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l'Ospite

Vaticano: la scomunica per corrotti e mafiosi

Il Vaticano sta studiando l’ipotesi di scomunica per corruzione e mafia per tutti coloro che si macchiano di tali crimini. Un Gruppo di lavoro è impegnato sulla redazione di un apposito decreto ufficiale. È quanto si è appreso dal dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, dopo il seminario internazionale sulla corruzione, svoltosi nei giorni scorsi in Vaticano. Al «Dibattito internazionale sulla corruzione» hanno partecipato circa 50 magistrati anti mafia ed anti corruzione assieme a vescovi, varie personalità di istituzioni vaticane, di stati e delle Nazioni Unite, tra cui vittime, giornalisti, studiosi ed ambasciatori. 

Precedenti dichiarazioni dei pontefici

La prima storica invettiva di un papa contro “Cosa nostra” è del 9 maggio 1993, dopo le stragi dei corleonesi e gli attentati a Falcone e Borsellino. La gridò Giovanni Paolo II ad Agrigento, in una delle ultime visite in Sicilia del suo pontificato. «Questo popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto pressione di una civiltà contraria, una civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è via, verità e vita». Poi la frase che è rimasta impressa nella memoria di tutti: «Lo dico ai responsabili: convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio».

Più di 200 mila fedeli a Palermo seguirono la messa di Benedetto XVI sul prato del Foro Italico. Era il 3 ottobre 2010. «Cari giovani di Sicilia, siate alberi che affondano le loro radici nel fiume del bene. Non abbiate paura di contrastare il male. Insieme, sarete come una foresta che cresce, forse silenziosa, ma capace di dare frutto, di portare vita e di rinnovare in modo profondo la vostra terra. Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo! Il destino degli empi è quello di soccombere, il giusto, invece, confida in una realtà nascosta ma solida, confida in Dio e per questo avrà la vita».

«Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». Con queste parole, inedite per la storia della Chiesa cattolica, papa Francesco, a Cassano allo Jonio, il 21 giugno 2014, scomunicava i mafiosi. In seguito il 21 marzo 2015, in visita nel quartiere di Scampia a Napoli, Bergoglio disse: «La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza. Un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione spuzza». Il termine “spuzza” è tratto dal dialetto lunfardo, parlato dagli italiani settentrionali emigrati a Buenos Aires.  

Tempo di verifica 

Papa Francesco accelera i tempi affinché la Chiesa riprenda il suo magistero su due temi che nel mondo cattolico sono stati trascurati, quello delle mafie e quello della corruzione. E lo sguardo, naturalmente, non è rivolto solo all’Italia, ma a tutto il mondo, in particolare a quella parte di esso influenzato dalla religione cattolica e da classi dirigenti cattoliche. Perché la domanda assillante che ci si pone di fronte a queste due intricate questioni è la seguente: come mai i fenomeni mafiosi e corruttivi si sono sviluppati in società e ambienti cattolici pur rappresentando una violazione sistematica dei comandamenti e dei precetti della morale cristiana? E, in particolare, come spiegarci il fatto che in quattro cattoliche regioni italiane si siano sviluppate alcune delle organizzazioni criminali più potenti al mondo, senza che – fino a pochissimi anni fa – ci fosse contrasto tra esse e la gerarchia?

Perché è del tutto evidente che la religione cattolica, così come si è originata e sviluppata nell’Italia meridionale non è stata un ostacolo al dispiegarsi del potere mafioso. Bisogna prendere atto che società e territori plasmati dalla cultura cristiana hanno partorito Cosa nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta e la Sacra corona unita. E le hanno partorite non in contrapposizione alla Chiesa e alle sue istituzioni, ma in una formale e pubblica adesione ai suoi riti, al rispetto del suo ruolo nella società. Anzi, la storia della Chiesa in quei territori si è svolta parallela a quella espansione. Ancora oggi manca dall’interno della Chiesa una spiegazione storica e dottrinale del proprio comportamento.

Ci sono, sicuramente spiegazioni “funzionali” sulla religiosità dei mafiosi. Per un criminale il problema principale è il controllo dei sensi di colpa. Ammazzare non è una cosa così semplice, non è una “normale” attività umana. Il senso di colpa per le azioni delittuose può mettere in crisi anche il più spietato degli assassini. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, ricchezza e potere. I killer seriali sono tali proprio perché non sentono nessun senso di colpa. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la “ratio” delle azioni mafiose e criminali, e che è pronto al perdono, è una incredibile comodità.

