In nome di Lazzaro
XXVI domenica del tempo ordinario
Am 6,1.4-7; Sal 146 (145); 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
Nei Vangeli ci sono tante parabole. Esse contengono molti personaggi, nessuno tra di loro ha un nome, con un’unica eccezione: il povero Lazzaro (cf. Lc 16,20). Il particolare fu messo in luce già da Gregorio Magno, quando evidenziò che, di solito, sono più conosciuti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri. Consegnare all’anonimato colui che vive nel lusso e nell’ostentazione contiene di per sé un insegnamento: «Perché dunque il Signore, narrando di un povero e di un ricco, dice il nome del primo e tace quello dell’altro, se non per dimostrare che Dio conosce gli umili ed è vicino a loro, mentre non riconosce i superbi?» (Gregorio Magno).
L’intuizione è bella e, nella fede, è soprattutto vera: agli orecchi e sulla bocca di Dio sono gli umili ad avere un nome. Fermarsi qui sarebbe però arrestarsi sulla soglia. Occorre inoltrarsi in un paradosso: di Lazzaro in pratica conosciamo solo il nome. Si parla di lui, ma egli non parla mai né su questa terra, né nell’aldilà.
Egli è davvero povero. Per molti aspetti la sua figura è più evanescente di quella del ricco. Nel mondo collocato dopo la morte è quest’ultimo a parlare con padre Abramo, nel cui seno Lazzaro ora riposa tacendo. Neppure negli inferi egli riconosce il silente Lazzaro come un «tu» e proprio in ciò sta, forse, la sua condanna più vera. Allorché nella sua casa stava banchettando, il ricco non si accorgeva dell’esistenza del povero, negli inferi invece si ricorda di lui; lo fa però in modo strumentale, al fine di alleviare la propria arsura o per cercare di scampare dalla condanna i propri fratelli (cf. Lc 16,24.27). Anche nell’aldilà egli non si libera dalla mentalità di persona facoltosa che si serve degli altri. Ci sarà sempre «un grande abisso» (cf. Lc 16,26) tra lui e Lazzaro.
Lazzaro è diminutivo di Eleazaro, un nome che significa «Dio ha aiutato». La sua figura indica la persona che non è nelle condizioni di contare sull’aiuto umano, ma a cui Dio rivolge il proprio sguardo. Eppure nella sua esistenza, accanto alla porta del ricco, il povero patisce fame, piaghe e abbandono. In che modo Lazzaro è stato aiutato da Dio? La proiezione nell’aldilà, dove l’uno ha la ricompensa e l’altro la punizione, non ci basta. Il brano evangelico ci comunica qualcosa di più del detto talmudico secondo il quale nessuno può mangiare a due mense, quella di questo mondo e quella dell’aldilà (b. Berakot, 5a).
La parabola non si limita a trasmetterci questa prospettiva: godi di qua, patisci di là; soffri ora, gioirai nel seno di Abramo. Il suo scopo è anche quello di asserire che non abbiamo scusanti quando lasciamo i poveri languire alle nostre porte. Nella nostra umanità, nella nostra cultura, nella nostra tradizione religiosa troviamo sempre imperativi e insegnamenti sufficienti per consegnare alla colpa la nostra indifferenza: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31). In senso proprio «Mosè e i Profeti» vanno intesi come due parti della Bibbia ebraica (rispettivamente il Pentateuco e i libri storico-profetici); in senso lato indicano ogni parola che ci comanda di aiutare gli altri. Il nome di Lazzaro, che contiene in se stesso l’idea dell’aiuto divino, si muta in metro di giudizio per bollare la mancanza di aiuto umano. La collocazione di una parte della parabola nell’aldilà mette in rilievo la nostra responsabilità nell’aldiquà.
La figura del povero rappresenta colui che è respinto e rifiutato. La chiusa della parabola è dotata di una trasparente allusione post-pasquale. Luca termina il proprio Vangelo affermando che la morte e la risurrezione di Gesù sono conformi a Mosè e ai Profeti (cf. Lc 24,27.44). Come dato di fatto, nel corso della storia cristiana l’asserzione ha portato acqua al triste mulino dell’antigiudaismo: gli ebrei, pur avendo le Scritture, rifiutano di credere in Gesù Cristo morto e risorto. Oggi prendiamo le distanze da questa lettura colpevolizzante. Quanto ci preme sostenere è che Gesù è povero perché rifiutato.
Senza questo accadimento egli non avrebbe potuto identificarsi con tutti coloro che nella vita sono miseramente respinti. Secondo Luca le ultime parole pronunciate da Gesù prima di morire sono: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 24,46; Sal 31,6). Sulla croce Gesù diventa Lazzaro. Egli confida nell’aiuto di Dio là dove cessa quello umano; così facendo diviene compagno di tutti i poveri che, ponendo la loro speranza nel Signore, si trasformano in occasione di giudizio nei nostri confronti (cf. Mt 25,31-46).