Una sofferenza sottile e profonda
Le cattoliche hanno a lungo sperimentato il peso dell’antico e tuttora persistente “impedimentum” nei confronti del sesso femminile. Il desiderio di superarlo ha dato origine anche a diverse forme di spiritualità femminile “sacerdotale”.
Il documento finale del Sinodo dei vescovi sui giovani (27 ottobre u.s.) ha parole d’inedita chiarezza e apertura nei confronti di quella che, con un’espressione forse un po’ abusata ma efficace, possiamo chiamare l’altra metà della Chiesa. Il testo parla esplicitamente (n. 148) di un dovere di giustizia che tutta la Chiesa deve assolvere per quanto riguarda la presenza delle donne negli organi ecclesiali, anche in funzioni di responsabilità, e per la partecipazione femminile ai processi decisionali. Resta forse da dire altrettanto chiaramente che non ci sono strutture o soggetti della Chiesa che possano considerarsi esentati da questo compito, anche innovando, se necessario, e in virtù di un coraggioso esame del passato. Ci pare lecito pensare, infatti, che la questione della partecipazione femminile alla sfera decisionale sia lungi dall’essere accolta e che agisca ancora in profondità un “impedimento” che molto ha a che fare con la disparità tra i sessi che nei secoli ha caratterizzato la storia della Chiesa.
Nel commentare il documento sinodale, non a caso, l’americana Women’s ordination conference (WOC) parla di tristezza per il mancato richiamo alla domanda femminile di voto negli organi ecclesiali e, soprattutto, per l’assenza di ogni riferimento al desiderio femminile di accesso al ministero ordinato, che nel mondo anglosassone è ormai ritenuto il vero nodo della discussione attuale. Credo che sia possibile convergere con la WOC, se non su tutte le affermazioni, almeno nel riconoscere questa tristezza come effettivamente presente – e non da oggi – tra le credenti, e chiedersi se e quanto essa abbia segnato la vita delle donne cattoliche e delle comunità ecclesiali.
Tracce di un desiderio
Per l’età contemporanea, grazie agli studi di Claude Langlois sappiamo che un desiderio frustrato di sacerdozio si manifesta con chiarezza già in santa Teresa di Lisieux (1873-1897) e forse oggi, con uno sguardo reso più attento dalla nostra sensibilità sul tema, non è del tutto improbabile riuscire a scorgere una complessità fin qui insospettata riconducibile alla stessa domanda: tracce, cioè, di un’esigenza femminile di un ruolo diverso nella Chiesa, presente ben prima che una rivendicazione formale di accesso al sacerdozio venisse presentata, e che matura progressivamente tra ‘800 e ‘900 anche grazie alle trasformazioni complessive della cittadinanza femminile nella società occidentale.
Pur senza voler introdurre alcuna forma di semplificazione, possiamo ipotizzare che determinate devozioni, declinazioni spirituali, fondazioni di nuove opere potrebbero essere viste anche come una forma di ideale “superamento” dello strutturale dislivello che caratterizza la posizione femminile nella Chiesa. Correndo il rischio dell’asistematicità si potrebbe indicare, ad esempio, quella curvatura particolare della devozione al Sacro Cuore che portava alla riparazione sacerdotale e che si ritrova diffusa tra molte nuove fondazioni femminili tra XIX e XX secolo, alcune sviluppatesi concretamente, altre rimaste allo stadio di progetto e magari finite nelle maglie del Sant’Uffizio: la vocazione, cioè, al sacrificio e all’immolazione finalizzati alla santificazione del clero, soprattutto se in cura d’anime. Erano forme di spiritualità capaci di coniugare la preoccupazione per le sorti della Chiesa nella società moderna e il desiderio di espiazione per le defezioni dei sacerdoti, mentre per converso gli esponenti della gerarchia esprimevano un diffuso fastidio nei confronti di queste esigenze: «Già tutto questo zelo muliebre per il Clero rende sospetto l’Istituto!»[1].
Oltre il “destino” femminile
All’interno di queste devozioni era frequente l’uso di una simbologia e una ricerca di significati che tendevano a fuoriuscire dalle letture tradizionali della natura e del “destino” femminile, e questo soprattutto grazie al ruolo – allo stesso tempo – esemplare ed eccezionale della Vergine nel piano della salvezza. Così, ad esempio, è possibile oggi leggere il culto alla «Virgo sacerdos» sviluppato dalle Figlie del Cuore di Gesù: una piccola famiglia religiosa fondata nel 1872 dalla (ora beata) Maria Deluil-Martiny (1841-1884) e approvata nel 1902, ma successivamente incorsa nell’intervento censorio del Sant’Uffizio, in particolare per le immagini mariane collegate alla devozione. Riflessioni analoghe, unite ad una spiritualità vittimale a sostegno del clero secolare, caratterizzano anche le origini delle Orsoline di Siena, fondate da Bianca Piccolomini Clementini nel 1917; e ancora le Figlie della Regina degli Apostoli, sorte nello stesso periodo per iniziativa di Elena Da Persico, la quale testualmente così insegnava loro a pregare: «Maria, Regina degli Apostoli, intercedeteci buoni sacerdoti».[2]
Ancora più vicina a noi, poi, sembra la ricerca spirituale di Marie de la Trinité, delle domenicane missionarie delle campagne, che nei carnets lascia testimonianza di tutta una serie di intuizioni sul suo personale ruolo sacerdotale: un sacerdozio inteso non solo a beneficio dei preti, ma anche e soprattutto vissuto in loro nome, in forma di supplenza rispetto alla mancanza di fedeltà con cui per svariate ragioni molti prelati vivono la loro missione.
Si tratta di storie di spiritualità femminile poco note o addirittura cancellate, com’è avvenuto per la devozione alla «Virgo sacerdos»; storie che in ogni caso sono state lette separatamente l’una dall’altra, senza connetterle ad un percorso storico più complessivo legato all’evoluzione dei rapporti tra i sessi nella Chiesa. Storie che esprimono una sofferenza, direi, legata alla disparità che il cattolicesimo ha stabilito tra i sessi anche in ordine alla vocazione religiosa. Le protagoniste di queste esperienze, infatti, ci appaiono accomunate da un’idea elevatissima del sacerdozio, un’idea facilmente indotta a misurare lo scarto rispetto alla realtà di fatto; nello stesso tempo esse sono mosse da un’identificazione personale con l’ideale, in maniera tanto più forte quanto maggiore è il percorso di autoconsapevolezza personale compiuto. E chissà quante altre “figure” di questa tristezza femminile potranno essere portate alla luce, nel futuro, grazie ad un maggiore scavo storico…
Se nel 1890 la suffragista inglese Lidya Becker, a proposito della mancanza del diritto di voto, parlava di una sofferenza sottile e profonda, non è forse lecito chiedersi – mutatis mutandis – se non si possa parlare di una sofferenza profonda e sottile anche per le credenti in relazione allo squilibrio patito nella Chiesa?
[1] Cfr. B. Fassanelli, «Mentre vediamo che un falso misticismo va dilagando». Esperienze mistiche e pratiche devozionali nella serie archivistica del sant’Uffizio ‘Devotiones Variae’ 1912-1938, «Ricerche di storia sociale e religiosa», XL/79, 86.
[2] E. Da Persico, Lettere ai direttori spirituali, Morcelliana, Brescia 1998, 119.
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