Riconoscere il male compiuto

Ma a tal proposito occorre ricordare quale è la regola fondamentale che detta la Chiesa e che può essere sintetizzata nelle seguenti parole: «Se sei veramente pentito di aver rubato, prima restituisci il maltolto, poi puoi tomare in Chiesa per essere ammesso ai sacramenti». Sono queste, grosso modo, le parole che i sacerdoti ripetono in confessione a quanti chiedono l’assoluzione per aver infranto il settimo comandamento, «Non rubare».

Una “formula” assolutoria ritornata in questi ultimi tempi prepotentemente alla ribalta anche per quei politici (amministratori, ministri, assessori) che, presi da crisi di coscienza per aver approfittato della carica per incrementare illecitamente il proprio conto in banca, si avvicinano al confessionale con la speranza di essere assolti. Prima vanno restituiti i soldi rubati, poi si vede il resto, un principio valido per tutti, anche se il confessore deve regolarsi caso per caso perché un peccato non è mai inserito in un sistema di misura.

Chi ruba deve restituire. Ma la restituzione da sola non basta, perché per avere l'assoluzione cristiana, accanto al risarcimento del danneggiato, ci deve essere una autentica e sincera presa di coscienza del male fatto. I sacerdoti confessori, pero, non devono essere visti come una specie di consulenti fiscali del peccato e dell'assoluzione. La Chiesa prima di tutto forma le coscienze, per cui chi sbaglia trova nella Chiesa principalmente un aiuto per cambiare la sua vita secondo la luce del Vangelo. La Chiesa non “si limita” ad assolvere il peccatore che confessa di aver rubato o commesso qualche altra mancanza.

La Chiesa, pretende dalla persona che si confessa il riconoscimento del male compiuto e l’ammissione, davanti a Dio, della propria colpa. Il male, poi, va riparato attraverso la restituzione se si tratta di 'cose' rubate, specialmente soldi. Sarebbe troppo comodo presentarsi in confessione, affermare di essere pentiti, ma senza dare indietro il maltolto. E se si tratta di un amministratore in carica (sindaco, assessore) o di un ministro il confessore può imporgli di dimettersi se la sua carica lo porta in futuro a commettere le stesse mancanze, allora è inutile che quel sindaco o quel ministro restino al loro posto: in coscienza bisogna invitarlo a confessare pubblicamente quanto commesso e a ritirarsi.

Ben più gravi sono le violazioni del quinto comandamento: «Non uccidere» (Es 20,13). L’omicidio è il delitto di chi sopprime la vita umana: è il comandamento divino che sanziona l’intangibilità naturale d’ogni essere umano. Dio ha offerto all’umanità il creato, ma nessuno fu posto come “padrone” dell’umanità, perché ogni essere deve rimanere libero per la sua relazione a Dio. Chi viola l’intangibilità umana offende Dio, perché ogni essere umano è sacro ossia riservato a Dio, perché porta la sua immagine e deve a lui orientare la propria vita.

Per questo Dio creatore si rende vindice del sangue versato (cf. Gen 9,5 s.) e chiederà conto anche del sangue del colpevole (cf. Gen 4,15). Ma particolarmente il sangue dell’innocente grida a Dio vendetta contro l’uccisore (cf. Gen 4,10; Ez 24,7). Tollerare, da parte della società umana, condizioni di miseria che portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa ingiustizia e una colpa grave. Quanti nei commerci usano pratiche usuraie e mercantili che provocano la fame e la morte dei loro fratelli in umanità, commettono indirettamente un omicidio che è loro imputabile.

«Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese… Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mai le loro opere. Non forse per questo trema la terra, sono in lutto tutti i suoi abitanti, si solleva tutta come il Nilo, si agita e si riabbassa come il fiume d’Egitto? In quel giorno - oracolo del Signore Dio – farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò la terra in pieno giorno!» (Am 8,4.7-9).

