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l'Ospite

Le religioni nello spazio pubblico

Sono due i fattori favorevoli alla libertà del pensiero prodotti dalla globalizzazione. Il primo è l’inevitabile mescolanza delle religioni negli stati a causa delle migrazioni. Il secondo è che questa concorrenza delle religioni con lo sviluppo della libertà di coscienza implica un movimento di riconoscimento dell’adesione personale a forme di individualizzazione delle credenze religiose. Ciò comporta un’offerta di religioni che permette la scelta all’individuo, ma in questo modo la verità religiosa perde sul mercato delle credenze la sua serietà: diventa una verità usa e getta.

Questo fenomeno è più complesso di quanto possa apparire a prima vista. Il concetto di religione non è univoco, perché ci sono attitudini religiose diverse, opposte, addirittura interpretazioni storicamente contrarie delle stesse religioni. Per affrontare il legame fra religioni e libertà di pensiero bisogna studiare una realtà plurale, diversa nella sua storia e nelle forme che essa prende nella situazione attuale.

Oggi si sviluppano anche tendenze opposte di chiusura religiosa. Sono le forme più ritualizzate, più opprimenti a occupare il palcoscenico mondiale: forme di conformismo sociale che implicano una subordinazione totale dell’individuo alla comunità, in particolare attraverso il controllo del corpo, soprattutto delle donne.

Le religioni si muovono fra il riconoscimento della soggettività individuale e la chiusura all’interno della comunità. Solo all’interno di una comunità sei un qualcosa di particolare, non uno qualunque. La comunità si vuole universalistica, ma il suo valore universale vale come condanna di coloro che non ne fanno parte. Questo universalismo esclusivo all’interno della comunità abolisce razze, stirpe, legami di sangue; pretende di far venire meno le differenze sociali. Quanti invece non si riconoscono nell’universalità della comunità sono ridotti a pura particolarità e la loro spiritualità è considerata inferiore.

Il paradosso questa volta è che la concorrenza fra religioni e il nuovo localismo di fronte alla globalità fa rinascere la strumentalizzazione politica delle religioni. Così si crea una forma di secolarizzazione della religione, ove Dio serve a tutto e a tutti e c’è una risacralizzazione dello stato che si appoggia di nuovo sulla tradizione religiosa come tradizione nazionale, come identità politica. La comunità religiosa si sovrappone alla comunità nazionale, e spesso all’appartenenza etnica.

Le comunità sono tanto più chiuse quanto più sovrappongono i loro criteri di definizione: il carattere religioso si mescola col carattere nazionale ed etnico. Nel legame fra nazionalismo e religione, quest’ultima diventa un modo di affermarsi di uno stato nella concorrenza mondiale. Così se le religioni nelle società occidentali non possono più avere il controllo delle coscienze, provano a ottenerlo in modo indiretto attraverso il controllo dei corpi. Dunque è chiaro che il rapporto pubblico delle religioni a se stesse non è religioso, ma politico.

C’è, comunque, un senso nel quale è una fortuna che le relazioni fra religioni siano politiche: solo una sfera pubblica politica può proibire che l’universalismo esclusivo si trasformi in una guerra. Lo spazio pubblico delle religioni è politico, non è religioso. Oggi le grandi religioni sono dunque inserite in fenomeni dalle tendenze opposte, parziali, contraddittorie. L’universalismo esclusivo le rende direttamente forze globali, ma inserite in compagini statali circoscritte, opposte ad altre religioni o credenze, in contesti multiculturali internamente contraddittori. La comunità non coincide più con l'organizzazione statuale del diritto. La comunità sviluppa anche un’altra forma di credenza: la fiducia. Questa forma di fiducia si può trasformare in fanatismo quando la comunità che ne è portatrice si trova minacciata.

Così si arriva a un triplice legame in una comunità chiusa: padronanza sul corpo, fiducia come relazione alla comunità e integralismo ideologico. La comunità chiusa controlla lo spirito attraverso il controllo del corpo. Questo controllo si produce sotto forma di fede e fedeltà, contraddetto però dal contenuto della credenza stessa. La comunità chiusa richiama la fedeltà dei membri, perché nel suo seno pone fine alla concorrenza tra le credenze. La libertà del pensiero non viene dalla tolleranza religiosa, ma dall’organizzazione politica di questo spazio e dagli uomini di buona volontà che lo abitano.

Nella situazione globale di oggi i rapporti fra le religioni, se sono politici, non sono statali. Bisogna distinguere politica e Stato. La forza politica delle religioni non proviene più dal sostegno degli stati, ma viene dalla loro rete sociale e “umanitaria”, in un contesto in cui l’azione umanitaria occupa il posto dei diritti sociali. La laicità non si riduce, insomma, all’organizzazione statale dei culti, perché questo spazio si comprende come il luogo della multiculturalità e della globalizzazione nell’organizzazione dello Stato. Questo spazio non è un’organizzazione, perché induce la pluralità delle organizzazioni; non è una comunità, perché organizza il coesistere delle comunità; non si riduce all’apparato statale.

