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Neppure un capello

XXXIII domenica del tempo ordinario

Ml 3,19-20; Sal 98 (97); 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

Luca (al pari di Marco 12,41-44) colloca il discorso in cui Gesù intreccia la fine del tempio di Gerusalemme con quella del mondo (cf.Lc 21,5-36) subito dopo il breve brano dedicato all’obolo della vedova (cf. Lc 21,1-4). L'aggancio immediato è costituito dal fatto di trovarsi nel tempio: dapprima la vedova getta le sue due monetine nel tesoro del santuario, poi alcuni parlano delle belle pietre e dei doni votivi del tempio, infine Gesù annuncia che verranno giorni nei quali di quel sacro edificio non rimarrà pietra su pietra (cf. Lc 21,5-6).

Forse celato in questa successione vi è un nesso più profondo di quello connesso all’edificio. Il Vangelo annota che l’anonima vedova, nella sua miseria, aveva offerto «tutto quello che aveva per vivere» (Lc 21,4). Con questo atto estremo ella simbolicamente attesta lo spirito e il comportamento da assumersi nel corso delle persecuzioni e degli sconvolgimenti finali: affidarsi a Dio.

I Vangeli, come il resto della Scrittura, conoscono bene il comando di operare attivamente, sanno che l’amore di Dio va coniugato con quello del prossimo (cf. Lc 10,25-28), a essi è però anche noto che nell’esistenza delle persone e del mondo ci sono situazioni nelle quali la bilancia pende in maniera determinante dalla parte del patire. In quei frangenti a operare sono altri. Così avviene nell’impotenza, così ha luogo nella persecuzione. Nel primo caso può capitare che l’azione altrui sia improntata al soccorrere (in Luca l’amore del prossimo è esemplificato con la parabola del «buon Samaritano», Lc 10,29-37), nel secondo si subisce la violenza esercitata da altri esseri umani.

Il finire è posto all’insegna del patire. Ciò vale per le persone, per i luoghi sacri e per il mondo intero. Nessuna di queste tre realtà è sottratta alla distruzione. Rispetto al finire per gli individui ci può essere il tentativo di anteporre un «eu» alla propria morte. «Buono» qui significa avvolgere di dolce torpore il proprio tramonto. Le antiche «compagnie della buona morte» miravano ad altro, al dopo e non al qui e al non più ora. Non esiste, però, un «eu-martirio», né si dà (anche se a volte ci si è illusi del contrario) una eu-fine della storia del mondo. La verità contenuta nel discorso apocalittico sta esattamente in ciò: per risorgere bisogna prima morire.

I cieli nuovi e la terra nuova dove abita la giustizia (cf. 2Pt 3,12) sopraggiungeranno dopo la scomparsa di questo mondo vecchio, in cui dilaga l’ingiustizia. Il martire testimonia (questo è il suo etimo) a un tempo la provvisorietà dell’enorme ingiustizia attualmente presente nel mondo e la certa speranza che arriverà una realtà nuova in cui regnerà la giustizia (cf. Ap 6,9-11). A suo modo lo aveva compreso anche Max Horkheimer quando, in La nostalgia del totalmente altro, scrisse: «La teologia è la speranza che, nonostante l’ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola». Espressione indimenticabile, specie se si sostituisce «fede» a «teologia».

Di fronte al morire si subisce; il testimone è colui che risponde alla passività a cui si è consegnati affidandosi a Dio: «Con la vostra perseveranza [alla lettera «pazienza» yponome] salverete la vostra vita» (Lc 21,19). Per questo si deve rinunciare anche all’autodifesa: «Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parole di sapienza cosicché i vostri avversari non potranno resistere né controbattervi» (Lc 21,16). Non si tratta di prevalere dialetticamente. In questo gioco estremo è in ballo la vita. Le parole di sapienza sono in realtà parole di speranza. La morte è il luogo ultimo in cui ci si affida. Luca mette in bocca a Gesù morente queste parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46; Sal 31,6).

In mezzo alle catastrofi più grandi si afferma: «Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (Lc 21,18). Anche nel linguaggio biblico l’immagine esprime una forma alta di tutela (cf. 1Sam 14,45; At 27,34). Com’è possibile che sia così, in mezzo alla distruzione che coinvolge tutto? C’è una sola risposta: ai giusti tutto sarà restituito.

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