Oggi, se ascoltaste la sua voce
III domenica del tempo ordinario
Ne 8,2-4.5-6.8-10; Sal 19 (18); 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21
La liturgia di questa domenica, in virtù di un salto di tre capitoli, ci pone di fronte a un doppio inizio: il primo è il Vangelo di Luca inteso come libro (cf. Lc 1,1-4), il secondo è l’evangelo compreso come «buon annuncio» (Lc 4,14-21).
Le prime righe dichiarano apertamente l’esistenza di una distanza temporale; esse espongono quanto altri hanno già raccontato e dichiarano che, ancor prima, ci furono testimoni oculari; per Teofilo, e quindi potenzialmente per ogni lettore, si è entrati nel momento della conferma di quel che già si era appreso. La seconda scena è invece il racconto dell’annuncio iniziale avvenuto nella sinagoga di Nazaret. Per Luca è già un ricordo; dal suo canto, la liturgia domenicale compie un passo ulteriore: siamo di fronte a un ricordo di un ricordo. Eppure nella ripetizione settimanale c’è qualcosa che ci rimanda all’origine.
Dopo il battesimo di Giovanni, Gesù, riempito della potenza dello Spirito Santo (cf. Lc 4,14) torna a Nazaret dove partecipa, «secondo il suo solito» (Lc 4,16), alla liturgia sabbatica. Gesù si era quindi recato già più volte in quella sinagoga; in tal modo si era inserito nella tradizione, nata in Israele, di celebrare Dio attraverso la liturgia della Parola. «Secondo il suo solito» è espressione che indica l’accettazione della ciclicità propria di realtà che si ripetono settimana dopo settimana, anno dopo anno.
All’epoca di Gesù la liturgia sinagogale non era ancora fissa; tuttavia al suo centro vi era comunque la proclamazione della Parola. Secondo quanto ci attesta l’altra opera lucana, gli Atti degli apostoli, al sabato venivano lette dapprima una sezione tratta dalla Torah (Pentateuco), poi una proveniente dai Profeti, infine vi era l’omelia (cf. At 13,12-16). A Nazaret non ci è riferita la presenza della sezione, a tutt’oggi più ampia e qualificante, della liturgia sabbatica, vale a dire la parashah tratta dalla Torah; tutto infatti si concentra su un passo del libro del profeta Isaia dove si parla di «lieto annuncio» rivolto ai poveri (cf. Lc 4,18-19; Is 61,1-2). Per dirla con Lutero, qui si tratta di Evangelo, non di Legge. Gesù ripete quanto era già scritto; le sue parole, poste come sigillo di quelle di Isaia, sono però inedite e irripetibili.
Tutto si concentra in questa frase: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che avete ascoltato» (Lc 4,21). L’apertura e l’adempimento del testo sono legati alla capacità di udire, di abbandonare gli orecchi chiusi e lo spirito di torpore che ci attanaglia (cf. Is 29,10; Rm 11,8). «Gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4,20), in quel frangente l’udito valeva però più della vista. Per chi ascoltava Gesù nella sinagoga di Nazaret la capacità di udire passava attraverso l’accoglimento del «buon annuncio».
Se così si potesse dire, l’adempimento non avviene in virtù propria. Anche a Nazaret è come se fosse risuonato il versetto del Salmo «Oggi, se ascoltaste la sua voce» (95,7); nella sinagoga della sua cittadina Gesù anticipa, implicitamente, quanto avrebbe detto a commento della parabola del seminatore: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti» (Lc 8,8; cf. Mt 13,9; Mc 4,9). Il «buon annuncio» si adempie solo se accolto, cioè soltanto se vi è un udire che apre alla messa in pratica (cf. Lc 6.47-48; Es 24,7).
Quel sabato nella sinagoga avvenne quanto non si è più ripetuto. L’ascolto però non fu di tutti. Alla fine della liturgia Gesù avrebbe detto: «Nessun profeta è ben accetto nella sua patria» (Lc 4,23); in un sabato successivo la sinagoga sarebbe stata quella di Cafarnao (Lc 4,31-37). «Oggi, se ascoltaste la sua voce» (Sal 95,7); il versetto vale anche per noi.