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l'Ospite

Va’ e anche tu fa così

Leggere l’ultima enciclica di papa Francesco vuol dire imbattersi in un discernimento lucido della nostra epoca, frutto di una straordinaria familiarità con le sacre Scritture e di una consolidata attitudine a vagliare i segni dei tempi.

La fraternità universale è una vocazione da Dio scritta nel cuore di ogni uomo e seminata nei «dinamismi della storia» (Francesco, lett. enc. Fratelli tutti, 3.10.2020, n. 96), ma ha bisogno di persone e popoli capaci di superare il calcolo dei rispettivi interessi particolari e di scommettere sul bene comune da cui gli interessi di tutti possono solo trovare arricchimento e speranza.

Nel tentativo di dar voce ai tanti percorsi di speranza che si fanno strada in mezzo alle ombre che si addensano sul presente dell’umanità, il papa sceglie di muovere dall’icona biblica del Buon samaritano.

Com’è noto, la parabola è iscritta in due dialoghi tra Gesù e un dottore della Legge. Nel primo Gesù ascolta la provocazione del suo interlocutore, «Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25), gliela rinvia e quindi valuta positivamente la sua risposta: «Fa’ questo e vivrai». Nel secondo, la domanda posta dal dottore della Legge per giustificarsi, «E chi è il mio prossimo?», gli viene rinviata da Gesù in una forma nuova: «Quale di questi tre ti sembra essere stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Anche questa volta Gesù ascolta la risposta del suo interlocutore e lo invita a seguire l’esempio di colui che ha avuto compassione dell’uomo ferito: «Va’ e anche tu fa’ così».

Nella parabola, Gesù mette in contrasto il comportamento di due rappresentanti della Legge, che vedono l’uomo ferito ma passano dall’altra parte, e quello di un samaritano, straniero ed eretico, che, a differenza dei primi, avrebbe avuto molte ragioni per passare dall’altra parte e, invece, si ferma, preso da compassione, presta le sue cure all’uomo in difficoltà e lo affida a un locandiere, impegnandolo a continuare la sua opera di carità.

«Quale di questi tre ti sembra essere stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Gesù sposta l’oggetto della discussione: l’essenziale non è sapere chi è il mio prossimo, ma diventare il prossimo che ama.

Se uno straniero si è aperto alla Parola segretamente attiva nel concreto della vita, allora anche l’interlocutore di Gesù può scoprirla e metterla in pratica: «Va’ e anche tu fa’ così». Se un samaritano, straniero ed eretico, ha trovato in sé l’ispirazione della misericordia, allora tutti possiamo lasciarci investire dalla misericordia divina.

Quando intraprendiamo il cammino della vita, ci scontriamo immancabilmente con l’umanità ferita e ci troviamo davanti alla scelta di essere viandanti indifferenti oppure buoni samaritani (cf. Fratelli tutti, n. 69). Ci sono tanti modi di passare a distanza: uno è essere indifferenti, un altro è vivere con lo sguardo rivolto al di fuori (cf. n. 73).

Di fronte all’umanità ferita abbiamo la possibilità di generare nuovi processi, di essere buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti (cf. n. 77). È possibile cominciare dal basso e caso per caso, facendoci carico della realtà che ci spetta, non da soli, ma incontrandoci in un noi (n. 78).

La proposta di Gesù è: «Va’ e anche tu fa’ così», cioè farsi presenti alla persona senza guardare se fa parte della nostra cerchia d’appartenenza (cf. n. 81), assumere il suo atteggiamento, facendo nostri i drammi degli altri (cf. n. 84).

Certo nel cuore di ogni uomo e nei dinamismi di ogni epoca della storia Dio ha scritto la vocazione universale alla santità. Ma per camminare concretamente verso l’amore sociale e la fraternità universale, occorre riconoscere la dignità di ogni essere umano e il suo diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente (cf. Fratelli tutti, nn. 101s. 107).

Accogliere questo principio vuol dire investire a favore delle persone fragili, adoperarsi per assicurare che tutti possano dare il meglio di sé (cf. 108-11), riscoprire il valore della solidarietà intesa come lotta per rimuovere le cause strutturali della povertà (cf. n. 116), riproporre la funzione sociale della proprietà.

A proposito della proprietà privata, il papa ribadisce l’insegnamento tradizionale della chiesa: è un diritto naturale ma derivato dal principio della destinazione universale dei beni. La terra infatti è affidata a tutto il genere umano, perché sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno (cf. n. 120).

