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Il cielo sopra il bambino

Epifania del Signore

Is 60,1-6; Sal 72 (71); Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12

          C’è un personaggio silenzioso ma eloquente, che pare avere un ruolo decisivo in questo racconto di Matteo: il cielo.

          Il cielo parla, come già aveva detto il salmista (Sal 19,4-5, trad. di Alonso Schökel): «Senza che parlino, senza che annuncino, / con voce inudibile, / il loro proclama raggiunge tutta la terra, / il loro linguaggio i confini dell’orbe». Del resto altri grandi personaggi avevano guardato il cielo per sapere o per avere conferme, a cominciare da Abramo (Gen 15,5).

          I magoi lo hanno scrutato interpellandolo forse per lungo tempo, ed esso ha risposto con una stella che li induce a partire, li guida, ma scompare all’improvviso quando già sono per via, e riappare quando oramai sanno dove andare.

          Sempre il cielo notturno, portatore di sogni, spinge indirettamente il racconto a una conclusione drammatica sia per il bambino appena nato, che dovrà fuggire per salvarsi, sia per i bambini di Betlemme, che saranno vittime di un contrasto tra regni: quello di Erode e quello del re dei Giudei.

          Tale contrasto pare davvero al centro dell’interesse di Matteo, che non ha parlato di angeli e pastori, ma solo di questi sconosciuti personaggi che vengono da lontano e, per un colpo di scena a opera del cielo, si devono rivolgere a Erode, il quale non è «re dei Giudei» e neppure giudeo, ma «re della Giudea». Parlargli di «re dei Giudei» causa in lui, e non solo in lui, un grande turbamento. Troppe sono le coincidenze: una stella, un bambino, Betlemme, da cui il riferimento a David. La vera domanda è chi sono costoro che lo interpellano e che interesse possono avere.

          La tradizione e anche la nostra liturgia – come conferma la prima lettura della solennità – parlano di saggi pagani, astronomi o piuttosto astrologi; tuttavia Matteo non è l’evangelista della raccolta dei pagani. Per lui Gesù è il pastore delle «pecore perdute della casa d’Israele» (15,24), alle quali manda anche i suoi apostoli (10,6). Pare perciò interessante l’ipotesi (Michelini) che si tratti di appartenenti a una diaspora ebraica, per esempio discendenti degli esiliati a Babilonia che non erano tornati.

          Conoscevano qualcosa della tradizione dei padri e ne coltivavano memoria e attesa, ma erano come assimilati, avendo accolto almeno in parte la cultura non propriamente magica, ma almeno astrologica del paese d’esilio, divenuto il loro paese.

          Il cielo ha ora confermato quel qualcosa che hanno sentito delle antiche tradizioni. Essi sono le «pecore perdute» che sono al seguito di un segno, che cercano di interpretarlo, e le uniche che si muovano quando appare. Peraltro è una diaspora che non è conclusa, perché alla fine del racconto i magoi tornano al loro paese (eis ten choran auton, v. 12), senza essere interessati a riedificare il regno di David.

          È come se a loro fossero bastati il gusto della ricerca e il piacere della scoperta, che hanno suscitato «una gioia grandissima», che Matteo proclama con straordinaria abbondanza di termini: echaresan, charan megalen sphodra, alla lettera «gioirono di gioia grande moltissimo» (2,10).

          Nel contrasto tra ciò che è grande, come Erode, e ciò che è piccolo, come il bambino, essi scelgono il piccolo e la loro diaspora nella quale, eventualmente, raccontare ciò che hanno visto, riprendendo senza saperlo l’intuizione del Secondo Isaia, che aveva interpretato l’esilio come la via, per Israele, di far conoscere il vero Dio alle nazioni.

          Questo loro tornare indietro contrasta con la grandiosa visione del Secondo Isaia, che vede gli stranieri in cammino verso Gerusalemme portando in braccio i figli d’Israele e accompagnandosi con ricche carovane. Is 60 descrive questo pellegrinaggio nei dettagli presentandolo anche come una rigenerazione della città.

          Il capitolo – che si apre con la visione di Gerusalemme nel chiarore dell’alba, sotto il segno della luce divina, e si chiude dicendo che il sole è ben poca cosa, perché lo splendore della città sarà Dio stesso che agirà speditamente «a suo tempo» (Bü`iTTah ´áHišeºnna, 60,22) – lascia in sospeso il «quando» del compimento della promessa.

          Ai magoi che hanno memoria e attesa lontane è necessario scrutare il cielo per coglierne i segni.

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