico punto di riferimento nazionale e internazionale – li ha accomunati in un medesimo sacerdozio.
Le Chiese locali hanno vissuto e condiviso, hanno visto e compreso il dramma che si è consumato. Ma questo dramma non è stato uguale ovunque. Non tutti, «per altra fortuna», lo hanno vissuto direttamente o conosciuto indirettamente. Altro è averne avuto notizia. Non si ha di quello che è accaduto unanime ed eguale percezione nelle Chiese e nel paese. Per questo serve una parola comune che i vescovi italiani dicano assieme.
Diverso è quello che è accaduto al Nord da quello che è accaduto nelle altre aree del paese. In una sorta di «Linea gotica» della pandemia, il paese si è ritrovato diviso. Una divisione materiale, psicologica, culturale che mette capo, a partire da una diversa percezione e da una diversa consapevolezza, a necessità e comportamenti diversi. Come sempre, di fronte a una cesura storica, alcuni non potranno dimenticare, altri non avendone un ricordo diretto o indiretto cercheranno di passare oltre in fretta. Tutti dovremo fare i conti con le conseguenze economiche e sociali di quello che è accaduto e accade nel tempo che si apre.
Ripartire dalle vittime
Il rischio è che accada troppo differentemente. Che si perda l’unità del racconto, senza il quale non si avrà un progetto comune, una visione condivisa. Un po’ come accade nel quadro di Bruegel il vecchio, la Salita al Calvario. Una scena caotica, senza alcuna riconoscibile e riconosciuta verità dell’evento drammatico che si sta per compiere. Nessuna centralità che focalizzi e organizzi lo spazio. Più che un dramma condiviso, una desolata fiera paesana.
Come paese e soprattutto come Chiesa dobbiamo ripartire dalle vittime e dal dolore. Penso alla sofferenza degli ammalati, al dramma dei medici che talora hanno dovuto scegliere chi provare a salvare, all’angoscia dei morenti, all’assoluta solitudine dei morti – quei corpi soli, nelle bare accatastate, portate via di notte, in qualche luogo: l’abbandono è stato qui al suo culmine –, alla pietosa impotenza di chi era presente e all’incolmabile distanza degli affetti inespressi, ammutoliti.
La Chiesa ha in sé e fin dall’inizio espresso il linguaggio (pur nelle diverse forme culturali) della sequela del Crocifisso: quell’unità singolare tra la morte di Gesù e la nostra che rende possibile affrontare il dolore e la morte. Da dove partire se non dalle vittime? Dallo scandalo di quella sofferenza e dal silenzio di Dio. Perché la morte è l’evento più alto e radicale della fede in quanto esistenziale che domina tutta la vita.
Gesù stesso nella sua vita ha vissuto fino in fondo quella realtà, ne ha provato l’orrore, l’inaccettabilità, fino al grido dell’abbandono sulla croce («Dio mio, perché mi hai abbandonato?», Mt 27,46), quel grido che ha scosso e scuote la realtà stessa di Dio e che il teologo Jürgen Moltmann, per segnare tutta la lacerante presenza e distanza di Dio, ha ritradotto in: «Dio mio, perché ti hai abbandonato?».
Ripartire dal kerygma e ritornare nel cuore della società. Alle sorgenti della vita della Chiesa, l’annuncio e la trasmissione della fede hanno preceduto la cristianizzazione della società. Proprio oggi, la profonda scristianizzazione della nostra società rende evidente questa differenza e ci obbliga a ritornare alle sorgenti del Vangelo. La fede nasce solo dall’ascolto e dall’accoglienza del Vangelo. L’annuncio del Vangelo rende presente la verità di Dio nel profondo della coscienza del singolo e nella vita delle comunità. Svelamento del volto di Dio. È in questo ricominciamento il senso profondo del pontificato di papa Francesco.
Come Chiesa, soprattutto su un piano nazionale, ci siamo concentrati immediatamente e troppo a lungo sul dibattito interno circa la sospensione delle messe e poi sul contenzioso con il governo per la modalità della loro ripresa. Quasi che il tutto della nostra fede si giocasse lì: nella possibilità o impossibilità di celebrare con il popolo dei fedeli. Quasi un riflesso pre-conciliare e un eccesso concordativista, dei quali forse si poteva fare a meno con maggiore libertà per la Chiesa stessa.
