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Popolo delle beatitudini

Tutti i santi

Ap 7,2-4.9-14; Sal 24 (23); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

Il chi, il come e l’esito. Nella solennità di Ognissanti e nella commemorazione dei defunti (terzo schema) il lezionario presenta il testo di Mt 5,1-12. Abbiamo così l’occasione di ascoltare e riflettere a distanza ravvicinata sulle stesse parole in contesti celebrativi neppure troppo diversi.

Nel primo celebriamo i credenti in gloria, in particolare i martiri (cf. Ap 7,9.14) e in generale coloro che hanno vissuto secondo lo stile delle beatitudini, i santi, conosciuti o meno; nel secondo coloro che sono morti, e anch’essi hanno avuto, consapevolmente o no, lo stesso riferimento vivendolo in uno stile per così dire agonico (cf. Sap 3,5) o di combattimento con molteplici possibilità di testimonianza. A colorare diversamente la lettura delle beatitudini è dunque la prima lettura, che in entrambi i casi sottolinea lo scarto tra la prova e il premio.

Volendoci però concentrare sul testo di Matteo, di cui sono già state evidenziate struttura e caratteristiche dai molti commentatori antichi e moderni, conviene limitarsi a poche cose.

È superfluo notare come il testo abbia radici profondissime nel Primo Testamento. A partire dal luogo in cui tutto si svolge. Si tratta de «il monte» (to oros, v. 1) dove l’articolo, più che aver valore determinativo, può essere trascrizione dell’enfatico aramaico che sottolinea l’antitesi tra due insegnamenti, ripresa in 5,17.21.27 ecc. (Le Déaut).

Alla base però c’è il tema della controversia tra i monti, che compare anche in Sal 6,16-17, dove si contrappone il Sion, monte del Tempio ma di altezza modesta, alle montagne di Bašan o, in questo caso, al Sinai, legato alla persona di Mosè e alla Torah. Luogo modesto il monte, ma grande insegnamento in prosa ritmata, che invita a guardare ciò che già c’è, ossia il Regno. Il Regno infatti è proclamato presente (estin, vv. 3.10), e il progetto di vita è guardare dentro e oltre le pesanti situazioni esistenziali per vederne la presenza.

Chouraqui, traducendo questi versetti, coglie il dinamismo insito nella differenza dei tempi verbali: il presente ai vv. 3.10 e il futuro negli altri versetti. Il Regno c’è già, ma le difficili situazioni dei credenti impongono una visione in profondità e in avanti: en marche.

Beatitudini quindi come visione del futuro dentro il presente. Non una promessa lontana, ma uno sguardo profetico sul qui-e-adesso, e un’ottica di grande speranza.

Gesù non detta una legge in senso stretto e non pone condizioni, non esorta a essere poveri, dice piuttosto che una realtà negativa è di fatto una realtà salvifica.

Tutto il Primo Testamento prende le distanze dalla povertà, che non piace a Dio, il quale però sta sempre dalla parte dei poveri, protagonisti, in particolare, dei Salmi, in cui il povero/umile chiede costantemente di essere risollevato, aiutato, confortato, o quanto meno che Dio «faccia uno» o «unifichi» (yaHed, Sal 86,11) il suo cuore per attingere nella povertà al timore del Nome, ovvero a una vita conforme alla fede nel Dio unico.

Povertà, dolore, umiltà, fame di giustizia, misericordia sono termini che ci riportano tutti alle condizioni e alla storia dell’esodo, allorché Dio udì il grido del suo popolo e scese per liberarlo (cf. Es 2,23ss, 3,7-8).

In effetti è Dio il vero protagonista e il centro delle beatitudini, che propongono un modo di vivere e di pensare la vita in rapporto a lui, come sottolineano i verbi al passivo divino (vv. 4.6.7.9).

Il popolo delle beatitudini è, comunque, un popolo chiamato a un esodo fino all’ingresso nella terra. Non a caso gli è promessa appunto la terra (̛ereṣ, v. 5) che, quando non sia specificato altro, nel Primo Testamento è sempre la terra d’Israele. Alla base, com’è noto, di Mt 5,5 sta Sal 37,11, nella cui trasposizione sapienziale della tematica esodica la terra è una specie di Leitmotiv (vv. 3.9.11. 22.29).

La celebrazione di Ognissanti è anche la celebrazione di questa terra comune e condivisa, una terra nuova dove dimora la giustizia e che è donata da Dio ai suoi testimoni come dimora perpetua (ûšükön lü`ôläm, v. 27, «e sarà stabile la tua dimora per sempre»), in cui tutti coloro che hanno chiesto e ricevuto un cuore unificato vedono svelato il senso delle loro fatiche.

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