Padre
XVII domenica del tempo ordinario
Gen 18,20-32; Sal 138 (137); Col 2,12-14; Lc 11,1-13
Il Padre nostro è comunemente definito come «la preghiera che Gesù ci ha insegnato». L’espressione la si deve al fatto che essa è presente in due Vangeli, in contesti peraltro molto diversi tra loro.
In Matteo la preghiera, inserita nell’ampio «Discorso della montagna», è introdotta da: «Voi dunque quando pregate dite così» (Mt 6,9-12); in Luca è invece posta in continuità tanto con il pregare solitario di Gesù quanto con la richiesta da parte dei discepoli di avere una preghiera che li identificasse: «“Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate dite”» (Lc 11,1-2).
Nelle due versioni la clausola introduttiva è la stessa, muta però quanto la precede. In Luca vi è una richiesta in sintonia sia con una preghiera a sua volta tutta imperniata sul chiedere, sia con versetti successivi incentrati sul domandare e sul bussare (cf. Lc 11,5-13). In ciò si trova la pertinenza di quella ambientazione. La preghiera di Gesù è costituita tutta di domande: in Matteo sette, in Luca cinque (mancano «Sia fatta la tua volontà» e «Ma liberaci dal male»). Gesù, quindi, risponde alle richieste dei discepoli ponendone altre rivolte al Padre. Le vere domande vanno dirette sempre a Lui.
Di fronte all’istanza dei discepoli di avere una preghiera distintiva del loro gruppo, Gesù propone una formulazione che inizia con il semplice termine «Padre». Rispetto a Matteo (e alla Didachè, l’altra fonte antica) non c’è il «nostro». È un insegnamento anche questo: davanti a una pretesa di definire un insieme specifico di persone, invece di proporre un aggettivo possessivo, esposto, per sua natura, al rischio di farsi irretire in una dimensione identitaria, si ricorre a un sostantivo tanto più grande quanto più spoglio: «Padre». Rimane il fatto che tanto nella recitazione liturgica quanto in quella personale è da sempre prevalsa la versione di Matteo.
In questa stagione di trapasso, a rendere un po’ dissonante (o, per essere più ottimisti, polifonica) la recitazione comune inserita nel corso della messa è la richiesta: «E non abbandonarci alla tentazione».
La versione è stata approvata ma non è ancora entrata ufficialmente in vigore. Ci troviamo in una fase intermedia. Per avanzare un paragone profano: è come nel periodo in cui circolavano sia la lira sia l’euro. Nell’assemblea dei fedeli alcune bocche continuano a ripetere «non ci indurre in tentazione», mentre altre dicono «e non ci abbandonare alla tentazione» (qualcuna invero propone anche una terza formulazione: «e non ci abbandonare nella tentazione»). È una situazione transitoria, ma almeno per certi tratti si ha l’impressione che sia anche simbolica.
Tra le domande che formano la preghiera di Gesù, una sola chiede al Padre di «non fare». Nei Dieci comandamenti, la cui osservanza spetta agli esseri umani, prevale il «non» (non avrai altri dèi di fronte a me, ecc.; cf. Es 20,1-17); nelle richieste rivolte al Padre la preminenza tocca invece all’agire positivo da parte di Dio. Vi è un’unica eccezione, quella relativa alla tentazione.
«Kai me esenenkes emas («e non indurci»). Il testo fa ricorso a una particolare forma (si tratta di un congiuntivo aoristo dal valore volitivo) del verbo eispherein. Il suo significato è «immettere», «introdurre», «collocare in una certa realtà». Il latino inducere («et ne nos inducas») è una resa fedele del greco, significa infatti «condurre dentro, introdurre». Il calco dal latino presente nell’italiano «indurre» è fuorviante là dove fa balenare l’idea di un’intenzionalità.
Peirasmos è «tentazione», ma anche «prova». Alle sue spalle c’è una lunga storia che giunge fino alle vicende dell’esodo dall’Egitto (ma si potrebbe risalire anche più indietro per arrivare ad Abramo, Gen 22,1). Nel corso della quarantennale peregrinazione di Israele nel deserto più volte si fa ricorso al verbo «tentare» o «mettere alla prova». Ma chi «tenta» e chi «è tentato»? Il popolo mette alla prova Dio quando gli domanda di essere fedele alla sua opera di liberatore (con il forte rischio di cadere nell’hybris), e Dio mette alla prova il popolo quando domanda di restargli fedele in un deserto in cui non è dato vedere alcuna terra promessa.
La richiesta del Padre nostro è però formulata in negativo. Ci sono prove troppo dure da reggere. Gli ultimi versetti del Vangelo di questa domenica esprimono una grande fiducia (cf. Lc 11,9-12), tuttavia essi, per certi versi, sono come un raggio di luce che rende più oscura la vista quando si entra nella penombra. La preghiera non esaudita è anch’essa un’esperienza reale: «Mio Dio grido di giorno e non rispondi; di notte e non c’è tregua per me» (Sal 22,3). Gesù nell’orto disse: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice» (Mc 14,36).