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L’insuccesso della predicazione

XV domenica del tempo ordinario

Is 55,10-11; Sal 65 (64); Rm 8,18-23; Mt 13,1-23

Le parabole ci ricordano che l’importante è raccontare, o almeno che si può sempre raccontare e ancora che il racconto ha maggiore efficacia di qualunque discorso esortatorio o dottrinale. Si tratta di un’arte e di un sapere antico, presente in tutte le culture, che a poco a poco costruisce tradizioni che confluiscono in diversi generi letterari. La parabola in particolare, accostando realtà quotidiane espresse in maniera esplicita a realtà eterne che devono essere scoperte e comprese, si basa sulla convinzione che l’uomo è immagine di Dio ed esiste perciò una linea di continuità tra mondo umano e mondo divino, una soglia che l’uomo può superare scoprendo la verità ultima di quello che i suoi occhi constatano.

Esistono parabole, nel Primo Testamento, la cui caratteristica peculiare è quella di suscitare un’immediata reazione in chi le ascolta. Valga per tutti l’esempio di 2Sam 12,1-6: di fronte alla storia di Natan, David reagisce subito e con forza, comprendendo solo in un secondo momento e grazie alla parola del profeta il senso ultimo del racconto.

Le parabole raccontate da Gesù non sembrano avere un tale immediato impatto, almeno all’interno di Mt 13, ma suscitano sempre una domanda, quantomeno nei discepoli (Mt 13,10). Sono quindi molto efficaci dal punto di vista pedagogico. Raccontare, suscitare domande, tenere desta un’attenzione e lo spirito di ricerca è comunque conforme alla migliore tradizione ebraica, benché il mondo rabbinico non conosca ancora racconti lunghi e complessi: il mašal è in genere breve e incisivo.

Dopo il Discorso della montagna che esplicita la Torah di Gesù (cf. Mt 5-7), le opere del Messia che la avvalorano (cf. Mt 8-9), il discorso missionario che deve diffonderla (cf. Mt 10), il problema della fede e dell’incredulità nei confronti di Gesù nonostante le opere del Messia (Mt 11-12), ecco il discorso sul mistero del Regno (Mt 13).

Matteo non usa il verbo «insegnare», nonostante la postura di Gesù sia quella autorevole di chi insegna (ekatheto, 13,1.2, cf. 5,1), bensì «parlare» (lalein, vv. 3.10). Il suo tono è colloquiale e quotidiano, come le immagini a cui ricorre e che sono quelle di un mondo rurale o di villaggio. Tuttavia le parabole hanno una funzione discriminante (v. 11ss), strettamente legata alla rivelazione.

La «parola del Regno» (v. 19) cade con abbondanza su quattro tipi di terreno non sempre fruttifero. Il testo non parla di aratura, che al tempo di Gesù si faceva dopo la semina, come ha documentato G. Dalman (1937) e ricordato J. Jeremias (1967). Ancora una volta Matteo sembra insistere invece da una parte sull’insuccesso del seminatore, dall’altra su un frutto abbondante fino all’esagerazione («il cento», v. 23).

L’incipit solenne, nonostante il linguaggio e l’immaginario quotidiani, che prelude all’intera serie di parabole – «ecco, uscì» (idou exelthen, v. 3) – e l’uso dell’articolo «il seminatore» (ho speiron, participio presente, cioè «il seminante», v. 3), inducono a pensare che Gesù si identifichi con colui che semina e, dicendo in parabole la parola del Regno, parli di sé e di quel che sta facendo, compresi gli esiti infelici della sua semina già in parte sperimentati ai cc. 11-12.

L’intrinseca efficacia della parola di cui parla Is 55,10-11 riguarda il ritorno degli esiliati da Babilonia ed è soprattutto una parola di consolazione e di perdono diretta a un popolo che non si aspettava più nulla, ritenendosi inescusabile. Il profeta allora proclama che Dio non pensa come l’uomo: le porte della conversione e del perdono sono sempre aperte (vv. 8-9) e il ritorno sarà come una marcia trionfale in cui lo stesso paesaggio è trasfigurato (Is 55,12-13).

Gesù comunque non ha segreti per i discepoli, ai quali è dato di conoscere i mysteria del Regno (v. 11), perché qualcosa hanno già (v. 12); per gli altri tali mysteria sono come una luce troppo forte fino ad abbagliare, e quando si è abbagliati, si chiudono gli occhi e si resta al buio nonostante la luce.

La predicazione è destinata all’insuccesso e questo è una constatazione di fatto (v. 14). Matteo evita la frase finale che compare in Mc 4,12 limitandosi a prendere atto di una situazione e ricorrendo, ancora una volta, al testo di Isaia secondo i LXX (6,9-10) che, con il verbo al futuro, addolciscono l’imperativo del testo ebraico. Nessuna minaccia. Nessuna condanna, se non quella che ognuno si procura da sé.

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