Un’iniziativa autonoma avrebbe forse consentito d’affrontare meglio in termini pastorali il dramma in atto, proprio a partire da quella rinuncia offerta per il bene comune e colmata da una diversa e spirituale vicinanza. Così si sarebbe evitata parte di quella faticosa ed estenuante rincorsa alle «grida» del governo (i DPCM), che ha preteso di gestire con decine di atti amministrativi, in un quadro derogatorio senza precedenti, provvedimenti di diversa natura politica, senza l’avallo del Parlamento.
Ci saremmo evitati, nell’iniziale fallimento di una trattativa per scarsa affidabilità del governo e per eccesso di reazione da parte della CEI, in nome della libertà di culto, il rischio (26-28 aprile) di uno scontro stato-Chiesa, sanato da un fermo richiamo del papa alla «saggezza» e all’«obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni». E non avremmo visto finire nel Protocollo d’intesa tra CEI e Governo circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo (7 maggio), articoli – come quelli che recitano: «Si ricorda la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute» (5.2); e: «Si favoriscano le trasmissioni delle celebrazioni in modalità streaming per la fruizione di chi non può partecipare alla celebrazione eucaristica» (5.3) – che sono materia del diritto canonico e della prassi pastorale propria della Chiesa, che nulla hanno a che fare con provvedimenti governativi.
Verso i nuovi orientamenti
La Conferenza episcopale italiana va verso la definizione degli orientamenti pastorali per il prossimo quinquennio. Si tratta, dopo sette anni, del vero e unico appuntamento nel quale possa accogliere gli insegnamenti del pontificato di papa Francesco. L’esigenza di raccordare i punti più alti della propria riflessione post-conciliare con il pontificato e il confronto con una realtà nazionale e internazionale radicalmente cambiata e devastata dalla pandemia impone, credo, una riflessione profonda di carattere spirituale, pastorale e culturale.
L’annuncio kerigmatico fortemente voluto da papa Francesco di fronte alla grave emergenza e ai radicali cambiamenti del paese, non può non segnare la trama dei futuri orientamenti pastorali, pena la caduta di significatività.
Qui torna centrale, dopo gli anni della nostalgia del cattolicesimo politico, il tema della presenza solidale della Chiesa nella società. Quella multiforme testimonianza della carità senza la quale la Chiesa non può riconoscere se stessa e la società nella quale si trova non risulta storicamente migliore. Quella presenza ha laicamente maturato e sviluppato una concezione democratica e social-liberale della società, fatta di corpi intermedi, di sussidiarietà intesa non solo in senso verticale, ma orizzontale, di spirito d’intrapresa.
Questa solidarietà non è venuta meno, ché anzi si è accentuata nelle zone dell’emergenza della pandemia, ma è stata come marginalizzata dal governo nazionale. È un tratto che non riguarda tanto la Chiesa come tale, ma da un lato la concezione che lo stato ha della società e dei suoi soggetti e dall’altro quel che rimane della cultura cattolica.
È emerso durante l’emergenza (e i nuovi provvedimenti economici del governo lo accentuano) il profilo di uno stato centralizzatore, che occupa e regola ogni aspetto della vita dei cittadini. E dal momento che la situazione drammatica nella quale il paese si trova richiederà una sorta di New Deal e d’intervento dello stato, una visione politica da centralismo assistenziale rischia di fare arretrare la società in termini di libertà e democrazia verso quella che è stata definita «una società parassita di massa».
Se da circa un decennio il modello ruiniano della CEI si è andato progressivamente svuotando, anche per mancanza di protagonisti su un piano nazionale, forse conviene rivederlo in un nuovo equilibrio tra orientamenti generali necessari (una sorta di leadership collettiva dei vescovi italiani) e il riconoscimento di un maggior ruolo delle Chiese locali. In fondo è quello che emerge dalla pandemia.
Gianfranco Brunelli