Se è così, è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere nata o risiedere al di là di certi confini o di certe frontiere (cf. n. 121). Se ogni persona ha una dignità inalienabile e se i beni della terra sono destinati a tutti, allora ogni nazione è corresponsabile dello sviluppo di tutti (cf. n. 125), non solo in quanto singoli, ma anche in quanto popoli (cf. n. 126). Riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e rispettare i diritti che ne promanano è la vera via della pace (cf. n. 127).

Nel cammino verso una pace reale e duratura, ci sono due pericoli a cui prestare attenzione: l’individualismo e il relativismo. Il primo ci impedisce di guardare oltre il nostro piccolo orticello, ispirandoci l’illusione che possiamo essere sani all’interno di un mondo malato. Il secondo offre una soluzione solo apparente ai problemi, perché, sotto il velo di una presunta tolleranza, favorisce un’interpretazione riduttiva dei valori nonchè la soddisfazione delle proprie aspirazioni e necessità immediate (cf. n. 206).

L’unica prospettiva valida è la ricerca di principi universalmente validi che, trascendendo gli interessi particolari, favoriscono la convinzione che ogni essere umano è sacro e inviolabile e merita rispetto (cf. n. 207).

Anche se il relativismo suggerisce il contrario, l’intelligenza umana è in grado di andare oltre la convenienza del momento e di cogliere alcune verità che stanno alla base delle nostre leggi, alcuni valori che derivano dalla natura e che, perciò, sono universali (cf. n. 208). La verità non è quella che il potente di turno o il più abile può imporre, ma quella davanti alla quale il padrone del mondo e l’ultimo miserabile della terra sono assolutamente uguali (cf. n. 209). Se infatti il diritto non si riferisce ad una concezione fondamentale di giustizia, diventa facilmente lo specchio delle idee dominanti (cf. n. 210).

In una società pluralista, la via più adatta per arrivare a riconoscere alcune verità fondamentali e alcuni valori permanenti è il dialogo. Solo grazie al dialogo è possibile raggiungere verità e valori che trascendono i contesti particolari e sono stabili per il loro significato intrinseco (cf. n. 211). Nella realtà dell’essere umano e della società vi è una serie di strutture di base, che sostengono la loro sopravvivenza e il loro sviluppo. Da lì derivano determinate esigenze che si possono scoprire grazie al dialogo, anche se non sono costruite dal consenso. Pertanto non è necessario contrapporre la convenienza sociale, il consenso e la verità obiettiva: esse possono unirsi armoniosamente, quando, le persone hanno il coraggio di dialogare (cf. n. 212).

La dignità inalienabile di ogni essere umano non è qualcosa che noi inventiamo, ma una verità corrispondente alla natura umana, che l’intelligenza può riconoscere come la base di certe esperienze morali universali (cf. n. 213). Per credenti e non credenti questo fondamento conferisce validità universale ai principi etici basilari, così che, al di là degli effettivi sviluppi delle rispettive etiche, rimane sempre uno spazio per il dialogo (cf. n. 214).

«Chi di questi tre ti sembra essere stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? (…) Chi ha avuto compassione di lui (…) Va’ e anche tu fa’ così». Abbiamo sempre da imparare dalla pedagogia divina che ci ascolta e, dialogando con noi, ci aiuta a capire quello che è giusto fare.

La nostra identità non è un ordito fisso, un nostro modo di essere, attorno a cui si dispiegano relazioni e rapporti, lasciandoci come siamo. Tutto il contrario: la nostra identità è il risultato di un cammino, di un travaglio, in cui incontro l’altro-da-me, riconosco il suo bisogno, rispondo a lui con responsabilità, senza volerlo rendere uguale a me. Il mio farmi-prossimo all’altro non è un movimento per cui io rimango me stesso e mi avvicino a qualcosa che è totalmente separato da me: è l’approssimarsi infinito a me stesso, a quell’altro che io sono.

Solo questo pensiero può curarci da quel pericolo che la nostra società corre quando si concepisce come il compimento di una storia, per cui l’altro è da conciliare con noi, da uguagliare a noi. Una civiltà prossima è quella che sente misericordia e ha cura dell’altro-da-sé, lo salva nella sua distinzione e non vuole neanche uguagliare a sé i suoi molti, ma vuole tenerli insieme, senza paura della distinzione (Cf. M. Cacciari, relazione «Prossimo tuo» tenuta al festival della filosofia del 2009, https://bit.ly/3tSAoYj, ultimo accesso 16.03.2021).

 

Leonardo Giannone

Leonardo Giannone è docente di Teologia morale fondamentale presso l’ISSRM di Lecce «Don Tonino Bello».

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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