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Le speranze ritrovate

III domenica di Pasqua

At 2,14.22-33; Sal 16 (15); 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

Almeno tre località si contendono la possibilità di essere identificate come la biblica Emmaus, menzionata anche nel Primo libro dei Maccabei e svariate volte da Flavio Giuseppe, ma non è certamente questo a catturare la nostra attenzione. Tanto più che Mc 16,12, che pare raccontare lo stesso episodio, si limita a parlare genericamente di «campagna» (eis agron).

Anche Luca, in realtà, dona meno attenzione al villaggio, ossia alla meta, che non al percorso che a esso conduce. Nel testo infatti dominano i verbi di movimento e il lessico del viaggio. Sono raccontati, nell’ordine: l’andare dei due discepoli accompagnati da Gesù, il loro resoconto delle donne che vanno al sepolcro e il successivo andarvi di «alcuni dei nostri», infine il ritorno dei due protagonisti a Gerusalemme.

Si narra dunque un continuo camminare, lungo il quale, per i due, cambia totalmente il modo di vedere le cose. Facendo la strada a ritroso per tornare a Gerusalemme han certo rivisto gli stessi alberi e cippi stradali e piccoli villaggi, fino alla città, ma certamente non l’hanno guardata e vista come prima.

«Nella sera dalle perdute speranze» – così il card. Montini nella festa del Corpus Domini del 1961 –, l’evangelista ci presenta però un percorso soprattutto attraverso il testo delle Scritture, quasi a dire che ogni itinerario di vita, per essere possibile, ha bisogno di una mappa. Chi ignorasse, del tutto o in parte, tale mappa rischierebbe non solo perdute speranze, ma anche perduti passi.

Comunque l’importante è il cammino, secondo la tradizione lucana, cammino che, tenendo conto di Lc 9,51, deve prima o poi corrispondere a una sequela. I nostri due discepoli, lasciando Gerusalemme prima che il Risorto lo abbia detto (cf. Lc 24,47; At 1,8), mostrano di voler iniziare qualcosa di autonomo, dettato non già dallo spirito di chi evangelizza, ma dalla delusione. Rispetto agli apostoli, chiusi nel cenacolo, han deciso di prendere le distanze. Non è detto che vogliano lasciare tutto in maniera definitiva, ma certamente sono in un momento a dir poco critico.

Colui che si fa presente e li affianca è irriconoscibile agli occhi (ekratounto tou me epignonai): evidentemente è lo stesso, ma è anche diverso, un corpo reale e trasfigurato che gli occhi sono come trattenuti dall’identificare.

Anche in questo caso, come nella vicenda di Tommaso, è in gioco il rapporto tra vedere e credere: il primo passo sarebbe, conoscendo e ripercorrendo le Scritture, di vedere in esse la spiegazione di quanto è appena successo. Ma, come sempre, occorre un maestro, qualcuno che aiuti ad averne l’intelligenza. Qualcosa di analogo accade in At 8,26ss: siamo di nuovo per strada, un personaggio eminente torna a casa sua da Gerusalemme, legge da un rotolo che non comprende. Lo affianca Filippo, che lo aiuta a collegare quello che legge (cf. Is 53,7-8) ai fatti appena accaduti. La dinamica è molto simile: rivelazione scritturistica e storia s’illuminano reciprocamente, purché si passi dalle «perdute speranze» alla voglia di cercare e di capire.

I nostri due viandanti, infine, si aprono all’ospitalità verso lo Sconosciuto e in un suo gesto epifanico lo riconoscono. L’ospitalità è determinante, perché avendo pur capito qualcosa, mostra che la loro ricerca non si spegne. Di fatto vorrebbero continuare la conversazione, capire sempre di più e sempre meglio. Al momento dell’agnizione riescono a cogliere e a manifestarsi reciprocamente anche i loro stessi sentimenti (cf. Lc 24,32) fino allora avvertiti, ma inespressi e non condivisi.

Luca ha una sottile vena ironica lungo tutto il racconto: pare impossibile che sia necessario un gesto finale, mentre lungo il percorso ci sia stato solo un ardore nel cuore, indistinto e incompreso. Perché una presenza non è fatta solo di parole, ma anche di voce, di espressione e di gesti, eppure tutto è passato come inosservato fino alla richiesta da parte dei due viandanti di diventare un compagno di vita, condividendo un tetto e una tavola.

Il Regno viene e si manifesta in questa condivisione: un ospite da casuale diventa familiare, da sconosciuto diviene più che amico, «in modo che solo chi crede comprenda, e solo chi ama possa veramente ricevere» (Montini).

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