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In nome di...

XXVI domenica del tempo ordinario

Nm 11,25-29; Sal 19 (18); Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

 

«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni in tuo nome» (Mc 9,38). «In nome di...». È un’espressione non rara nella vita comune. Quando qualcuno ci chiede di essere raccomandato presso una persona nostra amica, si dicono frasi del tipo: «Ma sì, vacci pure a nome mio», «certo che puoi fare il mio nome» e così via. In queste circostanze si offre il proprio nome come una garanzia a favore di altri.

Le cose si presentano in modo molto diverso se un individuo, per proprio conto e senza chiedere il permesso, sfrutta il nome di un altro. Se ci si presenta di fronte a un personaggio autorevole e gli si dice: «Mi manda...» e ciò non corrisponde al vero, si compie una grave mancanza e si compromette la dignità quanto meno di tre persone: quella di cui si sfrutta il nome, quella a cui ci si rivolge, e sé stessi.

Anche in questo caso il Vangelo si pone agli antipodi della mentalità corrente. Prima di tutto l’accento batte non sull’accreditarsi ma sull’accogliere. Per comprenderlo bisogna riandare alla parte finale del brano evangelico letto la settimana scorsa: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37). Il nome altrui è chiamato in causa non già rispetto a colui che si presenta, bensì a colui che riceve. Ciò non comporta strumentalizzare la persona che si sta accogliendo. Infatti non lo si fa «per amore di Gesù» bensì «come Gesù», che proprio prima di pronunciare questa frase aveva abbracciato un bambino (cf. Mc 9,36). Si tratta di imitare e di obbedire. Pure Gesù ha agito in obbedienza, perciò chi accoglie lui accoglie colui che lo ha mandato e di cui egli ha fatto la volontà (Mc 9,36).

Il rovesciamento avvenuto a proposito dell’accoglienza si replica in occasione dell’uso del nome. La frase pronunciata da Giovanni – «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni in tuo nome e volevamo impedirglielo perché non ci seguiva» (Mc 9,38) – si colloca subito dopo il detto relativo all’accoglimento. Il discepolo non fa altro che denunciare uno sfruttamento non autorizzato del nome altrui, atto che, in base ai parametri da noi assunti nella vita quotidiana, ci sembra effettivamente riprovevole.

La risposta di Gesù capovolge questo atteggiamento. Non si chiama però in causa lo Spirito, che raggiunge chi vuole fuori da ogni confine prestabilito (cf. prima lettura, Nm 11,25-29). È indubitabile che sia così, tuttavia l’accento nel brano evangelico va in un’altra direzione. Più prosaicamente il non impedimento avviene perché Gesù sa che la sua è una vita da perseguitato, una situazione oggi condivisa da moltitudini di persone in varie aree del mondo: «Non glielo impedite (...) chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,39). Sembra poco, ma in determinate circostanze è invece già molto.

È di certo così per chi per due volte aveva già annunciato di dover morire per mano degli uomini (cf. Mc 8,31; 9,30-31). Giovanni aveva dichiarato l’intenzione dei discepoli di impedire all’esorcista di impiegare il nome di Gesù perché non era dei loro. La risposta del Maestro trascritta in termini correnti suonerebbe così: ci sono momenti in cui chi non ci è ostile è come se fosse già dalla nostra parte. L’accoglimento era circondato da istanze alte: chi accoglie un bimbo «nel mio nome accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37). Per l’uso non autorizzato del nome di Gesù ci si appella invece alla semplice non ostilità.

Nell’esistenza c’è posto tanto per la tensione che ci orienta verso l’alto, quanto per la consapevolezza di dover fare i conti con la prosa della vita. I perseguitati lo sanno e anche noi dovremmo saperlo, non foss’altro che in nome loro.

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