Basso livello della coscienza collettiva

Se si allarga la considerazione ad un orizzonte più vasto è facile mostrare che le strutture ecclesiastiche hanno un retroterra politico e implicazioni politiche. È ovvio che quanti desiderano veramente che si instauri una società partecipativa non continueranno a identificare la “chiesa” con un’autorità centralistica. Ma se si ammette, come noi facciamo, che in politica c’è posto per la libertà creativa e si prendono sul serio le esigenze della responsabilità morale, non si esclude il fatto che molte idee sbagliate in tema di politica possano essere condizionate dalle ideologie prevalenti, dal basso livello della coscienza collettiva.

L’immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire ad una società inquieta decadente e corrotta e per tanti aspetti lacerata, motivi di fiducia, di speranza e di coesione. La gerarchia si è da tempo e sempre più trasformata in una “lobby che chiede e promette lavori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole del messaggio evangelico. Il “popolo di Dio” soffre di questa trasformazione e i laici non trovano terreno adatto al dialogo se non sul piano miserevole di comportarsi anche essi come una confraternita pronta a compromessi o patteggiamenti. Si tratta, ovviamente, di responsabilità condivise. La gerarchia sembra barattare da anni, il sacro con il profano: le istituzioni politiche l’accompagnano su questa strada di compromessi al ribasso per cavarne improbabili tornaconti elettorali.

La teologia e gli uomini di Chiesa devono costantemente saggiare non solamente quello che dicono e fanno, ma anche ciò che omettono di dire e di fare, in considerazione dell’interazione spesso occulta che sussiste tra interessi politici e strutture e pensiero religioso. Dobbiamo chiederci in che modo tutto ciò influisca, o non influisca come dovrebbe, sulla vita politica in senso stretto e in senso più largo. La teologia politica di J.B. Metz si incentra su quel che giustamente viene considerato il cuore della nostra fede-prassi: il memoriale della morte e risurrezione di nostro Signore. Egli esorta vivamente i ricchi e i potenti a chiedersi, alla luce di questo memoriale, perché e come essi provochino sofferenze e come tali sofferenze stiano in rapporto con la passione di Cristo. A tal punto conviene presentare come Bernhard Häring[1] interpreta queste situazioni da un punto di vista storico definendo il legame tra politica e politeismo politico.

Pluralismo nel campo dell’etica politica

È possibile e addirittura inevitabile che vi sia una certa pluralità di etiche politiche, dato che vi è diversità di culture, di bisogni e di opportunità religiose e politiche. La storia ci offre le ragioni e i risultati terrificanti di un’etica politica eretica che si coniugava a un assurdo politeismo politico. Nell’antichità pagana e nel Medioevo, in Europa ogni entità politica aveva i suoi dèi, che proteggevano i conflitti e le guerre da una parte e dall’altra.

Cristiani, ebrei e musulmani hanno combattuto “guerre sante” nel nome di Dio, monopolizzando l’“unico” Dio per i loro interessi nazionali e ideologici. E le guerre nazionalistiche degli ultimi secoli guerreggiate tra nazioni nominalmente cristiane rette da governanti cristiani, non erano in pratica l’espressione di un politeismo politico e di un’etica politica eretica? Il fatto più umiliante è che potenti uomini di Chiesa e intere comunità ecclesiali praticamente “confiscavano” il proprio Dio a servizio del proprio irrazionale patriottismo. Le guerre nazionaliste e in particolare le guerre colonialiste, che si conducevano nel nome dell’unico Dio del credo cristiano, furono tentativi sacrileghi di introdurre il politeismo politico nella religione cristiana.                        

Analogie con la guerra?

Ogni qualvolta si considerano i fenomeni delle mafie e della corruzione come espressioni di violenza e si cerca di affrontare dei rimedi come la “scomunica” sembra conveniente allargare il discorso sulla coscienza personale e politica facendo riferimento al travagliato percorso condotto dalla Chiesa relativamente alla guerra per trarre qualche utile suggerimento. A tale scopo è utile servirsi delle affermazioni di C. F. von Weizsäcker: «Il cristianesimo ha fatto una distinzione tra la guerra giusta e la guerra ingiusta e tra un modo giusto ed uno ingiusto di condurla. Ha fatto una distinzione tra l’etica individuale, che tendeva a riferirsi al Sermone sul monte, e l’etica di responsabilità politica, che comandava di proteggere i propri simili facendo uso delle armi. Tutto ciò ispira rispetto quando implica serietà di impegno. Ma mi chiedo se, dopo aver letto il Nuovo Testamento, posso ancora lanciare una bomba H, e so che la risposta è “No!”. E se non ho il diritto di lanciarla non posso neppure fabbricarla, perché l’adoperi un altro. E se non ho il diritto di fabbricarla perché un altro possa adoperarla, mi è lecito fabbricarla a scopo intimidatorio?... Non credo che la Chiesa possa approvare l’uso della bomba H. Se non è capace di dire di no, dovrà ammettere la sua perplessità sia apertamente sia riducendosi al silenzio. Tuttavia credo che i membri della Chiesa possano essere utili a sè stessi e al mondo intero se, in base a presupposti inequivocabili, dicono chiaramente “No”»[2] (). 