La libertà di pensiero comincia quando si nega l'esclusività della credenza e la sua universalità. Ciò non implica che si cada in un relativismo, in cui è indifferente essere cattolico, ateo, buddhista o musulmano, perché si distingue la verità dall’atto con cui la si riconosce; perché lo spazio di coesistenza delle religioni non è quello della verità, ma quello del riconoscimento della verità e della ricerca della stessa. Dunque l’obiettivo del spazio della laicità non è solo la pace civile, ma, anche, la cooperazione alla ricerca. La laicità non significa relegare le religioni nella sfera privata, emarginate su isole deserte del campo sociale. L'attacco del fanatismo religioso attuale pretende di ridurre la logica del senso del mondo, della vita e dell’azione a una logica della verità esclusiva. Invece la verità presuppone il senso, nonché regimi di significazione che si mettono alla prova, senza possibilità di ridurre i diversi sistemi di significazione all’unità di un regime di verità esclusivo. Ecco la fonte della necessità dell’interpretazione e del rigetto della lettera come legge assoluta. Pertanto, l’uguaglianza dei figli di Dio si contraddice sulla soglia della verità. Lo spazio pubblico non conosce questa soglia, non distingue questa prossimità, se non nel senso di Gesù stesso, per il quale il prossimo non si oppone al lontano, allo straniero. Lo spazio pubblico li riconosce tutti uguali di fronte a un terzo: questo è un posto vuoto, il posto di una ragione che si deve costruire, che si costituisce, ma che non è un dato.

Dunque, la laicità non significa il rigetto del sacro o delle religioni, ma il rigetto della sacralizzazione, della definizione della sfera pubblica secondo un senso sacro. La sua neutralità non denota l’assenza di espressione pubblica, ma la negazione di spazi sociali sacralizzati. Non è rigetto, ma organizzazione delle condizioni secondo le quali le forme di autorità si possono affermare socialmente. E socialmente, solo la pluralità di autorità può esprimersi. La sfera pubblica globale, che si forma oggi secondo svariate modalità, diventa la prova delle religioni, perché non appartiene più alla logica del sacro, alla logica del sacrificio, dunque diventa realmente una condizione della libertà del pensiero.

Una simile prospettiva non intende affermare che le religioni in quanto tali non hanno alcuna parte positiva nella costituzione delle condizioni della libertà del pensiero. Il loro ruolo viene stabilito dalla relazione che instaurano con la politica. La politica non si riduce alla sfera del potere e della Stato. Lo spazio multiculturale della laicità non è uno spazio statale. Tuttavia questo tipo di spazio pubblico non è altro che una sopravvivenza nell'ambito della globalizzazione, la quale proibisce la fusione, la comunione dell’identità nazionale con l’identità statale e culturale. Lo spazio pubblico non può essere che uno spazio limitato, parziale, riflettendosi in immagini frantumate.

Commenti

  • 19/01/2018 marra.b@gesuiti.it

    Di fronte all’insoddisfazione per un presente più subìto che vissuto, e soprattutto di fronte allo smarrimento e al disagio per la perdita della dimensione del tempo come memoria e come progetto – sfrattata dalla signoría dello spazio – e nel contesto di un deficit, quello del tempo e della storia, il cui prezzo maggiore è pagato dalle nuove generazioni che riducono la vita a unica proprietà dei viventi e non anche dei trapassati e dei nascituri, lo spazio pubblico delle religioni potrebbe aprire un varco ad una ipotesi “altra” che troverebbe una delle sue ragioni nel carattere ultroneo del cristianesimo che richiama sempre alla memoria la provvisorietà rimettendo sempre in discussione il tentativo di fraintendere la religione come autoaffermazione del singolo o come assicurazione dell’ordine sociale.

    Difatti come fondamento dell’ordinamento politico-giuridico e della cultura, la religione si presenta nella sua ambiguità vera e propria. Dalla religione derivano impulsi originari per lo sviluppo della cultura e civiltà, tanto che questa non può essere compresa senza riguardo alla sua origine religiosa. Gli ordinamenti giuridici e le forme di governo vengono legittimati religiosamente. D’altro lato la religione è orientata, per sua propria natura, già per il fatto che essa tende ad esprimersi nelle forme mediatrici del culto e della comunità, a suscitare cultura (arte, poesia, musica, idee filosofiche) e forme di vita sociale.

    Nell’unità universale di religione e cultura, di religione e dominio politico, la religione acquista una presenza corporea, la cultura e l’ordine sociale acquistano la più alta obbligatorietà. Ma proprio in questa congiunzione universale, la religione corre il rischio di perdere la sua differenza essenziale rispetto al potere politico e alla cultura.

    A questo proposito bisogna naturalmente notare che il cristianesimo, come forma escatologica della religione, ha, in modo profetico e istituzionale, la capacità indistruttibile di sapersi sempre nuovamente distanziare, nella sua essenza, dalla sua non-essenza. In questo senso appare quanto mai appropriato il murale posto all’inizio della Nota perché con il suo carattere allusivo e con la sovrapposizione dei piani indica indefettibilmente la complessità del problema.

  • 17/01/2018 granesedonenzo@tiscali.it

    Se si considera come chiave di lettura "libertà di pensiero", probabilmente penso che si riesca ad avere una lettura trasversale del testo.

  • 16/01/2018 daniluc@katamail.com

    Mi pongo qualche domanda: ma non è sempre stato così ancor prima della globalizzazione, c'è sempre stata la mescolanza delle religioni, la chiusura all'interno delle comunità ha sempre dato sicurezza, dai primi cristiani nelle catacombe ai seguaci di James Jones che si suicidarono in massa. Il fanatismo religioso è sempre stato una forma di difesa (i pellerossa sterminati dai protestanti nordamericani), anche il controllo sul corpo maschile o femminile che sia mi pare sia sempre esistito, a cominciare dal mondo dell'arte (i braghettoni di Michelangelo). Infine, secondo me, laicità non è il rigetto della sacralizzazione (anche se, non so se non capisco io Granese o è lui che non è chiaro) ma fare un passo indietro o di lato rispetto ad essa.

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