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Le matrioske del coronavirus: sulla palliazione c’è ancora da lavorare

L’Istituto di studi bioetici «Salvatore Privitera» condivide questa riflessione, che vuole proporre all’attenzione di quanti si sono occupati dei problemi etici suscitati dalla pandemia da COVID-19.

La pandemia è stata – ed è ancora – una tragedia su più fronti. Nel sistema sanitario nazionale si è consumata, specialmente all’inizio, la sofferenza più grande. Un’analisi sulla complessiva, triste vicenda assistenziale che si è compiuta potrebbe portarci a parlare di una grottesca serie di matrioske. Infatti se apriamo la prima grande «scatola», data dalla tragedia della malattia, nell’estensione delle sue manifestazioni, nella sua imprevedibilità, nell’andamento travolgente, nella numerosità delle vittime, vediamo che al suo interno contiene un’altra tragedia più piccola: se è vero che di COVID-19 si può anche morire, come si muore?

A causa della congestione dovuta al rapido diffondersi del contagio, i reparti di rianimazione sono stati teatro di modalità angoscianti del morire; si è imparato a conoscere la sintomatologia riscontrata nelle battute finali della malattia, caratterizzata, in vario assortimento, da dispnea fino al soffocamento, angoscia di morte, agitazione, delirium.

Impreparati ad affrontare il “cattivo morire”

Com’è facile intuire, nelle intenzioni di chi ha operato al capezzale di questi ammalati, in queste drammatiche circostanze, ha prevalso la ferma intenzione del perseguimento della guarigione a ogni costo. Ma come si è affrontato, invece, il morire di chi stava per morire? Eccellente perizia rianimatoria raramente si accompagna a valida competenza palliativistica.

In altri termini, nei casi destinati a morte certa, l’opportunità di intervenire con manovre di cure palliative, con il controllo dei sintomi, la sedazione di quelli incoercibili, il perseguimento di non soffrire, l’accompagnamento a un buon morire, non solo in termini strettamente clinici, ma anche nella ritualità dell’umano commiato e del conforto, ha trovato, con qualche rara eccezione, una generica e diffusa impreparazione.

Si ha motivo di credere che, al di là delle buone intenzioni e delle ottime capacità professionali dei rianimatori, in una quantità mal definibile di situazioni cliniche siffatte, il diritto al buon morire garantito dalle cure palliative e sancito, fra l’altro, dalla Legge 38 del 2010 in questa tragica congiuntura della pandemia sia stato sottovalutato, se non trascurato o addirittura omesso. Il «cattivo morire» è, dunque, una matrioska più piccola contenuta all’interno della tragedia più grande.

Cenerentola in ospedale

Ma se apriamo anche questa matrioska ne troviamo un’altra ancora più piccola al suo interno.

Se la governance del sistema non ha saputo assicurare alle cure palliative lo spazio della loro legittimità è, evidentemente, perché alle cure palliative non si è saputo pensare; o forse non si è potuto, o voluto pensare.

Certo, quando tutte le risorse umane e le energie disponibili s’indirizzano vero l’ottenimento della guarigione per la maggior parte dei soggetti, pensare all’eventualità della loro fine è più o meno ostacolato, sia nei fatti che nelle intenzioni.

È così che, all’interno dei provvedimenti legislativi che a vario livello sono stati adottati, non si è saputo trovare spazio per le cure palliative e per l’applicazione sistematica dei loro paradigmi di cura; si è persino assistito alla soppressione di hospice per convertirne gli ambienti ad altri spazi di degenza. È successo a Palermo e a Catania.

Chi griderà per chi non può farlo?

Ed ecco la matrioska più piccola di tutte: l’impossibilità e l’incapacità di denunciare tutto questo, l’impopolarità che potrebbe rovesciarsi su chi si pronunciasse a favore delle cure di fine vita e il silenzio assordante che ne scaturisce. Questo è ciò che succede; nessuno parla della rilevanza fondamentale degli aspetti umani legati al morire dignitoso. La matrioska più piccola paradossalmente rappresenta l’aspetto forse più grande di tutti.

Va ricordato in modo incisivo che stiamo parlando di diritti, di dignità, di rispetto; di ciò che, in modo troppo spesso retorico, viene racchiuso nell’espressione «umanizzazione delle cure». Chi potrebbe gridare, al posto di chi non può più farlo? Un forte richiamo potrebbe partire dalla voce autorevole delle agenzie educative, dagli organi politici, dalla stampa.

Ma l’appello più forte potrebbe partire dalla Chiesa, la più autorevole espressione della coscienza collettiva sotto l’egida del credo più elevato che l’uomo può esprimere.

Ancora una volta – ma adesso più che mai – raccogliere bisogni non raccolti, esprimere le richieste lasciate a pesante eredità di chi resta, occuparsi di chi non ha più voce per averla perduta nell’ascolto di orecchie assenti nelle ultime fasi di vita, è un dovere morale fortissimo.

Certe dimenticanze non possono trovare valide difese.

 

Roberto Garofalo è dirigente dell’Unità operativa per le cure palliative della ASP di Palermo ed è presidente del Comitato etico dell’IRCCS Istituto mediterraneo per i trapianti.

Commenti

  • 04/06/2020 Roberto Garofalo

    Gentile Mario Accardi, purtroppo devo confermare che tutto quello che ho scritto non è un'opinione, ma la constatazione di dati di fatto. Concordo che la malattia "è spuntata dal nulla" e ci ha trovati spiazzati, ma la "dimenticanza" delle cure palliative è stata una dolorosa realtà in moltissime, troppe strutture sanitarie. Quanto descritto non vuole, nelle intenzioni, essere un atto di accusa nei confronti di nessuno. Piuttosto un accorato invito all'attenzione. La ringrazio molto per il contributo.

  • 29/05/2020 Mario Accardi

    Questa malattia è spuntata dal nulla e non poche cose c'erano da imparare, mi pare esagerato parlare di dimenticanze, anzi lo trovo enormemente fuori di luogo e soltanto opportunistico, sono molto addolorato dal fatto che colleghi autorevoli vestano tuniche bianche e non sappiamo dosare i loro interventi.

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