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Etica per il COVID-19. Un gregge o un popolo

Hanno fatto molto scalpore le affermazioni del primo ministro inglese Boris Johnson, relative alle politiche da adottare per contenere e superare l’epidemia da COVID-19 (meglio noto come «coronavirus»).

Il piano di Johnson è quello di adottare modeste misure di contenimento, lasciando che il virus faccia il suo corso in modo da infettare, il più delle volte in modo non grave, almeno il 60% della popolazione. Questo perché superando tale percentuale si avrebbe la cosiddetta herd immunity, cioè l’«immunità di gregge».

Si tratta di un concetto epidemiologico applicato in genere alle vaccinazioni, secondo il quale avendo una data copertura immunitaria si ha una minore circolazione del virus, e quindi la copertura dei non contagiati da parte dei soggetti immunizzati e un conseguente declino del contagio. Detto in termini un po’ banali, è come se il virus trovasse tutte le porte chiuse, non potendo più contagiare.

Una situazione inedita

L’obiettivo è quello che stiamo cercando di ottenere con le drastiche misure adottate dal governo italiano e, in misura più o meno simile, anche da altri paesi. Se calcoliamo che la popolazione inglese è di circa 66 milioni di abitanti, il 60% è costituito da quasi 40 milioni. Se consideriamo una mortalità media del 4% (è stata poco più del 3% in Cina e il 6 % circa in Italia), questo comporterebbe la morte di circa 1.500.000 persone.

Con freddo cinismo Johnson ha aggiunto che ci si deve abituare a veder morire i propri cari. Oltretutto non sappiamo i tempi entro cui tale 60% di copertura immunitaria potrebbe essere raggiunto. Fin qui il dato scientifico e di cronaca.

Sul piano delle valutazioni etiche non possiamo non tener conto che ci siamo trovati di fronte a una situazione nuova, impotenti nonostante l’alta tecnologia dei nostri giorni.

Nei confronti di tale infezione abbiamo utilizzato metodi non molto diversi da quelli dei secoli passati, ad esempio per la peste di manzoniana memoria, cioè contenere il più possibile la circolazione del virus.

Nonostante la drasticità dei provvedimenti e il disagio che stanno creando a tutti, la conseguente crisi economica che ne seguirà e anche i danni psicologici per molti, attualmente non abbiamo altre misure per contenere il diffondersi dell’infezione. E, si badi bene, sono pur sempre misure parziali: è parziale l’uso di mascherine, il distanziamento interpersonale, l’evitare i contatti fisici e gli assembramenti, l’igiene delle mani, ecc.

Si sta facendo tutto questo per salvare il più possibile tutti noi da un contagio, che nella maggior parte dei casi porta solo a una brutta influenza che non necessita neanche di ricovero, in altri a una breve degenza, in altri ancora – per fortuna pochi – a complicanze gravi e al decesso. La maggior parte di morti tuttavia, avviene in pazienti anziani e/o già debilitati per altre patologie.

Il significato di una scelta

Pertanto, dire di lasciar diffondere il virus significa innanzitutto non aver alcun rispetto per la vita umana, quella stessa che a prezzo di grandi sacrifici tutti noi (tranne qualche irresponsabile, isolato o in gruppo) stiamo responsabilmente cercando di tutelare. Significa non aver rispetto per le centinaia di operatori sanitari che stanno combattendo ogni giorno a rischio della propria incolumità per curare le persone affette.

Significa anche non aver rispetto per la tragica scelta che si sarà costretti a fare nelle rianimazioni tra pazienti da far accedere alle stesse e non: i posti letto sono inferiori al possibile numero di utenti che ne potranno usufruire operando, purtroppo, delle scelte dolorose. Significa non aver rispetto per i sentimenti di chi perderà una persona cara (dicendo che «ci si deve abituare»), foss’anche il nonno anzianissimo o destinato a morire per altre patologie

Significa «mandare al macello» una popolazione, non diversamente da quanto si faceva in guerra ma con l’aggravante che qui qualcosa si può fare. Tutto vorremmo fare di più e stiamo facendo enormi sacrifici. Non si erano mai visti tutti i locali e le chiese chiuse, le udienze papali in videoconferenza, la sospensione di tutte le attività.

Unirsi dai balconi

A mio avviso i vari flashmob organizzati sono proprio il segno di una ritrovata solidarietà umana, al di là delle espressioni politiche, ideologiche, culturali o religiose.

Sotto questo punto di vista il coronavirus è stato quanto di più democratico abbiamo visto in questi ultimi anni, colpendo in egual modo il calciatore, il politico, il professionista, il disoccupato. E quelle persone, che cantavano dai balconi, quasi affacciandosi da una forzata prigionia nell’auspicio di una prossima «liberazione», sono state forse la testimonianza più commovente di questo periodo in cui, probabilmente, ci siamo trovati uniti come popolo più di quanto non avessimo mai fatto in passato. Il coronavirus ha fermato l’Italia, non la speranza.

 

Salvino Leone, medico, è presidente dell’Istituto di studi bioetici Salvatore Privitera di Palermo. Tra le sue opere più recenti Bioetica e persona. Manuale di bioetica e medical humanities, Cittadella, Roma 2020.

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