Conclusione

«Nessuna delle sofferenze dell’uomo, nemmeno le più minute e nascoste, sono invisibili agli occhi di Dio. Dio vede, e sicuramente protegge; e donerà il suo riscatto. C’è infatti in mezzo a noi Qualcuno che è più forte del male, più forte delle mafie, delle trame oscure, di chi lucra sulla pelle dei disperati, di chi schiaccia gli altri con prepotenza… Qualcuno che ascolta da sempre la voce del sangue di Abele che grida dalla terra. I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’ “altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti, non vendicatori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti».[3]

 

[1] HÄRING B., Liberi e fedeli in Cristo, vol. 3, Edizioni Paoline: Roma 1981, pp. 412-436.

[2] C.F. VON WEIZSÄCKER, Ethical and Political Questions of the Atomic Age, London 1958, citato da R.H. Bainton, Il cristiano, la guerra, la pace, Gribaudi: Torino 1968, p. 322s (nota 3).

[3] FRANCESCO, Udienza generale, 29.6.2017

Commenti

  • 21/07/2017 granesedonenzo@tiscali.it

    Pur rispettando la scelta che sarà fatta dal Vaticano riguardo al provvedimento nei confronti della corruzione e della mafia, nel leggere l'intervento di Bruno Marra, penso che occorre insistere sulla formazione della coscienza morale.

    Essa è un dato di per se stessa naturale, cioè riguarda l'uomo in quanto tale indipendentemente dal suo credo: ogni essere umano possiede una coscienza morale, non solo coloro che si professano cristiani o semplicemente credenti. Tale coscienza può aiutare a compiere una profonda e significativa opera sociale, culturale ed etica per evitare che adulti, ragazzi e perfino bambini vengano risucchiati nel sistema mafioso. Occorre la capacità di far interagire il rigore e l'umanità visto che i fenomeni mafiosi si sono sviluppati in contesti cattolici pur mettendo in atto una violazione dei comandamenti e dei principi dell'etica cristiana. Con una coscienza morale ben formata si può anche giungere ad un vero pentimento con conseguenze positive per gli altri.

    Ovviamente, questo mio breve intervento andrebbe ben articolato, perché ruota intorno ad alcuni principi e valori fondamentali che si sviluppano secondo determinati criteri di giudizio implicando precisi orientamenti per l’azione. Sono, secondo il mio modesto parere, gli elementi fondanti, che costituiscono quasi la spina dorsale della proposta sociale della Chiesa. Essi valgono per tutti indiscriminatamente, credenti e non credenti, perché sono inscritti nella coscienza di ognuno. La Rivelazione cristiana non fa che illuminarli e chiarirli, rafforzarli e fondarli in modo stabile.

    Tra i valori da annoverare ricorre il primato della persona umana con la sua dignità trascendente; la solidarietà intesa come comunione fraterna per il bene di tutti; il principio di sussidiarietà, che fonda il diritto-dovere di partecipazione responsabile alle scelte comuni; il principio del bene comune, inteso come salvaguardia della qualità umana della vita, non solo perché rispettoso delle esigenze biologiche della natura e dell’uomo, ma anche perché attento alle esigenze superiori, morali, spirituali della vita umana, personale e associativa; infine, la giustizia che aiuta a recuperare il senso del vivere in società, a prendere coscienza dei propri doveri e della propria responsabilità.

    In una parola, occorre ripartire dalla legalità su cui lo Stato si fonda. Sulla base di questi elementi comuni, oggi è possibile fondare un largo consenso etico in grado di animare una cultura politica largamente condivisa, che sia l’anima di una proposta sociale aperta a Dio. Sac. Enzo Granese, Arcidiocesi di S. Angelo dei Lomb. - Conza - Nusco - Bisaccia. 20/07/2017

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