Effatà, apriti
XXIII domenica del tempo ordinario
Is 35,4-7; Sal 146 (145); Gc 2,1-5; Mc 7,31-37
Il brano che riporta la guarigione del sordomuto è ambientato in un mondo «altro». Non solo il protagonista è colpito negli organi stessi della comunicazione, orecchio e di conseguenza lingua, ma anche il territorio in cui ci si trova è fuori dai confini della terra d’Israele: si è nella Decapoli. Non solo: si sta tornando dall’ancor meno prossima Tiro, dove Gesù aveva liberato dal demonio la figlia della siro-fenicia (Mc 7,24-30).
«Altro» è pure il luogo della guarigione avvenuta in disparte, lontano dalla gente: «Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando verso il cielo, emise un sospirò e gli disse “Effatà”, cioè “Apriti!”» (Mc 9,32-34). Prendere le distanze dalla gente, in questo caso, sembra significare la volontà di condividere la difficoltà di comunicare propria del malato.
Gesù tocca corporalmente con gesti da taumaturgo l’orecchio, in modo ancor più invasivo pone la propria saliva sulla lingua dell’ammalato e sospira. Questo gemito, non ancora fattosi parola, è segno forte e tangibile di condivisione da parte di Gesù del mutismo del sordomuto. Quando infine il sospiro si muta in parola imperativa, Marco sceglie un termine (non occasionalmente conservatoci nella lingua stessa parlata da Gesù) quasi onomatopeico che conserva in se stesso una risonanza del soffio gemente: «“Effatà”, cioè “Apriti!”».
Sulle sue labbra appare un sospiro semitico. Il punto d’inizio è sempre la condivisione del dolore altrui. Di fronte alla sofferenza del sordomuto la parola è esito ultimo, essa non deve giungere troppo presto. Moltiplicare precocemente le parole significherebbe mettere subito in campo la propria forza quasi contrapposta all’altrui debolezza.
La parola precoce o quella impudica sono due modi per ricacciare dall’«altra parte» il dolore muto. La parola ultima in Gesù è però anche performativa, il suo dire diviene un fare. Essa opera sul corpo. È preceduta dai gesti, ma a dischiudere gli orecchi e a liberare la lingua è solo la parola: «Effatà”, cioè “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e parlava correttamente» (Mc 7,35).
«E comandò loro di non dirlo a nessuno, ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano» (Mc 7,36). Proprio ora che si è in grado di udire e di parlare l’ordine disatteso è quello di mantenere il silenzio. È un comando tipico del Vangelo di Marco (cf. 1,25.44; 3,12; 5,43; 8,26.30; 9,9).
Al riguardo del cosiddetto «segreto messianico» sono state proposte molte interpretazioni; esso resta infatti non semplice da comprendere, specie nel rapporto che intercorre tra l’imperativo di Gesù e il fatto di non essere mai messo in pratica. Tuttavia nel nostro caso è lecito seguire anche una semplice suggestione. Gesù dapprima condivide il mutismo, poi manifesta l’efficacia della sua parola, infine ordina vanamente di tacere a chi è capace di parlare. Nella parte estrema della sua vita Gesù si fece di nuovo muto e tenne chiusa la bocca di fronte a coloro che lo opprimevano (cf. Mc 14,61, 15,5). Per commentare questa situazione si possono citare un paio di versetti tratti dai Salmi: «Tendono agguati quelli che attentano alla mia vita [...]. Io come un sordo non ascolto e come un muto non apro bocca» (Sal 38,14). Quando prevale la violenza la parola ammutolisce; anche questa fu un’esperienza umana condivisa da Gesù.